Bertani, S. (2007). Cesare Lombroso: il misonesmo e il martirio delle folle. Memorandum, 12, 29-45. Retirado em       /  /  , da World Wide Web http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/bertani01.htm

 

Cesare Lombroso:
il misoneismo e il martirio del folle

 Cesare Lombroso: misoneism and the martyrdoom of madman

Stefano Bertani

Università Cattolica del Sacro Cuore
Itália

 

Riassunto
Il testo illustra, attraversando alcuni dei più noti luoghi della patologia criminale e della devianza lombrosiana, il nesso fra la teoria del folle e il suo rapporto con il male, considerato uno dei punti più dibattuti di tutta la cultura dell’età del progresso. A dispetto dei lunghi anni d’oblio e soprattutto degli stereotipi con cui la figura e l’opera di Cesare Lombroso hanno attraversato il XX secolo, tornare a riflettere su di essi giova ad una miglior comprensione storica, facendo luce su alcuni nodi irrisolti dell’identità culturale dell’Occidente. L’opera di Lombroso, sia che la si risguardi secondo una prospettiva rigorosamente storica, o la si percepisca ancora presente nell’implicita sensibilità contemporanea dei media e dello scientismo divulgato, si attesta quale momento significativo per chi voglia comprendere alcuni fra i più decisivi nodi ideologici della cosiddetta modernità che ancora ci tocca.

 

Parole chiave: Lombroso; follia; religione della scienza; evoluzionismo

Abstract
This article aims at presenting the relationship between the Lombroso’s theory of madness and the historical presence of evil, which is regarded as one of the most discussed points of the culture of the Age of Progress. Cesare Lombroso and his works went through the 20th  century facing long years of oblivion and especially caricatural stereotypes. Nevertheless, reflecting again upon them can help us have a better understanding of the historical background, thus shedding new light on some unresolved issues with regard to Western cultural identity. Lombroso’s works can be analysed either in historical perspective or regarded as a implicit legacy in mass media culture. In both cases, Lombroso’s thought turns out to be a meaningful aspect of the modern ideology.
 

Keywords: Lombroso; madness; religious science; evolutionism

 

A dispetto dei lunghi anni d’oblio e soprattutto degli stereotipi quasi macchiettistici con cui la figura e l’opera di Cesare Lombroso hanno attraversato il XX secolo, tornare a riflettere su di essi potrebbe giovare invece ad una miglior comprensione storica, facendo luce anche su alcuni nodi irrisolti della nostra identità culturale e nazionale (1). Basterebbero a dimostrarlo le diverse e pregevoli pubblicazioni che recentemente si sono susseguite, e solo per fare alcuni nomi, a cominciare dai materiali lombrosiani resi disponibili da Delia Frigessi, Ferruccio Giacanelli e Luisa Mangoni (Lombroso, 2000); agli studi sulla antropologia criminale e la teoria del delinquente nato di Giorgio Colombo, Pierluigi Baima Bollone e Mary Gibson (Colombo, 1992; Baima Bollone, 1992; Gibson, 2004); o ancora alla monografia einaudiana della medesima Frigessi (Frigessi, 2003; Bulferetti, 1975); sino agli interessi letterari di Andrea Rondini e alla particolare e avvincente forma di narrazione biografica offertaci da Luigi Guarnirei (Rondini, 2001; Guarnieri, 2000). Ad esse andrà pure aggiunta l’attenzione accordata da molte nuove storie delle idee di respiro europeo, più attente ai fatti culturali, ideologici e, come si usa oggi dire, anche ‘mitici’ della storia contemporanea, fra cui spicca l’ormai fondamentale lavoro di Mosse sulle origini culturali del razzismo (Mosse, 2003). Ma non si dovrebbe tacere di manifestazioni anche più eclatanti e «popolari», ispirate al più genuino, positivistico e lombrosiano scientismo, come la straordinaria fioritura nel mondo dell’immaginario anglosassone, quindi dominante il nostro circuito di massa, di film e telefilm dedicati alle squadre speciali della polizia ‘scientifica’; agli infallibili profilers, gli specialisti dei ‘profili’ criminali; alle indagini sui più efferati e pazzeschi delitti perpetrati dai nuovi protagonisti dell’horror, i killers seriali, gli stupratori, i maniaci sessuali e i pedofili; ai detectivs sensitivi, novelli sciamani che coadiuvano le ricerche positive con prodigiosi poteri occulti, grazie ai quali si muovono nel tempo e nello psichico, risolvendo i casi più oscuri e indecifrabili. Tutte figure che, rese popolari nei media, oggi sembra che affollino anche la normale realtà criminale, soprattutto giovanile. Tra storia, cronaca e finzione, risorgono dunque dalle inquietanti gallerie manicomiali della letteratura scientifica lombrosiana, in cui parevano definitivamente rinchiusi, pazzi, geni incompresi e criminali astuti, folli e depravati morali. L’opera di Lombroso, insomma, che la si risguardi secondo una prospettiva rigorosamente storica, o la si percepisca ancora presente nell’implicita sensibilità contemporanea, si attesta quale momento significativo per chi voglia comprendere alcuni fra i più decisivi nodi ideologici della cosiddetta modernità che ancora ci tocca, cercando di dare ragione delle categorie implicite che in qualche modo possano spiegare la persistenza di fenomeni apparentemente frammentari e superficiali.

Fu la follia, del resto, a rivestire un ruolo rilevante nei molteplici interessi medici, fisiologici, antropologici, giuridici, educativi e sociali di Lombroso sin dal principio della sua tormentata carriera, che lo condusse poi a fare della devianza una categoria onnicomprensiva e interpretativa non solo del «caso clinico», ma di tutta la vicenda sociale e storica dell’umanità antica e moderna, secondo le leggi naturali dell’evoluzione. Ed è appunto sul senso e sul significato categoriale della «devianza» che vorremmo condurre le nostre riflessioni, dopo aver constatato che Lombroso, da intellettuale paradigmatico della sua epoca, volle sempre pensare la follia entro un grande disegno progressivo-evolutivo, con importanti ricadute nel progetto di riforma morale e civile degli italiani che allora si stava avviando dall’élite liberale, spesso anche sotto l’egida del cosiddetto darwinismo sociale. Lo stesso atavismo, una delle più note formule diagnostiche lombrosiane, più che un «concetto e un modello rigorosamente scientifico», dovrebbe essere inteso piuttosto come una «generale categoria culturale», con la quale egli, grazie al generico riferimento al darwinismo e all’evoluzionismo, poté interpretare la «regressione dell’uomo ai caratteri ancestrali» e la conseguente riemersione, in piena modernità, «del passato», sotto le specie dell’uomo deviante (Frigessi, 2003, p. 137; Frigessi, 2000, p. 349). Ma, è bene ricordarlo, Lombroso rielaborerà per tutta la vita un concezione di follia in rapporto con l’evoluzionismo e la «circolazione della materia», secondo un caratteristico procedimento per successive correzioni e agglomerazioni delle nuove scoperte, delle nuove intuizioni, sino a dare l’impressione di elaborare «un unico libro», in cui l’«accumulazione progressiva» della sua scrittura non rinuncia mai neppure al «più piccolo frammento dei suoi lavori», che si riversano poi uno nell’altro (Mangoni, 2000, p. 685). In tal modo, perciò, se egli appare spesso ripetitivo, in realtà ad ogni nuova ed ampliata edizione Lombroso sembra offrirci, alla lettera, uno sviluppo di ciò che precede, un vero e proprio nuovo pensiero forgiato dalla «lotta per la sopravvivenza» sostenuta con le critiche e le opinioni avverse, da cui finalmente emergerebbe un autenticamente nuovo concetto ‘evoluto’ del medesimo problema. E tale modo di procedere, a ben vedere, sembrava fatto apposta per indicare la dinamica progressiva, per scarti e innovazioni, entro cui «tutto si tiene», tutto poteva trovare una logica e una funzione «utile»,  malattie ed anomalie ereditarie comprese. Egli acquisiva insomma un metodo che diverrà il sistema interpretativo del cosmo e la legge universale cui obbedire in ogni piega dell’azione umana e intellettuale. Anche le devianze e le follie, perciò, lungi dal rappresentare un’inutile persistenza del «selvaggio» atavico, come una sorta di «fossile vivente»; o limitarsi alla manifestazione di un crimine tanto assurdo quanto colpevole, dovranno prima o poi trovare la loro funzionale – buona perché progressiva – collocazione in una legge unitaria.

