Zardin, D. (2001) La "religione popolare": interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca. Memorandum, 1, 41-60. Retirado em   /  /  , do World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/ ~memorandum/artigos01/zardin01.htm.

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La “religione popolare”:
interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca
 
"Popular religion": historiographical interpretations and research hypothesis
 
Danilo Zardin
Università Cattolica Sacro Cuore
Italia
 
 
Riassunto
Riesame di una impostazione di pensiero che ha condizionato, nel corso di tutto il secondo dopoguerra, il complesso delle ricerche specifiche volte a fare luce sull’impianto religioso della civiltà cristiana medievale e moderna, abbracciate nella loro globalità, anche nelle loro manifestazioni più generali e condivise (“popolari”), non solo collocandosi al livello delle punte intellettuali più avanzate, inseguendo ruoli e strategie dei gruppi sociali eminenti o l’azione di governo imbastita nei luoghi di organizzazione del potere. Una pluralità attraversa il corpo sociale mettendo in connessione, in forme libere e elastiche, i dati costrittivi del sistema religioso ereditato, non generato in isolamento.
 
Parole chiave: religiosità popolare; religiosità popolare e Chiesa; religiosità popolare e società.

 

Abstract
Review of an intellectual approach that conditioned, during the post-World War II, the set of specific research focused on the religious matrix of the medieval and modern Christian civilization, taken as a whole, also in its more generalized manifestations ("popular"), not only from the perspective of the most advanced intellectual positioning, in the roles and strategies of the most eminent social groups or in the action of the government that. A plurality cuts through the social body, connecting - in elastic and free forms - the constrictive data of the inherited religious system, which was not generated in an isolated way.
 
Keywords: popular religiosity; popular religiosity and the Church; popular religiosity and society.

 

 
 

Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.

Così Carlo Levi (1965, p.102), nel suo affascinante racconto autobiografico pubblicato non a caso con il titolo di Cristo si è fermato a Eboli, descriveva negli anni quaranta i contadini di Lucania conosciuti durante il confino, al di là delle barriere che tenevano ancora separato il mondo meridionale più appartato e tradizionalista, refrattario alle conquiste della modernità, dal resto dell’Italia ‘civilizzata’ (1). Tra santi taumaturghi e Madonne protettrici delle messi, filtri, streghe, magie, processioni esuberanti, cupi amori animaleschi e ossessive presenze di spiriti, angeli e demòni, l’immagine proposta da questo fin troppo fortunato libro rifletteva in maniera emblematica, in realtà, più che la condizione storica dei poveri villaggi del nostro Meridione ‘interno’, l’atteggiamento culturale con cui ad essi guardava, e attraverso il quale li giudicava, il colto osservatore venuto da un altro mondo lontano. Affiora qui una reinterpretazione del mondo popolare e dei modi della sua religiosità istintiva che risulta con ogni evidenza innestata sul tronco di luoghi comuni e motivi polemici ereditati, a loro volta, da una robusta tradizione della cultura ‘alta’. Definiamo emblematica la posizione espressa da Levi – e per questo abbiamo voluto richiamarla come spunto di esordio – per il fatto che, nella scia imprevedibile dei movimenti di circolazione delle idee e dei topoi letterari che presiedono ai meccanismi di citazione, essa ha curiosamente attirato l’attenzione ed è stata ripresa come indicazione da assecondare da molti (molti fra i più illustri) studiosi che si sono occupati, anche solo lateralmente (e proprio qui l’influenza degli schemi culturali preconfezionati si fa sentire con forza maggiore), di società e religione nel mondo europeo tradizionale: da Braudel a Delumeau, a Carlo Ginzburg, fino ad altri più giovani e meno noti ricercatori che ne hanno proseguito le piste di indagine (2). Una impostazione di pensiero fortemente omogenea, si può dire, ha condizionato, nel corso di tutto il secondo dopoguerra, il complesso delle ricerche specifiche volte a fare luce sull’impianto religioso della civiltà cristiana medievale e moderna, abbracciate finalmente nella loro globalità, anche nelle loro manifestazioni più generali e condivise (appunto: ‘popolari’), non solo collocandosi al livello prestigioso delle punte intellettuali più avanzate, inseguendo ruoli e strategie dei gruppi sociali eminenti o l’azione di governo imbastita nei luoghi di organizzazione del potere (3).

I tratti distintivi di questa concezione predominante e largamente tradizionale di religiosità popolare, che ha trovato la sua espressione forse più organica nello schema interpretativo della storia religiosa europea delineato, in anni ormai non più tanto recenti, dal già menzionato Jean Delumeau (4), possono essere ricondotti a due nodi fondamentali: da una parte si tende ad accentuare il lato irrazionale, magico, infantile, primitivo della religione popolare; in secondo luogo se ne sottolinea l’arcaicità, in una prospettiva di lunghe durate che privilegia gli elementi di permanenza. La religione dei ceti popolari viene vista essenzialmente come un prodotto spurio, una forma di sincretismo in cui il sacro si confonde con il profano (o con il ‘pagano’), la fede è riplasmata a partire dai bisogni più materiali dell’esistenza e l’insegnamento della chiesa risulta grossolanamente alterato (5). Inoltre la religione popolare appare quasi condannata a riprodursi in maniera meccanica, senza farsi scalfire in profondità dagli sviluppi della dottrina, dall’ammodernamento delle istituzioni e delle loro norme prescrittive, dall’influsso delle cicliche ondate di cristianizzazione controllate dalla gerarchia ecclesiastica: cambiano le forme esteriori, cambia magari la scenografia teatrale della pietà collettiva, ma la sostanza si perpetua inesorabilmente nel tempo. Dietro il volto dei santi e delle Madonne invocati come taumaturghi e patroni potenti riemergono, se si va a scavare a fondo, con intenzione di demistificare, i volti delle antiche divinità precristiane. Il calendario mantiene fermo il primato delle feste ereditate dal più remoto passato. La geografia dei luoghi di culto e degli spazi sacri, che marcano la gerarchia differenziata dell’ambiente e aprono canali privilegiati cedendo all’irruzione divina nelle pieghe della vicenda umana (sorgenti, fontane, alberi magici, forze vitali della natura feconda, il territorio liminale del saltus che resiste all’espansione colonizzatrice della cultura civile e dell’ager), si oppone, allo stesso modo, con tutto il retaggio dei suoi santuari extraparrocchiali, i suoi segni figurativi e i suoi rituali dotati di più tenace capacità di attrazione (6), al ricambio delle credenze ufficiali, allo sforzo di riadattamento e di riconversione pedagogica delle forme religiose tradizionaliste promosso dagli interpreti accreditati della religione ‘prescritta’.

Le fonti intellettuali più dirette di questa visione della religione ‘degradata’ vanno probabilmente ricercate, sul piano ‘tecnico’ della catalogazione e della valutazione storico-critica, nella scienza delle arti e delle tradizioni popolari (il folklore) maturata nell’élite culturale europea del XVIII-XIX secolo, cioè con l’approfondirsi del distacco del ceto colto più attrezzato – laico ed ecclesiastico – dal sistema complessivo del vivere (e del pensare) rimasto dominante fino alla crisi dell’antico regime, fenomeno che si unì al parallelo incremento, verso l’esterno, della ricerca di tipo etnologico: tra il selvaggio delle civiltà extraeuropee arretrate, il popolo semipagano dell’Europa dei secoli bui e le masse dei suoi eredi dispersi nelle aree più sfavorite e conservatrici ancora nell’età che vide la fortuna delle battaglie illuministe e poi l’avvio della prima modernizzazione borghese e industriale, si stabilì silenziosamente una simbiosi che rischiava di far dimenticare le differenze e non aiutava a comprendere ciò che, persi i connotati della familiarità condivisa, cominciava sempre più a profilarsi come l’altro da sé.