«Nel secolo delle unificazioni, dovremmo far anche questa» aveva del resto esordito nel 1864, con la prima uscita pubblica di uno scienziato autorevole sull’argomento dell’origine dell’uomo, lo zoologo evoluzionista Filippo de Filippi, riferendosi, oltre che all’unificazione nazionale, anche a quella «anatomica» fra scimmie e uomini. «Se vogliamo trincerarci nel campo della nuda anatomia – aveva dichiarato – la gran barriera fra bimani e quadrumani, deve essere definitivamente abbattuta, e l’ordine dei primati ristabilito» (De Filippi, 1983, p. 3), lasciando invece alla dimensione intellettuale e spirituale dell’uomo di definire le eventuali distinzioni. La conferenza di De Filippi fu quindi «qualcosa di più che la comunicazione di uno scienziato sugli ultimi sviluppi della biologia. Il contenuto, centrato sull’origine dell’uomo; la forma semplice, ma precisa nei termini e nei riferimenti; lo stile lucido e appassionato e il pubblico, non solo di specialisti, cui è rivolta, ne fanno un’occasione per professare un credo, per sottolineare un’adesione franca e piena a un’idea, quella darwinista» e per propugnare idee sentite come capaci di «modificare un modo di pensare e di provocare consensi entusiastici o indignazioni scandalizzate» (2). Si capisce, insomma, che essa offrì un «carattere di ufficialità e di avanguardia, soprattutto per il riferimento alla scabrosa questione dell’origine dell’uomo» tanto da fargli «meritare un posto a sé nella storia del pensiero biologico italiano» (Giacobini & Panattoni, 1983, p. 35). L’affermazione dello zoologo, breve ma illuminante, confermava tra l’altro la diffusa tendenza, nel mondo scientifico e filosofico del secondo Ottocento, ad ambire in ogni campo dell’azione umana a nuove unificazioni, che in qualche modo risarcissero e compensassero il rifiuto e la messa in crisi della visione del modo classico-cristiana che per tutto il medioevo e l’Antico regime era servita di riferimento alla cultura d’Occidente. Si è infatti spesso insistito sul carattere dualistico della cultura del secolo XIX, ma non si deve perciò dimenticare che l’anelito comune alle due grandi scuole filosofiche che in Italia si contesero il campo in questo secolo, la positivista e l’idealista, ovvero la materialista e la spiritualista, consisteva proprio nel tentativo di unificazione globale del sapere, di sistematizzazione delle discipline secondo nuovi metodi (‘scientifici’, ‘induttivi’, ‘analogici’), e soprattutto di affrancamento e superamento della tradizione nella sua funzione di risposta globale alle esigenze dell’uomo, configurandosi perciò spesso, almeno nelle intenzioni, come moderne ‘religioni’. Ciò concorre in parte a spiegare, ad esempio, il facile passaggio di molti protagonisti intellettuali dall’una all’altra ‘scuola’. Basterebbe pensare alle simpatie per il positivismo e l’evoluzionismo dell’idealista Francesco De Sanctis. O anche, fra i molti possibili, all’hegeliano Angelo Camillo De Meis, coetaneo e allievo del De Sanctis, medico e fisiologo (Asor Rosa, 1975, p.855) (3). O ancora, di altra generazione, a Giovanni Vailati (4), eminente filosofo della scienza positivista e matematico, ma anche entusiasta spettatore e lettore delle conferenze sull’evoluzionismo spiritualistico di Antonio Fogazzaro, che nei primissimi anni del nuovo secolo fonderà con Calderoni e con gli ‘irrazionalisti’ Papini e Prezzolini a Firenze la celebre rivista pragmatista del «Leonardo», che poi si avvicinerà all’idealismo crociano. Senza trascurare lo stesso Papini che, prima di diventare uno dei più noti esponenti del pragmatismo mistico e spiritualista delle avanguardie novecentesche, fu, dal 1902, membro e segretario della Società di antropologia fondata dall’antropologo positivista ed evoluzionista Mantegazza, ove lesse le maggiori opere dell’evoluzionismo italiano (Canestrini) e straniero (Haeckel) dopo aver seguito anche lezioni di anatomia e fisiologia. E lo stesso  Haeckel, il più importante divulgatore della «fede» evoluzionista in Europa, nonché ispiratore in Italia dell’evoluzionismo diffuso dai popolari Manuali della Hoepli (5), strenuo assertore del materialismo monista, voleva svolgere un programma religioso, e cercava con ogni mezzo l’unità dei saperi e del cosmo contro il dualismo della tradizione (6). Il fenomeno, pertanto, sembra avvalorare ma anche aggiungere qualcosa a ciò che afferma Asor Rosa circa il rapporto fra filosofia e scienza in questo giro d’anni, insistendo sul fatto che «il mito dell’“unità del sapere” va catalogato tra quelle fondamentali esperienze di pensiero che caratterizzano, al di là delle stesse differenze ideologiche, la storia di un’intera classe intellettuale nazionale» (Asor Rosa, 1975, p. 857). L’anelito unificatore e ‘re-ligioso’ non solo contraddistinse infatti la ricerca culturale e filosofica del miglior positivismo italiano fra gli anni 60 e 70 del XIX secolo, ma fu imprescindibile presupposto di tutta la cultura di ispirazione evoluzionista, materialista o spiritualista che fosse, votandola ad uscire senza riserve dal ristretto campo dei «fatti», per assumere il compito d’una missione morale e rigenerativa dell’umanità intera. In tal modo si comprende anche meglio lo stretto legame fra positivismo e «irrazionalismo», razionalismo e misticismo, scienza e occulto, esperimento e magia, così caratteristico della nostra cultura otto-novecentesca, scientista e militante, di cui parteciperanno i protagonisti del positivismo come Morselli e Lombroso (7), e quelli del risveglio spiritualistico su base positivista, come Giacosa e Fogazzaro, accomunati tutti da un’inossidabile «fede» missionaria nel progresso cosmico, antropologico e morale dell’umanità, come finalmente la scienza evoluzionista assicurava con le sue «ipotesi». In  tale situazione di fluida commistione filosofica, anche il rapporto fra le cosiddette «due culture», scientifica e umanistica, che tra breve si mostrerà fatalmente conflittuale, risultava viceversa ancora indeciso, tanto da produrre una delle caratteristiche categorie di intellettuale dell’età del progresso, vale a dire la figura dello scienziato-letterato, come furono esemplarmente Mantegazza e Lessona, Lioy e Stoppani, Strafforello, Stefanoni e Giacosa (Govoni, 2002).

In questo clima, segnato dunque da una strana e peculiare commistione fra antico e moderno, Lombroso, giovane studente di medicina a Vienna, sin qui attratto dalla carriera dell’uomo di lettere – studioso delle gloriose gesta della Repubblica romana, o degli eclettici interessi antropologici e linguistici del suo maestro, medico e filologo, Paolo Marzolo – nel 1858 «si diede alla scienza». Secondo Gina Lombroso, amorevole figlia, fedele biografa e curatrice del disperso materiale del padre, fu infatti a Vienna, «dove i professori facevano vere lezioni, portavano i discepoli nelle cliniche e negli ospedali, lasciavano loro vedere e toccare i malati», che Cesare ebbe per la prima volta «la rivelazione che si può, studiando, trovare il rimedio a molte malattie anche mentali». Qui Lombroso ebbe «la visione che i pazzi veduti ansare senza speranza nelle torte corsie di Pavia e di Padova potrebbero essere guariti», a patto che «fossero studiati e curati come a Vienna». La cura dei pazzi fu dunque la via che lo condusse alla «scienza positiva», lasciando l’allettante ma immaginario «paradiso terrestre della letteratura», per «vivere in un mondo lugubre di vivi e di morti», e dedicarsi al duro ma reale lavoro dei «fatti». In ogni caso, «la foga, l’ardore dei nuovi studi» furono «così assorbenti», che non lasciarono «largo posto ai rammarichi» (Lombroso, 1932, p. 31). La sua opera di scienziato dei fatti si caratterizzò quindi secondo gli ideali di «una missione a cui egli anelava senza saperlo» sin da quando «nel suo diario si disperava “di non essere buono”, “di essere tutto da rifare”, “di sentirsi regredire”». Esaltato dall’idea, Lombroso mise «tutto l’ardore missionario della sua razza» sentendosi finalmente «figlio di antichi profeti cui era indifferente studiare o battersi pur di giovare alla patria». La missione di «far il bene per il piacere di farlo» lo spinse così a sognare «di dar sollievo a tutti i pazzi, a tutti i sofferenti del suo paese»; guarirà perciò «le malattie mentali», trovando in tale compito «la sua fede, la ragione della sua esistenza» (Lombroso, 1932, pp. 27-29). La nuova scienza antropologica penetrava così il regno della natura umana, ma lo faceva in nome di una giustizia più nobile e più alta, sacerdotale, affacciandosi nei tribunali, mettendo in discussione il vecchio diritto penale; il suo anelito missionario, poi, si poneva come obiettivo dichiarato, sin dalla sua origine «scientifica», di adempiere ad un’opera autenticamente salvifica. Oltre al vecchio giudice attardato nei superati, astratti «principi» del diritto romano, l’antropologo psichiatra diventava un moderno curatore di anime, capace finalmente di dirimere, grazie al nuovo sapere della scienza, il vero bene dal vero male, il sano dal malato, il criminale dal pazzo, domandandosi accoratamente il senso della loro infelice esistenza e cercandone risposta. Emarginati, deviati, folli, criminali, pazzi morali, mattoidi, diventavano l’oggetto delle cure e dell’attenzione di una nuova «fede», che finalmente avrebbe considerato quegli infelici per quello che, «effettualmente», erano, e non per quel che, secondo i «principi metafisici» obsoleti, essi avrebbero dovuto e potuto essere. Lombroso quindi proponeva il superamento dei metodi antichi e umanistici con il metodo della scienza moderna positivista. Egli optava quindi per uno «studio clinico delle alienazioni mentali» fondato su «fatti obiettivi, palpabili e non architettati dalla mobile fantasia, o dall’acuta, profonda, ma pure spesso fallace meditazione», che non era ispirato da una visione naturalisticamente pessimistica e negativa della natura umana, come poteva esser stato per il suo antico e ancor troppo medievale Machiavelli. Quanto il fiorentino insisteva sulla necessità di un principe «martire», che prendesse su di sé la connaturata malvagità dell’uomo (l’uomo è «malo»); tanto Lombroso era convinto che «la tendenza al bene, la virtù, è naturale e fisiologica nell’uomo», esattamente come «i moralisti lo dicono». Una bontà naturale, non solo di indole roussouviana, e neppure «solo perché ciò nobilita il povero bipede», ma perché «non [...] par contestabile»: «come diceva il nostro Cattaneo» fra «il vizio e la malattia» vi è «un vero mondo intermedio» che «si chiama delitto».