Proprio nelle cerchie di eruditi e polemisti del Settecento non è raro imbattersi in osservatori inquieti apertamente inclini a stabilire un esplicito nesso fra queste realtà, pur così diverse fra loro, che ingombravano il campo della loro esperienza di rapporto con il mondo, perlopiù sentite come oscuramente minacciose e da redimere, in taluni casi capovolte nel sogno dell’arcadico ritorno a una ingenuità delle origini ormai dissolta per sempre, e per ciò stesso elevata ad arma di critica paradossale contro i guasti del conformismo che restava dominante (7). Ma i teorici settecenteschi e dell’età romantica sono solo una fra le fonti riconoscibili. L’immagine del mondo contadino e popolare che ne enfatizza l’alterità e la distanza nasconde e rielabora in sé motivi e radici che affondano, come già è stato accennato, in una tradizione ben più articolata ed antica di atteggiamenti consolidati, in modo particolare in un tipo di sensibilità religiosa ‘elevata’, o per meglio dire clericale, coltivata dai vertici responsabili delle chiese cristiane moderne, che vanta alle sue spalle una storia di spessore millenario. Vi si avvertono, più da vicino, gli echi del rigorismo spiritualista cresciuto, tra Sei e Settecento, nel seno e a fianco del giansenismo francese, sull’onda della ben regolata pietà muratoriana, sotto la spinta dei movimenti di rigenerazione delle confessioni riformate del nord Europa. Risalendo all’indietro nel tempo, il senso della superiorità culturale, istigatore delle strategie di recupero ‘militante’ del diverso proiettato fuori di sé, si è nutrito richiamandosi anche al modello della vigorosa offensiva contro la magia, le superstizioni e gli abusi popolari lanciata dalle élite della prima, più aggressiva, Riforma protestante e dell’energica, qui in tutto speculare, Controriforma. Prima ancora, incisive armi critiche erano state offerte dalla volontà di recupero della norma ideale dell’antico e della purezza originaria del cristianesimo primitivo, riattualizzata dai fermenti intellettuali dell’Umanesimo e confluita nei diversi rivoli dei circoli devoti dell’età rinascimentale, schierati a difesa del distacco aristocratico dai linguaggi e dai costumi dei ceti ‘bassi’, nell’alveo di un erasmismo o di un ‘evangelismo’ pluriformi e capillarmente infiltrati in tutta la cultura dotta dell’Europa del primo Cinquecento. Precedenti ancora più illustri e codici espressivi altrettanto direttamente funzionali agli scopi della battaglia polemica potevano essere assimilati mettendosi alla scuola della tradizione teologica e del più esigente magistero spirituale della chiesa medievale, paragonandosi con i documenti e le memorie agiografiche delle forze animatrici delle prime ondate di espansione della nuova fede nei mondi rurali e periferici rimasti a lungo ai margini delle aree di influenza della più antica cristianità mediterranea. Se non ci si voleva poi spingere, in un vertiginoso ritorno al punto d’inizio, fino al deliberato paragone con i grandi padri della chiesa dei primi secoli, già allora sollecitati ad arginare tradimenti e deformazioni degli ideali proposti in mezzo alle folle di fedeli comuni che andavano dilatandosi, a scapito della loro compattezza e qualità interne difficili da preservare nel passaggio al rango di religione trionfatrice, nei quadri del mondo romanizzato e orientale dell’ultima classicità latina e dell’ellenismo.

L’elemento di maggiore continuità, in questo incessante riemergere e saldarsi a vicenda, sul filo dell’evoluzione storica, di schemi intellettuali organizzati in forma di stereotipo negativo, va colto nel presupposto di fondo che sta alla base della lunga guerra di posizioni contro la religione folklorizzata o semipagana (8). Ogni volta che ha preso forma compiuta, non di rado demolitrice e aggressiva, la polemica è scaturita dalla messa a confronto della religione popolare con una concezione più ‘alta’, superiore e possiamo dire elitaria, del fatto cristiano inteso come patrimonio di una fede consapevole, pura, fortemente esigente sul piano etico, chiaramente (o anche rigidamente) definita nelle sue dottrine e nelle pratiche di culto: la religione prescritta, la religione ‘autentica’ insegnata dalle autorità della chiesa e seguita, non senza scarti e tentennamenti, dalle sue cerchie illuminate, dalle figure esemplari dei santi proposti come modelli imitabili, dalle schiere anonime dei fedeli più docili e disciplinatamente osservanti. Di fronte a questo paradigma severo, la religione incarnata nelle masse dei semplici può facilmente configurarsi come riduzione alleggerita, come distorsione, alterità da correggere e da addomesticare. E chi si trova ad entrare in rapporto con essa – in sede di pratica convivenza esattamente come in termini di definizione storiografica ed etica – è portato a stendere su di essa un velo di ombre pesanti, riproducendo la stessa logica di giudizio di riformatori, polemisti e pastori che in ogni tempo l’hanno combattuta alla luce di un ideale da restaurare.

 
 

Riabilitazione della cultura popolare?

Nonostante i nobili precedenti cui può riallacciarsi, l’immagine ‘primitivista’ della religione popolare è oggi esposta da più parti a critiche convergenti, maturate più sul terreno dell’affinamento interpretativo delle scienze sociali che non in forza di un’autonoma revisione riequilibratrice delle categorie storiografiche e degli strumenti concettuali della cultura religiosa di matrice più strettamente confessionale, coinvolta come diretta parte in causa in una tensione ereditata dalle vicende secolari della cristianità.

Ricorrendo a una comoda simbologia presa a prestito dal linguaggio della politica, si può immaginare che la si contesti da destra e da sinistra. Da ‘destra’, quando appare che la sua assolutizzazione induce a problematizzare oltre ogni misura di accertabile ragionevolezza, fino in pratica a svuotarlo, lo spessore religioso della civiltà europea tradizionale: basti qui richiamare la drastica lettura revisionista di Delumeau ai danni di quella che egli definisce la “leggenda del medioevo cristiano”, condotta all’insegna del sistematico ridimensionamento della capacità di presa delle istituzioni ecclesiastiche e dell’inevitabile ‘folklorizzazione’ manipolatrice subita dalla proposta da esse veicolata. Ma la rottura del credito muove anche ‘da sinistra’, perché la critica della reinterpretazione popolare della religione comune sembra di fatto implicare l’irrigidimento in senso sovrastorico di un nucleo permanente, in sé organicamente strutturato, oggettivato, della dottrina cristiana come patrimonio che si tramanda nel tempo e dei contenuti di fondo delle funzioni assegnate alla medesima istituzione ecclesiale. Se c’è un popolo che tradisce o deforma, ci deve essere anche un patrimonio di norme che viene alterato nel momento in cui lo si accoglie. Se si critica la religione impoverita delle masse, si afferma al contempo un ideale positivo esterno a cui ci si rapporta come criterio penalizzante di giudizio. Vi è anche un risvolto ideologico, più o meno esplicito a seconda dei casi, in questo tipo di obiezioni ‘da sinistra’ alla riduzione della cristianità popolare a fenomeno di scarto, risvolto legato al fatto che lo spettro polemico della religione superstiziosa e mondanizzata può facilmente trasformarsi in estrema risorsa strategica per riportare in primo piano, in contrapposizione alle forme storiche della cristianità del passato, la superiore validità di un modello di religione purificata nei suoi nuclei intellettuali e negli stili di organizzazione ritenuti essenziali: ciò che vuol dire muoversi sempre nella logica di una moderna battaglia controversistica e a modo suo ‘apologetica’, caricata, nell’impatto con la materia concreta della ricostruzione storica, di intenti moralizzatori e di ‘riforma’ rivolti simultaneamente alla critica dello stato, tuttora avvertito decaduto e carente, della chiesa-istituzione del tempo presente, in una linea che può suscitare diffidenze e sospetti di forzature proprio per questa sua strutturale tendenza a intrecciare le ragioni delle controversie dell’oggi con i filtri dell’indagine rievocativa applicata a un mondo che si è dissolto in frammenti dispersi (9).

Una espressione fra le più significative di questa critica che schematicamente qualifichiamo ‘di sinistra’ può essere individuata in un denso intervento che alla definizione preliminare dei termini del problema ha dedicato Jean-Claude Schmitt nel 1976 sulle pagine delle (soprattutto allora) influenti “Annales” parigine. Il testo è stato quindi riproposto nell’ambito di un importante convegno su Religione e religiosità popolare tenutosi presso l’Istituto di studi di storia sociale e religiosa di Vicenza nell’ottobre dell’anno successivo (10).