L’assunzione di una bontà originaria, invece della malvagità, non escludeva tuttavia un più intimo parallelismo fra la «verità effettuale» del Principe e il «metodo dei fatti» dell’antropologo: entrambi erano chiamati ad una missione di giustizia, che consisteva nell’assumersi essi soli le responsabilità terribili del male sociale. In particolare, sulle spalle di Lombroso gravava il compito di emettere il giudizio «sulla necessità dell’isolamento, dell’interdizione», pagando in prima persona lo scotto dell’inevitabile impopolarità, fino a condividere il martirio destinato a coloro che si fanno vittime per il bene di tutti. La scienza alienista era anzi più radicale di quella politica, dovendo direttamente trattare del male incarnato nelle forme della pazzia e della devianza. Di fronte a «questi infelici» che «s’accasciano miseramente negli abituri delle nostre campagne, preda degli scherni, od alla fame» non restava che studiare a fondo, nella loro «eziologia», nella «loro natura» e nelle loro «conseguenze» simili «piaghe», non solo per «moderarne nei colpiti la bruttezza e la ferocia», ma nella speranza progressiva di bloccarne «la propagine e lo sviluppo, e quindi a farle pressoché sparire dalla nostra terra». In altri termini, il dominio della scienza dei fatti condurrebbe finalmente al metodo della prevenzione, che scongiurerebbe non tanto l’apparire della malattia, ma la nascita stessa di «questi infelici», degli stessi malati. Essi, infatti, non potevano godere della dignità di persone, per quanto malate o colpevoli di delitti, cui poter attribuire diritti alla vita, alla responsabilità individuale, alla libertà, o addirittura alla felicità e al progresso; costoro erano viceversa anelli sbagliati della catena evolutiva, «atti a null’altro che a propagarvi e ad eternarvi il lurido seme dei loro mali guastando alla radice la prole robusta dei nostri coloni».

Era questa la prolusione al corso di Clinica delle malattie mentali, letta a Pavia nel 1863 (Lombroso, 1913, pp. 1-6), che già conteneva, neppure tanto in nuce, alcuni importanti criteri ispiratori dell’attività lombrosiana e dell’interesse scientifico, morale e civilizzatore, per il mondo della follia, e in genere per tutto ciò che esulasse dalla norma dell’uomo civile e di buon senso. L’attenzione era perciò rivolta ad indagare le ­sino ad ora misteriose e inesplicabili vestigia del male che si ostinava ad abitare nel perfettibile mondo della modernità in via di redenzione. Rileggendo il mito antico con la luce della nuova scienza, come spesso accadeva a gran parte della generazione positivista, anche Lombroso credeva infatti nell’avvento di un nuovo ordine cosmico, di sapore quasi virgiliano. Il mito della Terza Roma portava con sé del resto il mito di una renovatio escatologica. Quando negli anni Novanta, forte dell’ipotesi evoluzionista, la categoria della devianza e della alienazione avranno ormai assimilato i casi particolari del pazzo, del pazzo morale, del mattoide, del criminale e del genio sulla base della loro presunta patologia epilettica, il dramma morale e antropologico dell’esistenza del male sarà risolto finalmente in modo nuovo, oltre l’utopia del mito, oltre il realismo politico del Machiavelli. Se infatti Machiavelli, in perfetta omologia con quel che stabilirà come canone la Storia della letteratura italiana del De Sanctis, era solo un profeta dell’italiano moderno, l’avvento della scienza avrebbe consentito la definitiva uscita dalla minorità metafisica dell’uomo vecchio e trasformato le menomazioni, le regressioni selvagge, i delitti, in positivi antagonismi propulsori del nuovo. «In questa Storia» scrive Amedeo Quondam riferendosi all’opera del De Sanctis «arrivano, finalmente, i “nostri”, ma senza squilli di trombe: prima l’“eroica resistenza” di pochi pazzi», quindi, esplicitando le categorie evoluzionistiche di cui si serviva De Sanctis, la «resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno». Infine, commenta Quondam, «schiere sempre più ampie di progressisti e di riformatori. Pazzi o geni, pagano anche con la propria vita il prezzo della loro rivolta» (8). In buon accordo, dunque, anche Lombroso scopriva, insieme alla funzione sociale della follia e del genio, anche quella del delitto, cioè del fare il male per uno scopo buono, e della nuova bontà della pazzia quando assumeva i connotati del genio. «È noto come, secondo le teorie darwiniane» scriveva dunque nel lavoro del 1896 (Lombroso, 2000c, pp. 640-641), «non sopravvivono che le istituzioni e gli organi, i quali abbiano una qualche utilità per l’umanità, perché altrimenti la selezione li atrofizza e li spegne». L’evidenza scientifica confermava cioè la profezia ancora troppo letteraria del Machiavelli, la cui lezione appare ben viva nella memoria di Lombroso, che unisce le categorie evoluzioniste alle politiche, anche attraverso l’impiego di certa terminologia di evidente ascendeza  machiavelliana e assai frequente nel lessico lombrosiano (si veda ad esempio l’uso tecnico di «spegnere»). Al contrario di quanto sosteneva Herbert Spencer, infatti, che prevedeva una progressiva riduzione del crimine e del male morale e psichico, secondo Lombroso «il delitto va continuamente aumentando» e «lo vediamo anzi tanto più crescere quanto più la civiltà si va avanzando». Questa intollerabile realtà, questo ossimoro della modernità progressiva, non poteva non avere soluzione scientifica. E infatti, la constatazione della diretta dipendenza fra aumento della civiltà e aumento della pazzia e del delitto, unita «alla legge darwiniana sopra citata – proseguiva Lombroso – mi fa sospettare che anche il delitto abbia una funzione sociale». Ne veniva perciò la necessità di un confronto con i «tempi antichi», presso i quali, come «ora nei popoli meno civili, i più nefandi delitti sono adoperati come arma politica; e noi possediamo anzi una specie di codice (quello di Machiavelli), che è tutta una serie di progetti, di delitti a scopo politico, di cui Borgia fu il praticato esecutore, o meglio il modello». Allo stesso modo, nell’Italia odierna, «una triste osservazione» «mia ha dimostrato che, da Cavour in poi, non vi fu un ministero completamente onesto che potesse reggersi». Anzi, «il peggior ministro per l’Italia fu quello che dichiarava: “saremo incapaci, ma onesti” e ahi! la storia postuma rivelò che non era onestissimo neppur esso». Ciò, da un lato avrebbe dimostrato il danno che provocano «gli studi arcaici», ossia gli studi storico letterari, nei quali «potrebbero specchiarsi molti Ministri della Pubblica Istruzione, che ci ribadiscono sempre più la catena dei classici, così dannosa ai cervelli mediocri». Dall’altro, lo studio scientifico dei delinquenti e delle prostitute «degenerate» avrebbe confermato la presenza di «eccessi intellettuali, di cui l’uomo medio non è capace» perché, lontanissimo dal genio, non è creatore. L’«anomalia organica» presente nei pazzi, nei degenerati e nei delinquenti, preparava dunque «il terreno al minore misoneismo, che è il carattere normale dell’uomo onesto normale», rendendo tale deficienza un vantaggio per la società. Facilitati quindi dalla disfunzione organica a vedere il nuovo, e quindi ad essere in un certo senso profeti di una verità a venire, i deviati di ogni specie «vedono, forse ispirati dalla passione, i difetti dei Governi» che insieme «all’impulsività e al bisogno del male» li spinge «in prima linea nelle ribellioni». Una volta dunque stabilita la causa organica che definirebbe i pazzi e i criminali, essi cominciavano ad apparire  non solo come prossimi al genio, ma più originalmente assumevano una valorizzazione moralistica piuttosto che intellettualistica, che consisteva nell’essere dotati di eccezionali capacità di diagnosi sui «difetti dei Governi», di odio verso lo «stato presente», e dunque di slancio ideale che li rendeva «più inclini all’azione» innovatrice e rivoluzionaria (9). Il loro genio morale era insomma direttamente associato alla capacità profetica, d’anticipare, antivedere, creare fenomeni, scoperte, istituzioni, per lo più del tutto «inconsciamente» (9); in altri termini, grazie alla loro malattia, essi avrebbero potuto anticipare ciò che poi, nel futuro che necessariamente sarebbe avvenuto giusta le inflessibili leggi cosmiche descritte dall’evoluzionismo, sarebbe stato accettato quando anche il gran numero del «pubblico» normale si sarebbe evoluto. I devianti, infatti, «anormali essi stessi, non sentono la ripugnanza del pubblico, per l’anomalia, per la novità» e adoperano la loro «straordinaria energia» «oltreché pei propri vantaggi e per eseguire i loro tristi scopi, nel sostenere e propagare le nuove idee, mentre gli onesti apatici ne rifuggirebbero». Nelle «truffe» essi portano «lo stesso spirito novatore»; «gli imbroglioni, i truffatori» se è vero che lavorano per il loro tornaconto, è altrettanto vero che «applicano il loro ingegno a vantaggio di altri» e «mettono in moto una tal quantità di fermenti, che danno spinta fortissima al progresso e alla civiltà» (Lombroso, 2000c, pp. 642-643). Si realizzava così, su scala antropologica e per il progresso di tutta la specie, la profezia sociale e morale della Favola delle api di Mandeville, secondo la quale i tanto deprecati «vizi privati» erano i necessari responsabili dei così lodevoli «pubblici benefici». Ma a differenza del pensatore settecentesco, nel XIX secolo non si trattava più di adempiere liberamente ad una scelta morale, ma di obbedire ad un’asserzione scientifica, che metteva capo ad una legge universale della devianza in grado di rendere ragione della totalità dei fenomeni legati al progresso dell’umanità.

Per tutta l’esistenza Lombroso si era angustiato di fronte ad una sorta di insostenibile pesantezza della presenza del male sotto la forma della pazzia. C’era stato, all’origine, l’inquietante incontro con il cretinismo, un problema «né semplice né facile». Nella Prefazione del 1859 al Cretinismo in Lombardia, la sua indagine sul campo, secondo gli insegnamenti della scuola viennese, lo avevano condotto ad angosciate e angosciose riflessioni, autenticamente drammatiche, che vale la pena riproporre.

L’osservatore cui si affaccia il fenomeno del cretinismo, non nel queto soggiorno di un ospizio, ma nell’umile suo nido, tra le catapecchie della città e dei villaggi remoti si sente colpire da una singolare ambascia. L’animo e l’occhio angustiato da quell’aria oscura, da quelle vie sudice, da quei volti squallidi e torvi degli abitanti, da quell’orrenda miseria che traspariva ovunque, si arrestano ancora più tristemente su quella nuova specie di uomini bruti, che burbugliano, grugniscono, si accosciano, sbadati, fra gli apatici congiunti, sui quali l’affinità del sangue e del morbo sta dipinta a brutti caratteri nel volto e nella gola. (Lombroso, 1859/1932, p. 29)

Il pur tristo ritratto, assai meno sociale quanto piuttosto già fisiognomico e ben radicato nell’antropologia evoluzionista, assumeva tratti ancor più cupi e apocalittici se messo a confronto con quel che seguiva, allorché, passando dal dato corporale a quello mentale, dalle «sembianze» alla parola, dai «bruti» sembrava uscire il residuo d’una «luce» di intelligenza e, con essa, il grottesco manifestarsi allo stadio di sub-umanità degenerata, l’ostinato persistere della loro libertà: “Che è poi quando ti metti a interrogare quegli esseri, ed al meschino raggio d’intelligenza che luce ancora su quelle poco umane sembianze, ti è dato scorgere le forme più ignobili dell’egoismo e della cattiveria!” (idem)

Almeno non parlassero, fossero cioè «bruti» a tutti gli effetti; o discordasse almeno l’aspetto ‘bestiale’, malvagio, esteriore, con la bontà «umana» del cuore, interiore. Invece il rapporto inesorabile fra ‘anima’ e ‘corpo’, lo stretto determinismo fra esterno ed interno, rendeva quegli «spettacoli» di così acerbo dolore, che nessun sollievo e redenzione ne sarebbero venuti «col senso della compassione» o «coll’indifferenza». Davanti al mostruoso «spettacolo» dei cretini  

un senso ti nasce nell’animo, ad un tempo uggioso, avvilente e confuso, in cui non poca parte hanno le cause stesse che ingenerano il cretinismo; senso che ti si appiccica quasi e ti accompagna nelle ricerche scientifiche, sì che i fatti più chiari ti si contraddicono fra loro e sfuggono alle sintesi, snaturano e rabbuiano non solo l’essenza e le cause, ma la forma stessa del morbo; talché spesso non ingrata soltanto, ma anche inutile riesce la tua fatica (Lombroso, 1859/1932, pp. 29-30).

Lo sconforto del «missionario» innanzi la bruttezza senza vie d’uscita del male non potrebbe essere più palpabile. Anche l’icasticità dello stile letterario, efficacemente calibrato sul registro ‘infernale’,  ricorda il clima della cantica dantesca. Lombroso pare quasi rileggersi con gli occhi del pellegrino Dante (10), il quale, giunto alla soglie dell’inferno e al principio dell’incredibile viaggio che lo attende, teme, appunto, «che la venuta non sia folle», e gioca tutto il dialogo con Virgilio proprio intorno al senso da attribuire alla follia umana. Lo ricordava infatti Cesare Mozzarelli nell’introduzione al Seminario Nazionale su Salute mentale e Stigma sociale (Mozzarelli & Civinini, 2004), che l’etimo di «follia» è da riferire al «follis», «al mantice che si riempie d’aria, dunque al vuoto, al vento», attribuendone il significato negativo all’accezione della follia antica, come devianza dalla «retta via», uscita dalla ragione verso la vacuità, la mobilità del vento, alla quale infatti sono destinate le anime dannate. Dante esortava la sua guida ad essere «savio» per intendere «me’ ch’i’non ragiono»: esortava insomma Virgilio a diagnosticare meglio la radice della presunta follia che lo faceva resistere all’impresa del viaggio. E la risposta virgiliana, anziché confermare la diagnosi del finto pazzo Dante, ne intendeva tutt’altro senso: «S’i’ ho ben la parola tua intesa/[...]/ l’anima tua è da viltade offesa/la quale molte fiate l’omo ingombra/sì che d’onrata impresa lo rivolve»: la vera follia era insomma rifiutare la via divina in nome del buon senso.

Lombroso indicava perciò i veri geni della storia in Spinoza, Bacone, Galilei, Dante, Voltaire, Colombo, Machiavelli, Michelangelo e Cavour, che differivano dai «geni malati» e dalla «patologia dell’alienato», oltre che per «l’armonico volume del cranio» soprattutto per «la forza del pensiero, frenata dalla calma dei desideri», per una «passione» che non abbia «soffocato l’amor di famiglia e di patria»; quindi perché «non mutarono mai di fede o di carattere, non divagarono mai nello scopo; non lasciarono a mezzo, mai, l’opera loro». Di fronte ai più temibili assalti, al «sublime eretismo dell’estro», alla «tortura dell’odio ignorante», allo «sconforto del dubbio», «essi non deviarono mai, perciò, dal retto cammino» (Lombroso, 2001, p. 409). Non si rivolsero mai, parafrasando Dante, «d’onrata impresa», e furono coerenti fino in fondo con la propria convinzione: in ciò consisteva la forza di volontà del genio contro la debolezza del matto. Sfuggiva tuttavia all’antropologo il significato diametralmente opposto che nel contesto dantesco assumeva il termine «follia». Ovviamente, Dante stigmatizzava un’idea di ragione chiusa ai soli valori cortesi e umani, che dichiarava follia il paradosso dell’incarnazione cristiana e delle sue conseguenze storiche: che un uomo, appunto, potesse ora ascendere a Dio. La «follia» sembrava perciò configurarsi nella visione dantesca più vicina a quella di Aiace, come ricordava Mozzarelli, che sfida Nettuno, e che consisteva «nel voler ciò che all’uomo non è concesso»: il «folle volo» di Ulisse, dunque, che naufragò alle coste del Purgatorio per essersi ritenuto capace, colle sole sue forze di astuzia intellettuale, di un’impresa che invece Dante condurrà a termine in virtù della compagnia personale di Dio tramite il sostegno di un «savio». Ma quale maggior pazzia, agli occhi della sanità lombrosiana del buon senso, di quella che spinge un pellegrino qualunque a salire al cielo cominciando col discendere agli inferi, e per di più seguendo una guida pagana? 

La fede positivista di Lombroso, viceversa, non solo impediva di leggere nella critica ai valori di un certo mondo cortese una sorta di parodia del buon senso laicista, moderato e liberale, messa in atto dal medievale Dante, ma, come molti altri intellettuali progressisti neppure riusciva a capacitarsi del fatto che tutto l’inferno fosse squassato e flagellato dal «vento»-«follia» che proveniva dal battito delle gigantesche ali del pipistrello Dite, cioè di Lucifero in persona, e che giungeva sin là dove si estendeva il dominio infernale. Così, mentre De Sanctis celebrava nella Storia della Letteratura la Francesca da Rimini – sbattuta qua e là dal vento diabolico e folle del «talento» cui decise in vita di sottomettere la «ragione» – assumendola proprio per questo al rango di «prima donna del mondo moderno» (De Sanctis, 1958, vol I., p. 187), Lombroso proverà per tutta la vita a dare un senso non metafisico alla follia, cercando in tutti i modi o di relegarla nel moderno inferno del manicomio, o di sublimarla ed elevarla a vera ‘ragione del mondo moderno’, sino a farne l’origine – incompresa e incosciente – del rivoluzionario, del pazzo morale, del genio epilettico e finanche del santo (11).