Il contenuto della riflessione di Schmitt – ma in una direzione convergente è andata procedendo la messa a punto metodologica di larghi settori della ricerca storica internazionale, in modo particolare storico-antropologica e soprattutto anglosassone: basti qui fare i nomi di Natalie Zemon Davis e Robert Scribner (11) – può essere così riassunto. La religione, nel mondo della civiltà tradizionale (il discorso è riferito in modo specifico al medioevo), possiede un campo di estensione estremamente vasto. Informa ogni rappresentazione che gli uomini si fanno delle loro attività e del loro ruolo nel mondo, e non può essere scissa dal contesto globale in cui è inserita, cioè dal complesso della cultura popolare (o “folklorica”, come Schmitt mostra di preferire) presa nel suo insieme. All’interno di questo patrimonio collettivo dotato di una consistenza largamente autonoma, di una sua organicità e originalità (per usare il gergo tecnicamente più sbrigativo: considerato in termini olistici), anche le componenti più anomale della religione popolare (magia, inclinazioni superstiziose, stregoneria, ricerca del miracolo, devozioni extra-liturgiche) devono aver assunto significati culturali reali e svolto funzioni storicamente rilevanti. La loro accettazione si inseriva nel quadro di un modello particolare di razionalità, indubbiamente diverso da quello impostosi come dominante dopo la rivoluzione scientifica moderna, lo sviluppo economico e le ultime trasformazioni sociali dell’Occidente; ma in cui bisogna riconoscere la forma specifica secondo cui si sono articolati – date certe condizioni intellettuali e materiali – la visione del mondo e il suo fondamento religioso in una determinata epoca. Più che a partire dal paragone estrinseco con un modello codificato di religione allo stato ‘puro’, la religiosità popolare andrebbe dunque accostata come elemento di un sistema in sé coerente, efficiente, strutturato, che vive, si riproduce, cambia e declina secondo una sua, riconoscibile, logica propria. Nel tessuto del continuum culturale che lo sostiene geneticamente, non è facile isolare, per contrapporle radicalmente fra loro, pietà ortodossa, superstizione e forme magiche deteriori, nel senso che noi attribuiamo a questi concetti o che di volta in volta vi attribuivano i loro censori del passato. Nemmeno entrano a comporre una cultura organica fattori che, in prospettiva astrattamente ‘archeologica’, possono sembrare inerti sopravvivenze e semplici residui delle fasi storiche precedenti o arcaiche: “Non c’è niente di ‘sopravvissuto’ in una cultura – scrive Schmitt -, tutto è vissuto o non esiste affatto”; dal momento che “un’esperienza non ha senso se non nella sua coesione presente” (12).

Nel corso del convegno vicentino a cui ci riferiamo come momento emblematico di discussione, le tesi di Schmitt sono state difese e rafforzate da Carlo Ginzburg, il quale pure ha insistito sulla piena dignità, la coerenza e lo sfondo antropologico-folklorico unitario della religione popolare. L’esempio recato a sostegno delle sue argomentazioni è provocatorio nel suo estremismo, ma proprio per questo illuminante per comprendere la logica di fondo di questa modalità di approccio al problema: esiste oggi, per noi, un rapporto di reciproca esclusione tra religione e magia, ma il senso di questa inconciliabilità si è affermato pienamente nella cultura europea in una fase determinata, all’incirca fra Sei e Settecento, parallelamente alla distinzione tra scienza e magia. “Proiettare all’indietro questa duplice rottura – commenta Ginzburg – sarebbe anacronistico”: “assumere il punto di vista adottato allora da inquisitori, predicatori e confessori significherebbe semplificare e distorcere la complessità di quella cultura (che essi si proponevano di disciplinare)” (13).

Non si può a negare a una simile impostazione titoli di legittimità. Selezionando nella vasta casistica che si potrebbe radunare per documentarlo, ci limiteremo a richiamare un unico episodio rivelatore, segnalato del resto nella stessa occasione vicentina di confronto scientifico, in sede di conclusioni, da Gabriele De Rosa (14): un sinodo campano del XVII secolo condanna l’usanza di impastare farina nel momento in cui, nel giorno di Pasqua, le campane venivano sciolte e riprendevano a suonare per l’annuncio della risurrezione, allo scopo di farne del pane che si riteneva benedetto. Come definire questa pratica? Con le stesse parole del vescovo che la respingeva in quanto superstiziosa? O dobbiamo vedere in essa una pacifica espressione devota della cultura religiosa e degli usi domestici dell’epoca? Ginzburg e Schmitt, e certamente non solo loro, non avrebbero avuto dubbi nel preferire la seconda ipotesi.

 
 

Religione e classi sociali

La linea storiografica ‘razionalizzatrice’, che si sforza di ricomprendere lo studio della religione popolare in una visione sintetica del frammento di civiltà di cui essa è parte e presume di poterne positivamente spiegare, o almeno descrivere (per così dire dall’interno) (15) ogni forma di articolazione, si presenta a prima vista stimolante e carica di promesse. Tale ottica di lettura si interseca, però, con alcune questioni radicali, concernenti – vorremmo cercare ora di mostrarlo – il sistema di trasmissione e le condizioni di permanenza nel tempo della religione intesa come tradizione codificata, l’immagine globale della società come corpo stratificato, il rapporto tra gerarchia della società e le forme della sua cultura. La diffidenza manifestata da Gabriele De Rosa nel suo confronto di posizioni con Ginzburg e Schmitt è a tale riguardo molto netta: “Non capisco come e perché la cultura folklorica sia meno ambigua dell’altro termine ‘religione popolare’. [...] Commetteremmo certamente una sopercheria nel ridurre magia, stregoneria e fede nella grazia entro una stessa categoria” (16). Anche se è vero che in questo genere di pur doverose discussioni terminologiche e di inquadramento sembrano sempre riaffiorare, al di là dei diversi punti di partenza adottati, preoccupazioni attraversate da esigenze almeno in parte comuni e del resto ampiamente condivise, in primo luogo sulla necessità di una piena reincorporazione nella storia di realtà sociali e culturali rimaste a lungo condannate al silenzio e pesantemente sottovalutate, il dissenso sulla concezione d’insieme della religione ‘popolare’ si intuisce, a prima vista, tutt’altro che facilmente sanabile.

La discussione sugli intrecci inscindibili fra livelli e modalità diverse di pratica religiosa – tipicamente elitarie, prescritte, condivise dalla società nella sua ossatura d’insieme, ‘popolari’ nel senso stretto e socialmente delimitato del termine, forme, infine, combattute come devianti e proscritte – non è stata in realtà approfondita con l’attenzione che avrebbe meritato. Si può dire che il confronto, quando c’è stato, abbia dato maggiore rilevanza a una problematica diversa, di carattere ideologico più generale, centrata non sui criteri di definizione della specificità del ‘religioso’ e sulla sua capacità di lasciarsi plasmare secondo bisogni e linguaggi diversi, ma sui rapporti di specularità e/o autonomia con la tipica disposizione a scala, dall’alto verso il basso, dell’edificio della compagine sociale. Solitamente, si constata la prevalenza di un uso empirico, genericamente allusivo e tendenzialmente inglobante del termine “popolare”, che lascia intendere ciò di cui si vuol parlare senza scendere sul terreno di determinazioni sociologiche rigidamente discriminanti. Il ‘popolo’, ecumenicamente, diventa il contenitore di tutti coloro che, per esclusione, non stanno in alto e non svolgono funzioni riconosciute di potere. Così ragionando, il rischio è però quello di enfatizzare l’autonomia della massa anonima, il ruolo dei ceti sociali inferiori e marginali, delle iniziative spontanee, ‘dal basso’, scivolando verso una forma di ‘populismo’, o di ruralismo storiografico dove si finisce con l’annebbiare l’elemento delle gerarchie, si appiattisce il gioco dei rapporti e dei controlli istituzionali, tendono a sparire le robuste nervature dei canali che veicolano proposte, richieste, notizie, dall’alto e dal centro verso la periferia e in senso opposto, reagendo all’offerta ricevuta, introducono alterazioni, echi diversi, modi complessi di intendere e di recepire nel ricalco degli schemi comuni di manifestazione culturale. D’altro canto, lo studio della religione praticata alla base della piramide sociale viene necessariamente a incrociarsi con l’enfasi tradizionale posta sulle stratificazioni economico-materiali e di ceto interne al corpo sociale, concepite, in una prospettiva i cui presupposti, non solo in senso stretto storiografico, sono subito riconoscibili, come lo scheletro di sostegno a cui i contenuti della proposta religiosa si adatterebbero lasciandosene incapsulare, finendo con il proiettare sul suo volto molteplice il vecchio, logorato ma certo non spento immaginario della sovrastruttura determinata, o comunque robustamente condizionata dalla struttura; nei casi estremi, con l’aperta adozione di una rappresentazione risolutamente conflittuale dell’interdipendenza di funzioni dei ceti e dei corpi sociali, che continua ad attingere, trascurando altre visioni alternative proposte dalla scienza politico-sociologica più moderna, al linguaggio di una tradizione marxiana o gramsciana solo parzialmente depotenziate nello spirito del loro originario dogmatismo classista.