Restava solo da risolvere, in questo percorso di emancipazione della dimensione infernale e folle della ragione umana, uno spiacevole paradosso, che costringeva a riconoscere l’esito della civiltà progredita e moderna non come l’evoluzione di un’umanità più sana e santa, della realizzazione insomma del paradiso in terra, ma come l’affermarsi dell’‘inferno’  come «folle» tentativo di condurre l’uomo al cielo (12). Tutti i «fatti», da quelli culturali a quelli fisiologico-anatomici, continuavano a ripetere che la civiltà moderna era stata preconizzata e profetizzata dagli abitatori dell’inferno, fossero i Farinata o le Francesche; fossero gli eretici pensatori o martiri della scienza; ovvero i pochi geni innovatori, insieme ai degenerati, ai pazzi, ai delinquenti nati, ai tribuni rivoltosi, alle prostitute laide, tutti portatori, a differenza dell’uomo normale, della vera stigmate della «buona» follia: il «filoneismo». Insomma, non v’era alcun paradosso: come Darwin avrebbe insegnato, che cioè dall’individuo deviante nascerebbe il migliore atto alla lotta e alla sopravvivenza, così la società umana sarebbe progredita grazie a coloro che non ebbero, per ragioni fisiologiche come la patologia epilettica, paura del nuovo. Le ‘pietre’ scartate dalla storia e dall’opinione del volgo, i deviati, erano insomma riscattati secondo un nuovo evangelo, che li identificava come le «pietre angolari» della modernità. Il misoneismo era infatti il vero flagello della civiltà progrediente. Il primo a farne direttamente le spese era stato del resto lo stesso Lombroso, che non si stancò mai di denunciare, quasi ad ogni prefazione, le difficoltà incontrate dalle sue teorie, perché «siamo in un paese vecchio, che, come i vecchi ed i bambini, ha terrore di ogni novità; e per difendersene crea la leggenda e la fiaba, che trasforma in uno stupro di demolitori quanti osano pensare diversamente dalla inerte maggioranza e cerca annichilirlo» (Lombroso, 1887, p. XII). Non si trattava infatti, per l’antropologo, di un problema superficialmente ‘psicologico’, legato all’indole soggettiva di alcuni individui. Certo, a dare il peggio di sé erano specifiche categorie intellettuali, tra cui spiccavano i giornalisti: «Il giornale uccide il libro», poiché «chi può passare il tempo [...] con quelle paginette svolazzanti ed amene, a periodi spezzati e infiorati di giocherelli, da pompierate e perfino da pupazzoli», non può «non avere a sdegno anche i più piccoli volumi di scienze».  Quando appariva una novità che urtava l’ovvio senso comune, i giornalisti creavano «così di lor posta, una leggenda [...] in perfetta antitesi colla verità», come quando avevano sostenuto essere «la nuova scuola penale [...] protettrice dei rei, mentre ne è la più implacabile persecutrice». In tal maniera, «con un fanatismo apostolico [...] non di rado spengono, brutalmente, le opere più geniali». E «forse peggio di loro si comportano», ed ecco un’altra categoria misoneista, «i colleghi dello scienziato: gli scienziati che diremo Accademici, che hanno per massima suprema lo sprezzo dei volghi profani» (Lombroso, 1886, pp. X-XI). Le novità della scienza, viceversa, nascevano per essere divulgate, benché poi sussistessero difficoltà nell’essere comprese, sia a causa della loro intrinseca difficoltà, sia perché «mancano in Italia i molti che amino istruirsi nelle cose scientifiche», ma sia soprattutto per una serie di ragioni culturali, storiche e geografiche che risalivano al “mito” del peccato d’origine della tradizione culturale italiana nell’eredità della «maschia intelligenza latina», così come s’era costituita in Antico Regime. Del misoneismo, infatti, «un po’ n’ha colpa la soavità del nostro clima»; quindi «la incontrastata bellezza dei nostri classici»; «ma più di tutto»  

quella specie d’atavismo, lasciatoci nel sangue dalle abili mene dei passati governi e dei buoni padri di Gesù, i quali, ben comprendendo quanto sarebbe stato difficile l’evirare, d’un tratto, la maschia intelligenza latina vi s’adoperarono abilmente col distrarne, per secoli e secoli, tutta la vigoria nelle adorazioni idolatre della forma, ci guastarono così profondamente il senso intimo, che anche fra i più colti non si può nemmeno discutere sul maggiore vantaggio che hanno le nozioni scientifiche sulle letterarie (Lombroso, 1886,  pp. IX-X).

 In altri termini, oltre a «quel ribrezzo che nasce dal dolore e dalla difficoltà di percepire le sensazioni nuove e che è proprio degli individui incolti», e, come si è visto, in genere degli uomini «normali», «per noi Latini v’è una causa in più», e sarebbe  

l’esaurimento lasciato dalle troppe civiltà godute; tremila anni di coltura, più o meno intensa, vi hanno fatto crescere ed abbarbicare migliaia di piante, sicché le nuove restano soffocate dalle vecchie o appena riescono ad una vita stentata o infelice, mentre nei popoli da poco inciviliti ogni nuovo seme riesce rigoglioso e fecondo. Perciò noi, checché ci vantiamo a parole di tolleranze e progresso, rifuggiamo da ogni varietà; siamo un popolo di archeologi morali – viviamo del passato,  fuggiam da ogni soffio d’aria viva, attuale (Lombroso, 1886,  p. XIII).

Occorreva dunque sfrondare e potare con l’accetta delle verità scientifiche questa troppo consunta tradizione, che lungi dal rappresentare la forza dell’identità nazionale, nonché della razza latina, per Lombroso – in perfetta sintonia, lo ripetiamo, con la maggior parte dell’intellettualità progressiva e positivista ottocentesca, materialista o spiritualista che fosse – ne costituiva  invece il peggiore ostacolo.

Ma l’elemento storico e culturale, come sempre in Lombroso, non rappresentava mai la causa determinante di un fenomeno, bensì solo aggravante o attenuante in un delicato gioco di compensazioni. Il misoneismo, in altri termini, era qualcosa di ben ancorato al livello biologico dell’antropologia evoluzionista, ed era perciò argomento di scienza positiva, con il metodo dell’osservazione dei fatti. Accadeva perciò che, da un «aneddoto» raccontato «dall’egregio mio amico professor Lessona (13)», Lombroso pervenisse a definire una vera e propria legge del misoneismo, che indicò poi come «legge d’inerzia». Si trattava, è importante notarlo, d’una riflessione centrale nel discorso sulla pazzia cominciato in gioventù, e sul significato che esso aveva via via assunto nello sviluppo degli studi, divenendo la categoria onnicomprensiva cui già accennavamo. Nel 1886, introducendo la raccolta di saggi intitolata ai Pazzi ed anomali, Lombroso infatti rispondeva alle molteplici critiche che avevano messo in discussione l’esorbitante applicazione del suo metodo. «Ed ho io colpa» domandava nel primo capitolo «se il genio è in gran parte effetto di un’iperemia cerebrale che essendo comune anche ai pazzi fa che spesso ne prenda a prestito non solo le parvenze ma fino l’indole tutta?». O poteva essere biasimato se si era trovato «costretto, dall’evidenza dei fatti» ad ammettere «che anche il delitto spesso non è che una manifestazione di una malattia cerebrale?». Domande che terminavano in un’esclamazione intensa, quasi a rilevare il disagio, lui per primo, per risultati che andavano contro il suo stesso buon senso e le sue attese: «Io, più di tutti, ve lo posso dire che ho creduto di lavorare molti anni per trovare le differenze fra i pazzi ed i rei, ed ho finito poi per trovare sempre maggiori analogie!». Aveva dunque colpa Lombroso se «intanto il campo dei matti si allarga[va] di troppo»? Come poteva conciliarsi la presenza di questi fenomeni atavistici con la civiltà progrediente? Per quanto riguarda il rapporto fra civiltà e pazzia, Lombroso ebbe modo di ripetere in più luoghi, che da un lato, quello delle «nude cifre», all’aumento di civiltà, di inurbamento, corrispondeva «un aumento nel numero dei delitti e delle pazzie»; ciò tuttavia non poteva trascinare «ad una bestemmia, che del resto sarebbe impotente, contro l’irrompere fecondo della civiltà, che anche da questo lato non può definirsi dannosa». Essa infatti «se anche fosse momentaneamente causa di un aumento dei delitti», secondo l’ormai consueto procedere evolutivo e compensativo della logica lombrosiana, «certo ne mitiga l’indole, e d’altronde, là dove tocca al suo apogeo, essa ha già trovato i mezzi di sanare le piaghe onde fu causa». «Mezzi» che, naturalmente, avranno poi il nome e la cosa di «manicomi criminali», «sistema cellulare carcerario», «case d’industria», «casse di risparmio applicate alle Poste ed alle officine», e «specialmente colle società protettrici dei fanciulli vagabondi, che prevengono, quasi nella culla, il delitto» (Lombroso, 2000b, p. 469). Tutto questo, però, era riservato al fronte dei «pazzi» atavici, selvaggi, regredienti, delinquenti, sventurati, «vagabondi», la cui pazzia, non possedendo le caratteristiche compensative del genio, rappresentava l’elemento negativo del progresso; negativo ma necessario e degno di compassione, perché destinato a far funzionare la legge della lotta per l’esistenza, e in essa interpretando il ruolo dell’inetto, dunque destinato «a soccombere» per la felicità, il benessere e il progresso altrui. C’era però un altro fronte, quello del genio e del pazzo di genio, per il quale «la civiltà», pur non essendone la causa, «determina la uscita, lo sviluppo dell’embrione, o meglio, ne determina l’accettazione». Ma nel passato la selezione non aveva agito per il meglio, eliminando i «forti» per lasciar spazio ai «geni». Anzi, i geni, assimilati agli inadatti alla lotta come i pazzi, erano stati scartati dalla storia. Poiché le civiltà più evolute erano infatti le meno afflitte dal misoneismo, «è probabile che de’ genii sieno comparsi in tutte le epoche, in tutti i paesi, ma come, grazie alla lotta per l’esistenza, una quantità di esseri non nasce che per soccombere, invendicata, preda dei più forti, così moltissimi di quei genii, quando non trovarono l’epoca favorevole, restarono ignorati, o misconosciuti, o peggio, anzi, puniti» (Lombroso, 1894, p. 466). Come molti pazzi del passato furono poi riconosciuti geni del futuro, così dunque geni del presente potrebbero essere considerati pazzi dalla società contemporanea, a causa del misoneismo, della «legge d’inerzia», andando così ad accrescere il numero dei martiri per il progresso della civiltà. La pazzia, in ultima analisi, sia che la si osservi come patologia manicomiale, dunque come necessario portato della legge evoluzionistica della lotta per l’esistenza, che deve prevedere una serie di individui che si sacrificano per la specie (14); sia da quello della pazzia di genio; in ogni caso rappresentava l’energia, il motore della civiltà, poiché era l’unica forza capace di vincere l’inerzia atavica degli uomini, che avevano ereditato sin dal loro stato selvaggio e dunque dal loro pregresso stato di bruto e di animale: il loro evoluzionistico peccato originale.