Un approccio metodologico di questo genere, che tende a circoscrivere l’uso della categoria di ‘popolare’ radicalizzandola in senso oppositivo, ha trovato proprio in Carlo Ginzburg – con la specificità di una più prudente valorizzazione dello scavo sui classici temi della storia politico-religiosa tradizionalmente legata alla formazione delle società degli antichi stati italiani anche in Adriano Prosperi (17) – i suoi più influenti sostenitori. Polemizzando contro ciò che di ambiguo e potenzialmente livellatore vi è nella nozione vulgata di ‘religione popolare’ come insieme magmatico e socialmente plurimo, dai confini vaghi, Ginzburg ha costantemente rivendicato l’idea che la cultura popolare o folklorica è in realtà la cultura delle classi subalterne: una profonda alterità e un aperto rapporto di tensione dividono gli universi di mondi sociali fra loro contrapposti, destinati a bilanciarsi nei contrasti di forza in cui si traduce e ideologicamente si maschera il perenne linguaggio del potere. Come egli ha avuto modo di ribadire nell’introduzione stesa per il fascicolo di “Quaderni storici” dedicato, nel 1979, alle Religioni delle classi popolari (titolo, come si vede, in se stesso programmaticamente eloquente), il punto di osservazione che andrebbe privilegiato è quello dei “rapporti che nelle società dell’Europa preindustriale coinvolgevano, sul terreno religioso, classi egemoni e classi subalterne, o popolari”, o più schematicamente ancora, quello “di una lotta tra religione delle classi egemoni e religione delle classi subalterne”, con la sua lunga storia di “scontri in campo aperto, di compromessi, di paci forzate, di guerriglie” (18). Ma il limite che mi pare evidente – mantenendosi in una linea centrata sulla drammatizzazione del potere come forza chiamata ad imporsi sopra una realtà che non lo riconosce come suo interno e obbligato principio di ordine – è quello di sostituire a un populismo generico un appiattimento tendenzialmente dicotomico, poi del resto ampiamente contraddetto quando si è costretti a inseguire le trame articolate e sfuggenti degli intrecci e dei rapporti di circolarità fra livelli diversi di cultura e nel cuore delle reti di relazione sociale per rendere compiutamente conto, sul piano dell’indagine analitica, dei fenomeni di interscambio che dominano lo scenario della costruzione collettiva della cultura. Restano in ogni caso ridimensionate l’autonomia e la specificità del linguaggio religioso come tale, dentro la ricerca e il bisogno di affermazione di ‘significati’ forti cui ogni forma di autorità ha necessità di saldarsi non per spirito patologico di dispotismo, ma per realizzare le sue costitutive funzioni nello spazio della convivenza umana da cui trae origine.

Riflettendo sui limiti di ogni approccio al problema dei rapporti fra religione e società ricondotto al filtro delle politiche di dominazione (19), è giusto chiedersi almeno se la scommessa sull’ipotesi di una coerenza interna della religione popolare (la critica di Delumeau, come l’abbiamo schematicamente introdotta) non implichi anche l’accettazione della possibilità di intesa e reciproco contagio fra i diversi modi e livelli di articolazione delle forme culturali condivise, che preservi la base unitaria della collettività sociale di cui la religione è proiezione creativa. Nella pluralità delle condizioni di status che entrano a comporre la comunità sociale, individui e gruppi di fisionomia diversa si trovano a spartire analoghi usi, spazi sacri e fuochi di aggregazione (parrocchie, confraternite, ordini religiosi) identici o fortemente contigui. La stratificazione in senso verticale, che spacca e divide – ci sentiamo di doverlo ribadire a costo di rasentare la banalità, perché la tradizione dominante degli studi è restia, come si è visto, a trarne tutte le debite conseguenze –, va in altre parole integrata e messa in dialogo intrecciandola con le parentele e le tendenze all’osmosi che si sviluppano nel quadro della realtà locale e della comunità, intese come ambito primario dell’esperienza di relazione fra gli individui (20). È infatti difficile ritenere che il clero nel suo complesso, i monaci e i missionari che ne hanno ricalcato le orme setacciando le campagne europee nel corso di tutta l’età moderna (vale a dire coloro che dovrebbero essere i giudici e i propagatori autorizzati della religione prescritta dall’alto) siano esaurientemente circoscrivibili nei confini delle élite dominanti, o che ne abbiano semplicemente protetto, senza la specificità di accenti che scaturivano da una logica propria di interessi e obiettivi primari, le strategie di governo della realtà sociale loro subordinata. Così come appare chiaro che vescovi, principi, potenti aristocratici e uomini delle professioni qualificate subivano anch’essi il fascino delle forme più stabili e incisive della pietà popolare consuetudinaria: assorbendone l’humus sotterraneo che sosteneva, precedendola, la diversità delle vocazioni e dei comportamenti sociali, anche i grandi frequentavano i santuari cari alla devozione del popolo, ne assecondavano i flussi di pellegrinaggio, attingevano al comune armamentario di gesti protettivi, di semplici preghiere, di oggetti materiali venerati come reliquie o portati sul corpo a modo di scudo simbolico. Nella Milano di Carlo Borromeo, per citare l’esempio di un nobile leader ecclesiastico di sicuro non sospettabile di timida arrendevolezza, erano gli stessi visitatori vescovili ad essere incaricati di distribuire in ogni angolo della vasta diocesi grani benedetti del Santo Rosario, fogli di indulgenze, catechismi, semplici libretti di edificazione. E come sappiamo, anche il popolo delle campagne, se non rispose sempre con entusiasmo, si adattò quanto meno a questa offerta di proposte e modelli che gli veniva rivolta dal centro incorporando gli stessi codici comunicativi della sua mentalità religiosa tradizionalista (21). L’idea stessa, alla fine, di una dialettica frontale fra cultura clericale e cultura popolare (o laicale), intese come realtà autosussistenti e per intima costituzione rivali, appare da ridiscutere a fondo nei suoi titoli di legittimità storica.

 
 

Chiesa e religione popolare: una dialettica da riformulare

Delineati i termini essenziali del dibattito storiografico più recente (22), si può tentare di proporne alcune chiavi di lettura unitaria, ripercorrendo sinteticamente a ritroso il cammino sin qui tracciato.

L’interpretazione della religione popolare come ‘resto’ primitivo, da cui siamo partiti, è stata criticata in quanto lettura non sufficientemente flessibile e in sé riduttiva. Il quadro d’insieme in cui, in modo particolarmente incisivo, Delumeau ha saputo inserire una meditata rielaborazione di essa, se ostacola la nitida comprensione, attenta ai particolari, alle differenziazioni interne e non pregiudizialmente negativa, delle forme di pietà e delle istituzioni religiose delle masse popolari dell’Europa ‘cristiana’ medievale e moderna, ha il merito di porre in rilievo i limiti della penetrazione dell’insegnamento ufficiale delle chiese organizzate e di dare evidenza all’imponente fenomeno delle ondate di cristianizzazione o ‘acculturazione’ che ne sono state sprigionate (monachesimo benedettino, ordini mendicanti, Riforma e Controriforma in parallelo fra loro), con tutto ciò di drammatico, autoritario, o al contrario esaltante e propulsivo che esse hanno comportato.

Le critiche ‘da sinistra’ (secondo punto), senza giungere a contestare lo schema di Delumeau sul piano degli esiti di lunga durata, ne sottopongono a revisione l’idea di religione popolare, dilatando le potenzialità esplicative della sua analisi. La necessità di un recupero dello sfondo antropologico-folklorico della religione concretamente praticata, e non solo propagandata come norma (la cultura ‘popolare’, vista nella sua estensione totale e nella sua fisionomia specifica, con la gamma dei condizionamenti, le chiusure e le fissazioni che essa contiene, insieme al ventaglio delle sue peculiari impalcature intellettuali, ai linguaggi e ai gesti consuetudinari su cui poggia la sua vitalità, così caratteristicamente esuberante anche in tempi di crisi): questo è stato evidenziato come il punto di forza di un tentativo di superamento in senso ‘razionalizzatore’ e più armonico. Derivano da qui l’ipotesi di una dignità e di una interna coerenza da estendere alla religione dei ceti subalterni, unita all’idea di una funzionalità di significato di tutte le sue parti costitutive che esige di essere verificata, prima di ogni scialba svalutazione riduttiva, sul suo proprio terreno. Se si prescinde dalle forzature in senso sociologico e da un certo modo meccanico di intendere i rapporti di costruzione del potere come dominio che non hanno mancato di imprigionarla entro uno schematismo da cui forse è oggi più agevole prendere le distanze, questa prospettiva attende ancora di essere valorizzata secondo le potenzialità rimaste in essa implicite e almeno in parte compresse.