«Per misoneismo (neos nuovo, misos odiare) – scriveva Lombroso nel 1886 – io intendo quella tendenza istintiva degli animali vertebrati e ben inteso nell’uomo, specie in istato selvaggio, di avversare ed evitare qualunque sensazione nuova colpisca i loro sensi». La dimostrazione dell’assunto andava dunque a coinvolgere, secondo l’uso ormai invalso del genio di Down, tutta una serie di animali più o meno domestici, fra cui il cane, forse anche perché ‘miglior amico dell’uomo’, che teneva l’assoluto primato. Pare che l’osservazione del comportamento delle bestie più comuni – cani, gatti, cavalli o scimmie addomesticate – conducesse molti antropologi ottocenteschi, come gli armchair antropologist, alle più innovative e sconvolgenti scoperte scientifiche, cui nessun uomo di scienza sino ad allora fosse mai giunto. Tutti sanno infatti «come i cani abbajno sempre […] ad ogni vettura che passi per le vie silenziose del villaggio»; o che il cane di Bret-Harte «s’irritava per tutte le innovazioni introdotte dalla civiltà, come gaz, telegrafi, ferrovie»; o ancora che alcuni cavalli «s’impennano se il cavaliere abbia mutato foggia nel vestire», come fece una «scimmia addomesticata da un francese» che, scappata e tornata sui suoi monti, «fu accolta con orrore e sfuggita dai vecchi compagni grazie al vestiario». Degno di ampio rilievo veniva poi lo studio del noto psicologo evoluzionista anglosassone Romanes che, nella sua Evoluzione mentale negli animali, induceva dallo spavento prodotto al suo cane da un osso oscillante «una prova di un germe, già ben sviluppato, d’immaginazione degli animali, o come egli lo chiama di una particolare senso dell’ignoto, del misterioso, che più sviluppato nelle specie umane ha dato luogo alle religioni» (15). «Nulla di più erroneo di questa induzione», commentava Lombroso (16): «L’orrore del cane per le nuove proprietà dell’osso», in altri termini il suo misoneismo, come «quello delle galline e delle scimmie», «come quello dei fanciulli», non nasce dalla «troppa immaginazione, ma precisamente dalla mancanza di immaginazione, che non permette alle menti troppo corte o malate, di subire, senza un grande sforzo e quindi dolore, il cambiamento di scenario, diremo così, delle sensazioni primitive» (Lombroso, 1894, pp. 73-75).  La risposta alla legge del progresso cominciava così a farsi sempre più esplicita, impiegando la pazzia come assoluta protagonista. Infatti, come «ho potuto dimostrare altrove», egli proseguiva, l’uomo «naturalmente, eternamente, conservatore, non sarebbe progredito mai senza il combinarsi di circostanze straordinarie che mettevano nella necessità di superare il dolore della novazione per confortare altri più grandi dolori», cioè accettava la novità come male minore, per evitare un dolore maggiore. Ma in tali «combinarsi di circostanze», il ruolo dirimente lo ebbe la «comparsa di alcuni uomini singolari, come i pazzi di genio e i mattoidi, che per la anomala organizzazione avendo un esagerato altruismo e un’attività cerebrale superiore di lunga mano a quella dei contemporanei, precorrono gli eventi, trascinano alle innovazioni, senza pensare al proprio danno» (Lombroso, 1894, p. 77).  Era la pazzia dunque, nella sua forma progressiva e altruistica, che consentiva al mondo ed alle civiltà di proseguire nel cammino evolutivo di affrancamento dallo stato egoistico e conservatore del bruto, ossia di vincere la «legge dell’inezia»: «L’inerzia è la regola, il progresso l’eccezione». Da tale convinzione veniva a Lombroso la certezza della fine d’ogni paradosso, di cui si nutriva la sua fede in un inarrestabile, benché graduale, progresso, imposto dalla dialettica tra misoneisti e filoneisti, neofobi e neofili. Dalla parte dell’atavismo regressivo, dell’animale, del bruto, del selvaggio, del bambino, stavano naturalmente tutte le forme oscurantiste della religione. La religione era infatti «l’ufficio conservatore degli usi per eccellenza» e sin dall’origine essa «confuse subito per un’infrazione alla morale e un insulto a Dio, ogni infrazione contro l’uso». Di qui avvenne che «i custodi della religione, i sacerdoti, maghi, medici, stregoni, ecc.» fossero considerati sacri e delitti fossero considerate le offese contro di loro e «le leggi da essi introdotte» (Lombroso, 1894, p. 78).  Dalla parte buona, progressiva, altruistica stava invece la presenza «dei geni, degli alienati o dei mattoidi» che grazie alle loro anormalità fisiologiche «provocano i mutamenti non senza pagarne spesso il fio col martirio, col carcere e con le risate accademiche» (Lombroso, 1886c, p. 148).

Riferimenti bibliografici

Asor Rosa, A. (1975). La cultura. In Storia d’Italia (Vol. IV, 2). Torino: Einaudi.

Baima Bollone, P. (1992). Cesare Lombroso: ovvero il principio di irresponsabilità. Torino: SEI.

Bulferetti, L. (1975). Cesare Lombroso. Torino: UTET.

Colombo, G. (1992). La Scienza infelice: il museo di antropologia criminale di Cesare lombroso. Torino: Bollati Boringhieri. 

De Filippi, F. (1983). L’uomo e le scimie. Lezione pubblica detta in Torino la sera dell’11 gennaio 1864. Il Politecnico, III, 21. In G. Giacobini & G. L. Panattoni. Il darwinismo in Italia. Torino: UTET. (Original published in 1864).

De Sanctis, F. (1958). Storia della letteratura italiana. Bari: Laterza. (Origlinal published in 1872).

Fenizia, C. (1901). Storia dell’evoluzione. Milano: Hoepli.

Fogazzaro, A. (1945). Recensione a G. J. Romanes, L’Evolution mentale chez l’homme. Origines des facultes humaines. Parigi. In A Fogazzaro, Scene e prose varie. in Tutte le opere di Antonio Fogazzaro, vol. XV. Milano: Mondadori. (Original pulished in 1891).

Friedmann Coduri, T. (1900). Santi ed eroi. Milano: Tip. Pietro Agnelli.

Frigessi D.; Giacanelli F.; Mangoni L. (Org), (2000). Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti. Torino: Bollati Boringhieri.

Frigessi, D. (2000). Introduzione a La scienza della devianza. In Frigessi D.; Giacanelli F.; Mangoni L. (Org), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti. (p. 349). Torino: Bollati Boringhieri.

Frigessi, D. (2003). Cesare Lombroso. Torino: Einaudi.

Gibson, M. (2004). Nati per il crimine: Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica (Trad.). Milano: Bruno Mondadori. (Originale pubblicato in 2002)

Giacobini, G. & Panattoni, G. L. (1983). Il darwinismo in Italia. Torino: UTET.