Ma la critica a Delumeau rischia, da parte sua, di capovolgersi in una nuova forma di semplificazione unilaterale. Il rifiuto di una lettura della vita religiosa del mondo popolare a partire da un ideale esterno e in sé compiuto di religione prescritta, quindi nell’ottica di una realtà non sufficientemente cristianizzata, o cristianizzata solo in termini superficiali, di facciata, nasconde l’insidia di uno svuotamento dei rapporti di alimentazione che, muovendo dal perimetro della tradizione cristiana tramandata nel tempo, precedono e nutrono quella che altrimenti può apparire la trascinante spontaneità, anche un po’ furba e camaleontica, della pietà collettiva dei semplici. Se si oscura la nozione di un rapporto dialettico fra la religione concretamente praticata dal ‘popolo’ e la religione trasmessa dal corpo dell’istituzione ecclesiale come organismo articolato e complesso, la religione si riduce alla sommatoria di ciò che viene inteso e affermato di volta in volta dai suoi molteplici attori, indebolendo il dato della sua riproducibilità e la sua inclinazione a concepirsi in prospettiva sovrastorica, cui essa tende caparbiamente ad aggrapparsi per farne il titolo di garanzia della sua pretesa di stabilità. La religione dei ceti popolari, infatti, non può essere concepita, non è il frutto esclusivo di una autonoma tradizione folklorica: il popolo non inventa da sé la sua religione. Al contrario, anch’essa scaturisce dal confronto dinamico, quotidiano, capillare, con le forme che il corpo della cristianità assume all’interno della realtà sociale, con l’oggettività della chiesa come grande istituzione-madre e le sue reti di controllo e rimodellamento della cultura condivisa. La chiesa medievale e dell’età moderna, fortemente radicata nella vita delle comunità locali, appoggiandosi ai loro stabili luoghi di culto, alla sua liturgia, al clero disseminato fin nelle più appartate periferie, ai suoi libri sacri, ai suoi dogmi, alla dottrina fissata negli articoli del Credo e nei testi delle orazioni d’uso più comune, ha riproposto con tenace, ostinata continuità, al di là delle oscillazioni profonde dei linguaggi e del tessuto organizzativo di cui riusciva a dotarsi, il nucleo delle verità essenziali inglobate nel suo magistero autorevole, il proprio ruolo di mediatrice fra l’aldiqua e la realtà ultraterrena, la sua ambizione di essere fonte di un modello di mentalità, di coscienza morale, di relazioni umane sollecitate a rendersi fraterne all’interno dello spazio del mondo. La religione popolare non può essere concepita a prescindere da questa dialettica incessante fra la ‘cultura’ d’insieme di una data società e il tessuto storico della tradizione cristiana che di volta in volta la interpella, la valorizza, la combatte o la riplasma. C’è, da una parte, chi si sente chiamato a una missione da svolgere e chi, dall’altra, si trova a prestare ascolto. Ma i ruoli non sono mai rigidamente fissati una volta per tutte, né solo con flusso esclusivo dall’alto verso il basso; così come il lasciarsi guidare e il rendere omaggio non escludono la vivacità dell’iniziativa autonoma e la possibilità aperta del dissenso nel caso di conflitto o momentaneo divorzio. Non è detto che chi recepisce interpreti sempre fedelmente il messaggio offerto. Ma neppure che sia così distratto, irriducibile e corto di vedute come ancora oggi, da tante parti, e non del tutto innocentemente, lo si vorrebbe continuare a dipingere (23).

In conclusione, per andare a fondo del riesame intrapreso, ci si può spingere a chiedere se il binomio stesso di ‘religione popolare’, che abbiamo convenzionalmente adottato come punto di vista preliminare, resti, o meno, un concetto utile per identificare precisi aspetti della realtà storica, del presente e più ancora di un passato non di rado profondamente diverso e lontano. Alla luce delle ambiguità e delle controverse implicazioni ideologiche di cui è stato caricato anche in tempi recenti, ritengo di aver personalmente mostrato la mia preferenza per una interpretazione (e quindi anche per una diversa denominazione) che dia più esplicito risalto alle dimensioni collettive e al lato conformistico, generale, dei modelli religiosi elementari, concepiti come risorse che si possono condividere spartendole fra fruitori immersi nella totalità del corpo sociale. Più che il volto segregato, marginale, del ‘popolare’ come resto ingenuo e selvatico che resiste all’avanzata dei lumi, mi pare debba essere fatta riemergere in primo piano – esportando nel campo del religioso certe felici indicazioni metodologiche di una sociologia storica degli usi o delle ‘pratiche’ culturali come quella dell’ultimo Chartier (24) – la pluralità dei modi concomitanti di ‘appropriazione’, cioè di accoglienza e di adattamento a scopi e secondo regole di lettura fra loro divaricabili, degli stessi contenuti di una tradizione culturale comune, portata a contatto con le parti e le diverse articolazioni del corpo sociale. Si tratta di una pluralità che, di quest’ultimo, non ritraduce specularmente la gerarchia stratificata, ma che al contrario l’attraversa mettendo in connessione, in forme più libere e elastiche, i dati costrittivi del sistema religioso ereditato, non generato in splendido isolamento, e i suoi intercambiabili attori sociali.

   

 

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Note
 
(1) Citiamo dall’edizione del 1965 (la prima era apparsa nel 1945). Precisiamo, in apertura, che intervenendo su un campo di ricerche che vanta larghe tradizioni e ampiamente articolato, dovremo per forza di cose limitare i riferimenti alle discussioni storiografico-metodologiche ed eccezionalmente ai contributi analitici di più rilevante interesse, direttamente alla base del ragionamento che si cercherà di comporre e necessari per l’individuazione dei suoi presupposti critici. Intento di fondo è quello di interrogarsi sul significato generale e gli usi concreti cui è stata adattata l’immagine di religione ‘popolare’, allo scopo di evidenziarne una sua eventuale utilità tuttora fruibile; orizzonte pressoché esclusivo di attenzione il dibattito, prevalentemente in area italiana e di ambito modernista, dell’ultimo dopoguerra, in particolare dei più recenti decenni che hanno visto giungere a maturazione e poi declinare le spinte di apertura nutrite in primo luogo dal modello della storia delle mentalità (riprendiamo, in questo tentativo di rilettura, una prima traccia di discussione anticipata nel periodico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano “Vita e pensiero”, LXVIII, 1986, alle pp. 446-455; testo qui integralmente rivisto, ampliato e aggiornato alla luce della bibliografia successiva). volta
 
(2) Fernand Braudel (1976), cita il libro di C. Levi nel suo grande lavoro su Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Si veda la trad. it. della seconda versione dell’opera p. 787, nota 4: definisce il testo di Levi “meraviglioso”; sul “bel romanzo” di Levi ritorna poi ampiamente alle pp. 1332-1333. Lo stesso fa Jean Delumeau nella versione scritta della lezione inaugurale al Collège de France del 13 febbraio 1975 (trad. it. in appendice al suo Il cristianesimo sta per morire?, Torino, SEI, 1978, p. 178), sviluppando un riferimento fornitogli dal noto saggio di Carlo Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 601-676 (alle pp. 656-659); e di nuovo Ginzburg si richiama a Levi in un passaggio della successiva monografia Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1976 (p. 175: ne riporta precisamente la frase adottata come epigrafe del presente articolo). È da segnalare, però, che in tutti questi casi non viene mai tematizzato esplicitamente il limite di veridicità che dovrebbe essere riconosciuto a una fonte di tipo narrativo, quindi molto mediata e rielaborata culturalmente, all’interno di un discorso storiografico rigoroso. Più misurata e dialetticamente critica è invece la ripresa del solito Levi che, altra significativa conferma, serve da citazione preliminare ad uno dei più recenti sondaggi direttamente dedicati alla storia religiosa del meridione italiano: alludo a D. Gentilcore, From bishop to witch. The system of the sacred in early modern Terra d’Otranto, Manchester-New York, Manchester University Press, 1995, Introduction, pp. 1-2 (“...Levi notwithstanding, later studies of ecclesiastical history and popular religion have shown that Christ did not stop at Eboli”. La puntualizzazione è ripetuta nella versione più ampia del testo introduttivo apparsa, come articolo a sé stante, con il titolo Methods and approaches in the social history of the Counter-Reformation in Italy, “Social history”, XVII, 1992, pp. 73-98). volta
 
(3) Per un quadro informativo su questa produzione storiografica e più analitici spunti di giudizio cfr. G. De Rosa S. I., La religione popolare. Storia-teologia-pastorale, Roma, Paoline, 1981 (riprende, con qualche lieve ritocco, una serie di articoli pubblicati su “La civiltà cattolica” del 1979-80) e B. M. Bosatra, Recenti miscellanee sulla religiosità popolare, “La scuola cattolica”, CX, 1982, pp. 65-84, 300-313, 451-472; CXI, 1983, pp. 450-475; CXIII, 1985, pp. 546-574; CXV, 1987, pp. 48-83; CXVII, 1989, pp. 487-525; CXX, 1992, pp. 613-650. volta
 
(4) Cfr. di Delumeau, oltre al testo citato, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo (ed. it. a cura di M. Bendiscioli, Milano, Mursia, 1976) e Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico (con la collaborazione di altri autori; ed. it. Casale Monferrato, Marietti, 1983). volta
 
(5) Anche un testo-chiave come Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, di Gabriele De Rosa (Napoli, Guida, 1971; nuova ed., con varie modifiche, 1983) – che riflette una svolta fondamentale di interessi nella ricerca di uno fra gli studiosi che più incisivamente hanno contribuito alla crescita delle attenzioni per i fenomeni e le strutture portanti della religione di massa, incardinata nei quadri dei grandi insiemi sociali – dà marcato rilievo alla dialettica fra pastoralità tridentina, e quindi religiosità più illuminata, coerente, consapevole, da una parte; dall’altra la pietà popolare, sconfinante nel terreno del magico e del superstizioso, fatta di credenze e comportamenti più strettamente ‘locali’, consuetudinari, aderenti alla fisicità dei segni visibili. È però significativo che tale dialettica tenda a farsi più sfumata, accentuando l’elemento degli intrecci e delle sintonie fra livelli o tipi diversi di cultura religiosa, nel corso della successiva produzione di De Rosa: cfr. in tal senso L. Donvito, Dalla polemica antidemartiniana alla “modernizzazione”: un itinerario di studi di storia socio-religiosa del Mezzogiorno, “Società e storia”, VII, 1984, pp. 909-915. Ne può essere ravvisata una testimonianza nel saggio dello stesso De Rosa, Pertinenze ecclesiastiche e santità nella storia sociale e religiosa della Basilicata dal XVIII al XIX secolo, inserito (dopo due precedenti edizioni) nella raccolta di studi Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 47-101, quindi di nuovo ripreso, con varie integrazioni, nel contributo per la Storia vissuta del popolo cristiano, diretta da J. Delumeau, ed. it. a cura di F. Bolgiani, Torino, SEI, 1985 (G. De Rosa, Santi popolari del Mezzogiorno d’Italia fra Sei e Settecento, pp. 615-659). In entrambe le sedi la chiusura del testo chiama esplicitamente in causa Carlo Levi, ma è significativo che ciò avvenga proprio per contestarne la legittimità dell’ottica interpretativa: “Il Cristo si è fermato a Eboli, sotto l’aspetto religioso, è una definizione irreale, ricalcata sul modello di una religiosità che è fuori dal Mezzogiorno, è una definizione esclusiva, che lega la religiosità al solo esempio della cultura e del costume religioso occidentale, razionale e dialettico. In effetti Cristo è andato oltre Eboli”, ecc. (ibid., p. 658). Sulla figura e la linea storiografica seguita da De Rosa si può consultare, da ultimo, A. L. Coccato (ed.), Contributi alla storia socio-religiosa. Omaggio di dieci studiosi europei a Gabriele De Rosa, Vicenza-Roma, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa-Istituto “Luigi Sturzo”, 1997 (qui, in particolare, il profilo conclusivo di F. Salimbeni, L’itinerario storiografico di Gabriele De Rosa, pp. 163-182, con ulteriore bibliografia). volta
 
(6) È stato André Vauchez a risottolineare, di recente, la frequente collocazione di frontiera, esterna agli spazi abitati e al territorio più intensamente umanizzato, dei santuari nel mondo della religiosità mediterranea tradizionale: Lo spazio, l’uomo e il sacro nel mondo mediterraneo: premesse a un’indagine, in Coccato (ed.), Contributi alla storia socio-religiosa..., pp. 141-150 (alla p. 147: “ma non si tratta di una semplice distinzione tra natura e cultura: ciò che l’uomo adora nel saltus – eremo – non è la natura né un oggetto naturale ma la potenza che vi si rivela. In questo senso verrebbe ribadito il fatto che lo spazio sacro non si può scegliere ma solo trovare: si fonda il santuario dove già abita una potenza e il luogo santo è un centro di vita che deve garantire la sopravvivenza del gruppo sociale che ad esso fa riferimento”. Richiamandosi a De Martino, prosegue evocando l’idea di una “riplasmazione mitologica del territorio”). Sulla stabilità della geografia sacrale del territorio cfr. anche la convincente documentazione di M.-H. Froeschlé-Chopard, Espace et sacré en Provence (XVIe-XXe siècle). Cultes, images, confréries, Paris, Cerf, 1994, prima parte, Le monde du ‘dehors’. Le poids du passé, pp. 15 sgg. volta
 
(7) Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 575-576, 605-607, 610, 640-642 (riferimenti ad Antonio Genovesi); P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, trad. it. Milano, Mondadori, 1980, pp.11-12 (tutto il libro resta di grande utilità nell’ambito dei problemi qui considerati, a partire dal suo primo capitolo, La scoperta del popolo, pp. 7 sgg.). volta
 
(8) Sulle sue radici antiche, si veda l’efficace puntualizzazione tentata da J. Le Goff: Cultura clericale e tradizioni folkloriche nella civiltà merovingia e Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel medioevo: san Marcello di Parigi e il drago, entrambi in Id., Tempo della chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel medioevo, Torino, Einaudi, 1977, pp. 193-207, 209-255. Particolarmente fecondo si è qui rivelato l’uso estensivo del concetto di “folklorico”, in un senso che è da ritenere ormai pressoché generalmente acquisito, e che non si può quindi banalizzare sovrapponendovi la disgregata, diversa realtà del folklore, frutto perlopiù di ‘reinvenzione’ artificiale, contemporaneo: “Per cultura folklorica intendo soprattutto lo strato profondo di cultura (o civiltà) tradizionale [...] soggiacente in ogni società storica, che mi sembra affiorare nello scompiglio tra antichità e medioevo. Ciò che rende l’identificazione e l’analisi di questo strato culturale particolarmente delicate è che esso è denso di rapporti storici disparati per età e natura” (p. 198, nota 17). Il termine “popolare”, invece, se si vuole essere rigorosi, dovrebbe essere usato in un senso più generale e comprensivo, prestandosi esso a qualificare l’insieme della cultura di cui sarebbe portatrice la collettività sociale nei suoi gruppi e ceti inferiori (e all’interno della quale va ricollocato, come suo elemento dotato di riconoscibile specificità, l’universo della pratica religiosa). A complicazione ulteriore del quadro, si può segnalare che successivamente J. C. Schmitt (su cui torneremo fra breve), dilatando l’indicazione di metodo tracciata da Le Goff, suo ispiratore, si è trovato ad estendere a sua volta il campo del “folklorico”, giungendo in pratica a farlo coincidere proprio con quella globalità della cultura radicata a livello ‘popolare’ cui abbiamo appena fatto riferimento: tipico è il privilegio dato, nella scrittura storiografica di Schmitt così come di altri che sono entrati in dialogo con essa e l’hanno valorizzata, all’espressione “cultura folklorica” con intento dichiaratamente esaustivo, a prescindere dalla connotazione ‘geologica’ di strato sedimentario profondo riaffiorante dal basso, in dialettica con il controllo, la volontà di rifiuto o il tentativo di riplasmazione dei centri di governo e azione pastorale ecclesiastica. volta
 
(9) Come test di verifica si può citare, ancora una volta, il caso delle reazioni sollevate dalla produzione, negli scorsi decenni, di Delumeau, quale risulta illuminata, nei suoi presupposti ispiratori, dal libro-testimonianza Ce-que je crois, del 1985 (trad. it. Genova, Marietti, 1987: Le ragioni di un credente). Sintomatici sono l’accoglienza che essa ha incontrato in molti ambienti della cultura di ispirazione o prevalente orientamento cattolico, non solo all’interno della corporazione ristretta dei professionisti della ricerca storica, al pari dei modi in cui la sua lezione è stata valorizzata ed estesa, in ambito italiano, per esempio attraverso la raccolta di studi a cura di F. Bolgiani, Storia vissuta del popolo cristiano (nota 4); si vedano qui, in particolare, i rivelatori giudizi, fortemente critici e del resto ripresi anche altrove dal curatore, sulle tendenze neocomunitarie e antiprogressiste dell’odierna cattolicità post-moderna e sulla prima fase di governo del pontefice attualmente regnante, lette entrambe come volontà di ritorno al ‘mito’ tradizionalista di una cristianità unita e robustamente compatta, presente con ruoli di autonomo protagonismo nel tentativo di forgiare il volto complessivo della convivenza sociale e delle sue strutture portanti. volta
 
(10) J-C. Schmitt, ‘Religione popolare’ e cultura folklorica, trad. it. negli atti del citato incontro di studio: “Ricerche di storia sociale e religiosa”, VI, 1977, 11, pp. 9-27 (l’ed. originale, ‘Religion populaire’ et culture folklorique, in “Annales ESC”, XXXIV, 1976, pp. 941-953). L’articolo non è stato inserito nella raccolta di saggi del medesimo autore tradotti in lingua italiana: Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1988 (volume che è comunque da tenere presente anche per l’ampia discussione ripresa in sede di Introduzione, pp. 1-27). volta
 