Govoni, P (2002). Un pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica nell’Italia in formazione. Roma: Carocci.

Guarnieri, L. (2000). L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso. Milano: Mondadori.

Haechel, E. (1894). Antropogenia e storia dell’evoluzione umana. Il monismo quale vincolo tra religione e scienza. Professione di fede di un naturalista pronunciata il 9 ottobre 1892 al Altenburg in occasione del settantacinquesimo giubileo della «Naturforschende Gesellschaft des Osterlandes». (D. Rosa & A. Herlitzka Trad.). Torino: Unione Tipografico-Editrice.

Lombroso, C. (1883). Due tribuni. Roma: Sommaruga.

Lombroso, C. (1886a). Pazzi ed anomali. Città di Castello: Lapi.

Lombroso, C. (1886b). Il misoneismo negli animali e negli uomini. In C. Lombroso, Pazzi ed anomali. Città di Castello: Lapi.

Lombroso, C. (1886c). Una nuova teoria psichiatrico-zoologica delle rivoluzioni. In C. Lombroso, Pazzi ed anomali. Città di Castello: Lapi.

Lombroso, C. (1887). Tre tribuni studiati da un alienista. Milano: Bocca.

Lombroso, C. (1894). L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica. Torio: Bocca.

Lombroso, C. (1909). Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici. Torino: UTET.

Lombroso, C. (1913). Pregi e importanza dello studio delle malattie mentali. In C. Lombroso, L’uomo alienato. Trattato clinico sperimentale delle malattie mentali riordinato dalla dott.ssa Gina Lombroso. Torino: Bocca.

Lombroso C. (2000a). Genio e follia. Milano: Brigola Milano 1872, in In D. Frigessi; F. Giacanelli; L. Mangoni (Edd.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti (p. 409). Torino: Bollati Boringhieri. (Original published in 1872).

Lombroso C. (2000b). L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie. Torino: Bocca. In D. Frigessi; F. Giacanelli; L. Mangoni (Edd.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti. Torino: Bollati Boringhieri. (Original published in 1878).

Lombroso, C. (2000c). La funzione sociale del delitto. Palermo: Sandron. In D. Frigessi; F. Giacanelli; L. Mangoni (Org.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti. Torino: Bollati Boringhieri. (Original published in 1896).

Lombroso, G. (1932). Vita di Lombroso. Milano: Istituto italiano per il libro del popolo.

Mangoni, L.  (2000). Introduzione a Eziologia di una nazione. In C. Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti. (p. 685). Torino: Bollati Boringhieri.

Mosse, G. L. (2003). Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto. Bari: Laterza. (Originale pubblicato in 1978).

Mozzarelli C. & Civinini L. (2004, maggio). Le malattie mentali e lo stigma sociale nella storia antica, moderna e contemporanea. Intervento presentato al Seminario Nazionale Salute Mentale e Stigma Sociale. Percorsi interdisciplinari per il superamento del pregiudizio, Roma, Italia.

Parinetto, L. (1963). Vailati e Fogazzaro alla luce dell’inedito epistolario vailatiano. In Rivista critica di storia della filosofia, XVIII, 3, 499-523.

Quondam, A. (2004). Petrarca, l’italiano dimenticato. Milano: Rizzoli.

Resoconto (1907, novembre). Luce e Ombra, 11, 72.

Rondini, A. (2001). Cose da pazzi: Cesare Lombroso e la letteratura. Pisa-Roma: Istituti editoriali e poligrafici internazionali.

Semeria, G. (2003). La santità nella realtà della storia e in un romanzo recentissimo. In P. Marangon (Ed.), Antonio Fogazzaro e il modernismo. Vicenza: Accademia Olimpica.

Note

(1) Il lavoro è destinato a completare la serie di interventi del Seminario Nazionale Salute Mentale e Stigma Sociale. Percorsi interdisciplinari per il superamento del pregiudizio, tenutosi a Roma il 5 maggio 2004 presso la Sala Convegni dell’Ex Ospedale Psichiatrico S.Maria della Pietà, i cui Atti sono in fase di rielaborazione per un numero monografico della rivista «Cheiron».

(2) La figura dell’oratore che interveniva pubblicamente presso il Teatro annesso agli istituti di chimica e di fisiologia dell’Università era uno zoologo di fama internazionale, cui lo stesso Carlo Alberto aveva affidato nel 1848 sia la cattedra di zoologia dell’Università, sia la direzione del Museo civico. Prima di giungere a Torino era stato assistente all’Università di Pavia, dove si era laureato in medicina, quindi a Milano, ove tenne lezioni di zoologia, mineralogia e geologia al Museo Civico. Il primo a curarne la memoria biografica e bibliografica fu Michele Lessona, suo discepolo, che lo sostituì dopo la morte sulla cattedra dell’Università torinese. Fu probabilmente l’autore di una delle primissime recensioni all’Origine delle specie di Darwin nel 1860.

(3) Asor Rosa così commenta: «A questo punto il lettore dovrebbe accorgersi di essere stato messo su di una pista, che porterà lontano. La natura particolare di questo rapporto tra pensiero (cultura e vita morale) e scienza è un tratto indelebile della situazione italiana otto-novecentesca, anzi, per molti versi, e per lunghi tratti, un aspetto caratteristico della mentalità “nazionale” (o, per dirla, più esattamente, di quella classe colta e semicolta nel nostro paese)» dovuta oltre che da una particolare interpretazione dello Hegel, «anche da altre componenti più indigene (per esempio da un certo spiritualismo di fondo, in parte di origine cattolica, che permea di sé quella interpretazione)».

(4) Sul rapporto tra Vailati e Fogazzaro, e sui molti loro punti di contatto, si può vedere ancora Parinetto, L. (1963). Vailati e Fogazzaro alla luce dell’inedito epistolario vailatiano. In Rivista critica di storia della filosofia, XVIII, 3, 499-523. In particolare Parinetto mette in rilievo il comune anelito a superare il materialismo con il sostegno di iniziative di tipo volontaristico e spiritualistico, ispirate da una comune attenzione al fenomeno religioso, che ha come riferimenti culturali Schopenhauer e Tolstoj. Di qui l’interesse comune nei confronti del rapporto fra scienza e fede, documentato sia dalla partecipazione del Vailati alle conferenze fogazzariane (segnatamente a quella del ’93 sull’Origine dell’uomo); sia dall’approvazione della politica sociale del Bonomelli; sia dal sostegno alla rivista «L’Ora presente», cui collaborava padre Semeria, la Giacomelli e lo stesso Fogazzaro, trasportando in Italia l’esperienza del Desjardins; sia, infine, per il prolungato e comune interesse per il mondo dell’occulto, sempre sulla scorta dello Schopenhauer, dell’ipnotismo e della telepatia, che avvicinerà Fogazzaro e Lombroso nella Società di Studi Psichici di Milano nei primi anni del Novecento.

(5) Fenizia, C. (1901) Storia dell’evoluzione. Milano: Hoepli, dedicato e ispirato al più celebre ‘maestro’.

(6) Fondamentale in tal senso Haechel, 1894.

(7) La definitiva ‘conversione’ agli studi sull’occulto, dopo anni di incredulità e scetticismo, è testimoniata, ad esempio, in Lombroso, 1909. Lombroso era membro, insieme a Morselli e Fogazzaro, della Società di Studi Psichici di Milano, di cui Fogazzaro fu nel 1905 presidente onorario, fondata sul modello della positivista ed evoluzionista Society for Psychical Reserch di Londra. Alle sedute della celeberrima medium Eusapia Paladino assisteranno fra i molti altri Lombroso, Morselli, Capuana, Farina. La partecipazione del Fogazzaro è attestata in data 26 novembre 1906, come è documentato dal resoconto ‘scientifico’ delle sedute medianiche, pubblicato sulla rivista della società milanese: Resoconto, 1907: «Seduta del 26 novembre. Ore 21, 40 – Presenti i signori: Baccigaluppi Angelo, Brioschi Achille, Ferrari Dott. Francesco, Fogazzaro Sen. Antonio, Marzorati Angelo, Massaro Giuseppe, Odorico On. Odorico, Tassoni March. Alessandro, Visconti di Modrone Conte Giuseppe; medium Eusapia Paladino»; segue quindi la descrizione della collocazione dei presenti intorno al tavolino e i fenomeni accaduti ai diversi partecipanti. Alla p. 76 della medesima rivista è pubblicata una precisazione del Fogazzaro circa il verbale, da lui sottoscritto, della seduta: «La relazione della seduta alla quale ho assistito è perfettamente esatta. Solo converrebbe aggiungere, là dov’è detto che l’Eusapia non sapeva da qual paese fosse venuto il Massaro, che questo era noto ad alcuni dei presenti. Ella avrebbe quindi potuto saperlo per una comunicazione occulta di pensiero. La mia impressione della serata fu questa: È impossibile affermare ed è del pari impossibile negare in modo assoluto che vi abbiano avuto luogo simulazioni di fenomeni, salvo che per i movimenti del tavolo. Questi, che avvennero in piena luce, non poterono simularsi da chicchessia, a scopo d’inganno». Ci pare un documento interessante, che attesta non solo la convergenza fra materialismo e spiritualismo di formazione evoluzionistica nell’interesse dello spiritualismo per l’«occulto», ma anche la ‘scientifica’, cioè positivista, preoccupazione che da entrambe le parti si manifestano nello studio di quei fenomeni, lasciando il sospetto che a muovere figure per altro così distanti verso simili interessi sia proprio il comune riferimento  evoluzionista. Per Lombroso si veda Frigessi, 2003, pp. 397-412.