(11) Per un primo orientamento: N. Zemon Davis, Some tasks and themes in the study of popular religion, in Ch. Trinkaus – H. A. Oberman (edd.), The pursuit of holiness in late medieval and Renaissance religion, Leiden, Brill, 1974, pp. 307-336; della stessa, From ‘popular religion’ to religious cultures, in S. Ozment (ed.), Reformation Europe: a guide to research, St. Louis, Center for Reformation research, 1982, pp. 321-341. Di R. W. Scribner: Interpreting religion in early modern Europe, “European studies review”, XIII, 1983, pp. 89-105; Popular culture and popular movements in Reformation Germany, London-Ronceverte, Hambledon, 1987 (raccolta di studi sul singolo caso tedesco, ma di rilevante interesse metodologico); The Reformation, popular magic, and the “disenchantment of the world”, “Journal of interdisciplinary history”, XXIII, 1993, pp. 475-494. Particolarmente attento ai risvolti concettuali del problema è S. Clark, French historian and early modern popular culture, “Past and present”, C, 1983, pp. 62-99 (anche sulla scorta di indicazioni offerte da L. Wittgenstein in merito agli studi etnologici di Frazer e all’analisi dei “linguaggi” come sistemi organicamente strutturati). Ma in riferimento al problema più generale di una visione interpretativa del ‘popolare’ sottratta a schemi dualistici e su base di esclusione (come ‘altro da-’, come ricaduta e degenerazione contaminata di un ‘positivo’ e di una razionalità relegati altrove), si vedano anche i percorsi storiografici rivisitati criticamente nei contributi di R. Darnton, Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, Milano, Adelphi, 1988, e Il bacio di Lamourette, Milano, Adelphi, 1994. volta
 
(12) ‘Religione popolare’ e cultura folklorica, p. 18. La visione della cultura come unità vivente e costantemente ricreata si trova ribadita, in termini esattamente speculari, in Davis, From ‘popular religion’..., p. 331: “Religious cultures are not merely inherited or imposed; they are also made and remade by the people who live them”. volta
 
(13) C. Ginzburg, Stregoneria, magia e superstizione in Europa fra medioevo ed età moderna, “Ricerche di storia sociale e religiosa”, VI, 1977, 11, pp. 119-133 (alle pp. 128 e 126). volta
 
(14) Ibid., p. 179. Cfr. anche De Rosa, Chiesa e religione popolare..., p. 6 (il saggio di apertura, Religione popolare o religione prescritta?, pp. 3-20, riprende, in una versione lievemente modificata e con corredo di note, il testo dell’intervento conclusivo alla tavola rotonda vicentina del 1977). volta
 
(15) Sarà intuibile, dietro l’allusione affidata ai corsivi nel testo, il riferimento al metodo di ricerca incisivamente proposto, in sede di analisi antropologica delle culture come ‘sistemi’ da rileggere attraverso le loro stesse categorie portanti e nella coerenza della loro logica specifica di costruzione dei significati sociali, da Clifford Geertz; metodo riassunto nelle formule fortunate della thick description (o “descrizione densa”) e della local knowledge. Prima di addentrarsi nell’eventuale esame analitico delle critiche che, in un’ottica più strettamente storica, sono state rivolte ai punti deboli dell’approccio ‘interpretativo’ di Geertz, potrà essere utile porsi direttamente in dialogo con la lettera della sua indicazione di lavoro, che mi sembra comunque possedere il grande merito di spingere a enfatizzare la disponibilità dello studioso all’interazione simpatetica con l’altro da sé (con l’alterità della cultura da decifrare). Si veda, in lingua italiana, C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987 (qui, fra l’altro, alle pp. 137-183, il saggio n. 4, La religione come sistema culturale); Id., Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988. Per esempio, dichiarato è il riferimento a Geertz in Darnton; segnale diretto di suggestione sul terreno specifico della ricerca storico-religiosa impegnata nella critica dei condizionamenti ideologici esterni è l’ampia rassegna di S. Ditchfield, “In search of local knowledge”. Rewriting early modern Italian religious history, “Cristianesimo nella storia”, XIX, 1998, pp. 255-296. volta
 
(16) De Rosa, Chiesa e religione popolare..., pp. 4 e 6. volta
 
(17) Si veda, in particolare, di A. Prosperi, Le fonti: osservazioni preliminari, testo introduttivo alla raccolta di studi a cura di O. Besomi – C. Caruso, Cultura d’élite e cultura popolare nell’arco alpino fra cinque e seicento, Basel, Birkhäuser, 1995, pp. 3-34. Il principio ermeneutico della dicotomia sociale e la logica della dominazione come cemento di stabilità di un corpo politico-civile da sottoporre a disciplina costituiscono l’ossatura interpretativa di base dell’ampia sintesi più di recente offerta in Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996; ma un analogo registro di discorso attraversa la precedente produzione del medesimo autore incentrata sulle trasformazioni cinquecentesche della religione e sui conflitti intorno all’interpretazione ortodossa delle credenze, come documenta l’altro profilo di sintesi tracciato in Intellettuali e chiesa all’inizio dell’età moderna, in Storia d’Italia, Annali, IV, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 159-252. Volgarizzato in termini ideologicamente più espliciti (ma anche meno esigenti sul piano del rigore filologico richiesto in sede storiografica, al di là di ogni disinvolto assemblaggio di materiali retorico-letterari forzati nel senso del rispecchiamento della realtà storica da ricostruire), lo si ritrova al fondo delle prospettive seguite da un altro autore che ha raggiunto larga notorietà ed esercitato notevole influenza negli ultimi decenni: Piero Camporesi, di cui si può citare almeno Cultura popolare e cultura d’élite fra medioevo ed età moderna, ibid., pp. 79-157. L’elenco di esemplificazioni potrebbe con facilità essere sostanziosamente arricchito: ciò che si intende evidenziare e mostrare, quindi, nella sua interna problematicità è, infatti, proprio la vulgata predominante di un discorso sulla religione e la cultura popolare che ha alle sue spalle una matrice di pensiero diluita e per così dire ‘metabolizzata’ nei grandi schemi di inquadramento del sapere comune in cui si riconoscono gruppi e tendenze disparate dell’élite colta, certo non solo e non in primo luogo accademica. In questo linguaggio tradizionale, dominato dall’ossessione dei condizionamenti e delle pressioni sociali (rilette perdipiù, nelle sue formulazioni più conseguenti, in chiave anacronisticamente moderna, cioè in termini di contrapposizione nemmeno tanto larvata ‘di classi’), riteniamo si possano (anzi, si debbano) introdurre parole, concetti e punti di osservazione innovativi, più aderenti alla natura interna dei fenomeni culturali e ai meccanismi di trasmissione/riproduzione dell’esperienza religiosa, quali sono illuminati da una più libera riflessione sulla costruzione dei rapporti con la sfera del sacro testimoniati dalla stessa configurazione dell’homo religiosus nella società contemporanea secolarizzata; più che fermarsi a criticare le parole d’ordine di una visione del mondo ispirata ai canoni desueti del ‘materialismo storico’, forse occorrerebbe, allora, tornare a meditare e a sviluppare creativamente (non come semplice citazione da incorporare in un linguaggio di tutt’altra radice e provenienza) l’insegnamento, per esempio, di De Luca sulla densità esistenziale e l’autonomia di articolazioni espressive della “pietà”. Sulla visione intellettuale riflessa nella cruciale analisi gramsciana del fenomeno religioso popolare inteso, letteralmente, come “folklore”, come “molteplicità di religioni distinte e contraddittorie”, proiezione nel campo della sovrastruttura di “determinati strati della società”, forma di religione (“religione di popolo”) radicalmente diversa da quella “organicamente sistemata dall’autorità ecclesiastica” e contrapposta alle “concezioni del mondo ‘ufficiali’ o delle parti colte della società”, cfr., comunque, V. Fagone, Gramsci e la religione popolare, “La civiltà cattolica”, CXXIX, 1978, 3, pp. 119-133. Senza soluzioni di continuità né bisogno di grandi adattamenti mitigatori, questa precomprensione di fondo (prima ancora che la lezione ricavata dal confronto diretto con le sue fonti autorevoli) ha informato i modi di rappresentazione collettiva accolti nel sapere diffuso dai moderni canali di comunicazione di massa (si pensi ancora al dato emblematico della fortuna di Levi nell’immaginario non solo artistico-letterario), gli schemi dell’interpretazione storico-istituzionale più condivisa del fenomeno ecclesiastico e religioso, la parallela fioritura, nel secondo dopoguerra della modernizzazione industriale e della rottura del mondo contadino immerso nella cultura tradizionale, di una antropologia (o di una storia delle tradizioni popolari) applicate anche al caso italiano, riletto nell’ottica della competizione per il controllo e l’egemonia politico-sociale (A. M. Cirese, A. M. Di Nola, V. Lanternari, L. M. Lombardi Satriani). volta
 