(7) Se Ariosto e Machiavelli sono «ancora portatori di valori positivi», oltre al solo Dante il «canone dei padri della nuova patria» sarà formato da «Giordano Bruno, Tommaso campanella, Galileo Galilei, Pietro Giannone, Giambattista Vico, eccetera» (Quondam, 2004, pp. 247-249).

(8) Allo studio dei «rivoluzionari» come forme diverse di intelligenza nei pazzi, di monomania o di mattoidismo sono dedicati Lombroso, 1887 e Lombroso, 1883. Nell’introduzione, Lombroso ribadiva la necessità della divulgazione della verità scientifica, cioè la sua, contro «la teologia e poi la metafisica» e «la nostra educazione classica, classica per così dire» poiché altro non si impara se non «come lo stesso oggetto si chiami e si declini in vecchie lingue». L’odio per la tradizione e l’impotenza nel vedere ancora le masse italiane sottoposte alla menzogna della religione e della metafisica anziché illuminate dal nuovo ‘verbo’, provocava poi il caratteristico atteggiamento di disprezzo per il volgo arretrato, «atavico» e ignorante («quel mondo insomma che fa da platea ed anche da orchestra ai pochi attori di genio») e insieme la malcelata mendicanza del favore popolare, che non arrideva al genio incompreso perché troppo avanti nella scala evolutiva.

(9) «Il genio indovina quasi i fatti prima di conoscerli appieno, come Goethe, che descriveva l’Italia tale e quale prima di averla veduta, che prevenne Darwin nella scoperta dell’origine delle specie. Codesta originalità si osserva anche, non di raro, benché quasi sempre senza scopo, nelle azioni dei matti [...], e specialmente dei letterati» (Lombroso, 1894, p. 46).

(10) Altro riferimento esplicito e implicito della formazione lombrosiana, che spesso torna nell’elenco, curiosamente omogeneo a quello desanctisiano, dei Geni-profeti (insieme a Spinoza, Bacone, Galilei, Voltaire, Colombo, Machiavelli, Michelangelo e Cavour, Dante rientrerebbe, all’altezza dell’edizione del ’72 di Genio e Follia, fra i geni che non mostrano i segni caratteristici dei ‘genialoidi’ alienati, documento quindi della distanza fra uomo di genio e alienato, che nelle edizioni successive andrà scemando e praticamente scomparendo; cfr. DGF, p. 409). La Divina Commedia è poi fonte inesauribile di citazioni, di luoghi e anche di argomenti ‘scientifici’ per sostenere le proprie tesi (ad esempio, per confermare la tesi secondo la quale «la scuola carceraria entra a fattore nell’accrescimento della criminalità», si veda Lombroso, 2000b. p. 744).

(11) Ne subirà il fascino il padre barnabita Giovanni Semeria, ricordando in una conferenza sulla santità che «Cesare Lombroso manifestò il proposito, poi non attuato, di studiare fisiologicamente il Santo come aveva studiato il genio» (in La santità nella realtà della storia e in un romanzo recentissimo, in Marangon, 2003, p. 70).

(12) «Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/che tiene una sostanza in tre persone./ State contenti, umana gente al quia;/ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria» (Dante, Purg., III, vv. 35-39). È Dio dunque che scende, non l’uomo che sale.

(13) Il celebre naturalista, professore e rettore dell’Università di Torino, traduttore dell’Origine dell’uomo di Darwin e infaticabile promotore culturale, nonché scrittore di successo con Volere è potere, il best seller nazionale dell’ideologia self-help divulgata in Europa da Samuel Smiles.

(14) Di lì a breve, un noto esponente della politica e della cultura positivista, liberale ed evoluzionista come Gaetano Negri, sindaco di Milano, ma già naturalista allievo di Antonio Stoppani, quindi pugnace assertore del materialismo, in una posizione di continua sfida e confronto con le posizioni dei conciliatoristi spiritualisti, avrà modo di applicare la medesima logica, di una sorta di altruismo evoluzionista, nel sincero impegno profuso per gli storpi. Intervenendo nella strenna natalizia del Pio Istituto per i Rachitici di Milano, egli aveva modo di riflettere sulla  «santità e l’eroismo» che sono «una manifestazione della grandezza umana». «Ma può esservi grandezza vera senza pietà?» si chiedeva Negri; «l’uomo è tanto più veracemente grande, quanto è più aperto al sentimento della pietà, che vuol dire quanto più risente in sé stesso le sofferenze, i dolori, le passioni degli altri, quanto più in questa coscienza della solidarietà essenziale in cui vive con gli esseri tutti che lo circondano, quanto più in questa coscienza egli attenua ed obblia la prepotenza dell’Io» (Friedmann Coduri, 1900, pp. VII-IX). Insomma, i «rachitici» servirebbero all’eroe della «lotta per l’esistenza» per esercitare la «pietà», indispensabile ingrediente del suo compimento, senza che vi sia spazio alcuno, come per i «pazzi» lombrosiani, per immaginare una ‘santità’ del rachitico, cioè un compimento personale, impedito addirittura nella sua ‘eroicità’ fisica o mentale.

(15) Fisiologo celebre per le teorie dell’evoluzione applicate all’origine dell’uomo ed allo spirito, George John Romanes fu anche fra i primi ad estendere l’evoluzionismo agli studi di psicologia comparata, e diede vita, presso l’Università di Oxford, alle Conferenze Romanes, alle quali veniva annualmente invitato un relatore di chiara fama ad esprimersi su argomenti letterari o scientifici. Fu uno degli evoluzionisti più apprezzati dallo spiritualista cattolico Fogazzaro, che ne ammirava il tentativo di sviluppare il «complemento logico delle dottrine evoluzioniste circa l’origine dell’uomo», attraverso la dimostrazione della «massima probabilità di quella genesi della intelligenza umana dalla intelligenza dei bruti». Secondo lo scrittore vicentino, particolarmente inserito nel dibattito sull’evoluzionismo positivista di fine Ottocento, il metodo del Romanes metteva infatti a paragone «la evoluzione mentale del bambino alla evoluzione della intelligenza attraverso la scala delle specie animali e si giovava di questo studio comparativo quasi come la scienza si giovò dell’embriologia per provare a dimostrare l’evoluzione fisica». Il metodo scientifico è dunque ancora quello comparativo delle specie esistenti, confrontando le quali, tuttavia, egli «si sforza di graduare le fasi del processo di evoluzione mentale in modo di mantenerne la continuità». Sulla continuità fra intelligenza animale e umana, «[Romanes] indaga la formazione naturale della coscienza ch’è il carattere e la forza dello spirito umano, studia largamente e profondamente il linguaggio come facoltà di far segni, che pure i bruti posseggono, e cerca dimostrare che lo sviluppo di questa facoltà si presenta continuo nelle sue fasi. Continuità nell’evoluzione dell’intelligenza, continuità nell’evoluzione del linguaggio sono i due maggiori fatti per sostenere come probabile a posteriori la tesi indicata come probabile a priori circa l’origine dello spirito umano» (Fogazzaro, 1945, pp. 385-386).

(16) Il quale tuttavia, in conclusione dell’articolo, che terminava ancora con il consueto insegnamento anti-religioso e clericale, aveva modo di apprezzare le osservazioni dell’«ingegno assai più erudito che acuto » del Romanes: «Il misoneismo, la neofobia, è dunque una delle cause fondamentali della religione, ma ciò non per l’eccesso, sì per un difetto grande dell’immaginazione; e le nostre conclusioni essendo affatto contrarie, quanto alle origini a quelle del Romanes finiscono, per accordarsi con le sue quanto ai risultati intorno all’origine delle religioni, che infatti, nei molteplici assurdi, ne portano tutta l’impronta. Si può domandare: ha fatto più danno all’umanità l’eccesso dell’immaginazione di pochi poeti e novatori od il difetto rappresentato dal misoneismo? La storia delle scienze e delle lettere, da un lato, quella delle religioni, da un altro, risolvono ben chiaramente il problema» (Lombroso, 1886b, p. 79).

 

Nota sobre o autor

Stefano Bertani é docente junto à Universidade Católica de Milão (Universitá Cattolica del Sacro Cuore), Itália. Sua área de ensino e pesquisa: história da cultura humanista e científica e história d marginalidade. È autor de vários escritos científicos, entre os quais o livro L’ascensione della modernitá: Antonio Fogazzaro tra santitá e evoluzionismo.  E.mail: stefano.bertani@unicatt.it.

 

Data de recebimento: 27/07/2006
Data de aceite: 30/12/2007

Memorandum 12, abril/2007
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP

ISSN 1676-1669
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/bertani01.htm

 

 

 

 Português  English Envie seu comentário sobre este artigo e sobre a revista Memorandum. Clique aqui

Indique este artigo