(18) “Quaderni storici”, XIV, 1979, 41 (a cura di C. Ginzburg). Cfr. ibid., Premessa giustificativa, p. 393, per le ragioni del titolo adottato. volta
 
(19) E che difatti non può riuscire a comporsi pacificamente con il diverso orientamento, senza dubbio tornato oggi a farsi sentire in modo più articolato e con più larghe possibilità di persuasione, dopo lo sgretolamento e il crollo, non solo metaforico, di tanti ‘muri’ e di tante certezze a lungo radicalizzate nella loro ambizione di aderenza alla realtà, difeso, al contrario, da coloro che si rifiutano di cedere spazio alla scelta di attribuire un preciso e ristretto contenuto ‘di classe’ alla religione popolare. Cfr. De Rosa, Chiesa e religione popolare..., p. VI; da un punto di vista interno alla cultura storiografica di area confessionale De Rosa S. I., La religione popolare..., pp. 53 sgg.; e più recentemente, fra le tante voci di un dibattito non certo di retroguardia o di pura erudizione, nutrito come è anche da marcati risvolti di attualità, G. Panteghini, La religione popolare. Provocazioni culturali ed ecclesiali, Padova, Messaggero, 1996. volta
 
(20) Come del resto sottolinea esplicitamente, in un altro suo intervento diverso da quello finora considerato, J.-C. Schmitt: Les traditions folkloriques dans la culture médiévale. Quelques réflexions de méthode, “Archives de sciences sociales des religions”, LII, 1981, 1, pp. 5-20 (trad. it. in Id., Religione, folklore e società..., pp. 28-49). Cfr. anche gli spunti interessanti di W. A. Christian Jr., Local religion in sixteenth-century Spain, Princeton, Princeton University Press, 1981; ma già prima, con un linguaggio e metodi di analisi molto più sobriamente tradizionali, G. Le Bras, La chiesa e il villaggio, trad. it. Torino, Boringhieri, 1979. volta
 
(21) Mi permetto, su questo punto specifico, di rinviare ai sondaggi, di chi scrive e altri autori, raccolti in F. Buzzi - D. Zardin (edd.), Carlo Borromeo e l’opera della “grande riforma”. Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, Milano, Silvana Editoriale, 1997. Da un altro angolo di osservazione, documentano la possibilità di reciproca integrazione fra proposta borromaica e ricezione delle comunità locali anche in territorio periferico e alpino-rurale gli studi di S. Bianconi e G. Pozzi sulla questione dello strumento linguistico. Cfr. almeno, di quest’ultimo, L’italiano in chiesa, in Besomi Caruso (edd.), Cultura d’élite e cultura popolare..., pp. 303-343 (rist. in G. Pozzi, Grammatica e retorica dei santi, Milano, Vita e pensiero, 1997, pp. 3-46). volta
 
(22) La stanchezza che pare oggi di avvertire, dopo i fervori di incontri, pubblicazioni e dibattiti soprattutto degli anni settanta, sul terreno della definizione dei presupposti teorici (delle terminologie e degli strumenti interpretativi) che comandano e incanalano preventivamente lo sviluppo della ricerca più minuta potrebbe positivamente favorire, una volta recepito lo stimolo delle nuove domande e dei più penetranti punti di vista messi a fuoco dalla riflessione della storiografia contemporanea (in particolare attraverso il dialogo interdisciplinare con le scienze antropologiche libere dalle gabbie sociologizzanti costrittive tipiche della tradizione del pensiero politico-ideologico novecentesco), una concentrazione degli sforzi sull’avanzamento effettivo delle conoscenze e sui concreti problemi operativi, di metodo, ad esso inerenti, in un settore di indagini che resta, in definitiva, scarsamente esplorato in termini organici. volta
 
(23) Su questa idea di stretta interdipendenza fra tradizione ecclesiastica e forme della cultura religiosa consuetudinaria, di massa, fra cristianesimo ‘ufficiale’ inquadrato e proposto (più che unilateralmente ‘imposto’, con effetti di assorbimento o, come tende a rimarcare la scuola storica francese, di ‘acculturazione’ demolitrice) dall’alto e, d’altra parte, il concorso creativo, il coinvolgimento, l’assimilazione (o la deliberata resistenza) dal basso, cfr. le felici sottolineature di J. van Engen, The Christian middle ages as an historiographical problem, “The American historical review”, XCI, 1986, pp. 519-552 (in contrasto con l’immagine dicotomica dell’autonomia della religione popolare, riabilita la visione di un cristianesimo ‘comune’ costruitosi dinamicamente nel tempo e condiviso dalla generalità della società come insieme) e C. Harline, Official religion-popular religion in recent historiography of the Catholic Reformation, “Archiv für Reformationsgeschichte”, LXXXI, 1990, pp. 239-262 (insiste, fra l’altro, sul concetto di “cultural interaction” fra alto e basso, mondo clericale e mondo laicale. L’andirivieni dello scambio e della “negoziazione” reciproca non si è bloccato nel passaggio al ‘disciplinamento’ dell’età della cosiddetta confessionalizzazione. In ogni caso, il calo di interesse per lo studio della religione delle élite rischia – o ha rischiato, possiamo dire oggi, negli anni delle grandi infatuazioni per la storia dal basso e del primato del piccolo, del ‘popolare’ – di generare una forma capovolta di unilateralità). Per un approfondimento e una prima serie di esemplificazioni in merito alle potenzialità implicite nella linea interpretativa evocata qui sopra nel testo ci limitiamo a segnalare: Ch. M. de la Roncière, Nella campagna fiorentina nel XIV secolo. Le comunità cristiane e i loro parroci, in Delumeau – Bolgiani (edd.), Storia vissuta del popolo cristiano, pp. 367-401; per molti versi, la nota e discussa incursione nel medioevo rurale di E. Le Roy Ladurie, Storia di un paese: Montaillou, trad. it., Milano, Rizzoli, 1977 (i capitoli sulla mentalità e la religione); N. Zemon Davis, The sacred and the body social in sixteenth-century Lyon, “Past and present”, XC, 1981, pp. 40-70; M. James, Ritual, drama and social body in the late medieval English town, ibid., XCVIII, 1983, pp. 3-29 (rist. in Id., Society, politics and culture. Studies in early modern England, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 16-47); S. Brigden, Religion and social obligation in early sixteenth-century London, Past and present”, CIII, 1984, pp. 67-112 (scavo analitico, come i precedenti, ma ugualmente di interesse generale e marcata rilevanza sul piano ermeneutico); J. Bossy, L’Occidente cristiano. 1400-1700, trad. it. Torino, Einaudi, 1990 (Oxford 1985) e Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 1998 (lavori di originale sintesi interpretativa. Al di là della drammatizzazione del cedimento dello spirito comunitario medievale connesso alla ‘rilettura’ del codice etico nel cristianesimo riformatore cinque-seicentesco, consentono di illuminare il radicamento nella vita sociale delle strutture fondamentali di sostegno, in primo luogo liturgiche e sacramentali, della religione ‘tradizionale’). volta
 
(24) Cfr. R. Chartier, Culture as appropriation: popular cultural uses in early modern France, in S. L. Kaplan (ed.), Understanding popular culture. Europe from the middle ages to the nineteenth century, Berlin, Mouton, 1984, pp. 229-253; dello stesso, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, in particolare Testo, simboli e “frenchness”: sull’uso dell’antropologia simbolica in storia, pp. 95-111 (in contrappunto dialettico con Darnton). Cfr. anche, sempre di Chartier, Letture e lettori nella Francia di antico regime, trad. it. parziale Torino, Einaudi, 1988, a partire dalle nitide pagine della Introduzione, pp. VII-XVIII (l’opposizione popolare/colto è il “postulato” che “è necessario porre in discussione”, “livelli sociali e differenze culturali non si lasciano sovrapporre [...] facilmente”; “la religione ‘popolare’ è dunque al contempo oggetto e soggetto di un processo di acculturazione; non è radicalmente distinta dalla religione degli ecclesiastici né totalmente plasmata da questa”). Ulteriori indicazioni utili in E. Cameron, For reasoned faith or embattled creed? Religion for the people in early modern Europe, «Transactions of the Royal Historical Society», serie VI, VIII, 1998, pp. 165-187. volta

 

Data de recebimento: 02/09/2001
Data de aceite: 25/10/2001
 
Memorandum, Out/2001
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP. 
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos01/zardin01.htm

 

 

 

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