A
dispetto dei lunghi anni d’oblio e soprattutto degli stereotipi quasi
macchiettistici con cui la figura e l’opera di Cesare Lombroso hanno
attraversato il XX secolo, tornare a riflettere su di essi potrebbe
giovare invece ad una miglior comprensione storica, facendo luce anche
su alcuni nodi irrisolti della nostra identità culturale e nazionale
(1). Basterebbero a dimostrarlo le diverse e pregevoli pubblicazioni che
recentemente si sono susseguite, e solo per fare alcuni nomi, a
cominciare dai materiali lombrosiani resi disponibili da Delia Frigessi,
Ferruccio Giacanelli e Luisa Mangoni (Lombroso, 2000); agli studi sulla
antropologia criminale e la teoria del delinquente nato di Giorgio
Colombo, Pierluigi Baima Bollone e Mary Gibson (Colombo, 1992; Baima
Bollone, 1992; Gibson, 2004); o ancora alla monografia einaudiana della
medesima Frigessi (Frigessi, 2003; Bulferetti, 1975); sino agli
interessi letterari di Andrea Rondini e alla particolare e avvincente
forma di narrazione biografica offertaci da Luigi Guarnirei (Rondini,
2001; Guarnieri, 2000). Ad esse andrà pure aggiunta l’attenzione
accordata da molte nuove storie delle idee di respiro europeo, più
attente ai fatti culturali, ideologici e, come si usa oggi dire, anche
‘mitici’ della storia contemporanea, fra cui spicca l’ormai fondamentale
lavoro di Mosse sulle origini culturali del razzismo (Mosse, 2003). Ma
non si dovrebbe tacere di manifestazioni anche più eclatanti e
«popolari», ispirate al più genuino, positivistico e lombrosiano
scientismo, come la straordinaria fioritura nel mondo dell’immaginario
anglosassone, quindi dominante il nostro circuito di massa, di film e
telefilm dedicati alle squadre speciali della polizia ‘scientifica’;
agli infallibili profilers, gli specialisti dei ‘profili’
criminali; alle indagini sui più efferati e pazzeschi delitti perpetrati
dai nuovi protagonisti dell’horror, i killers seriali, gli
stupratori, i maniaci sessuali e i pedofili; ai detectivs
sensitivi, novelli sciamani che coadiuvano le ricerche positive con
prodigiosi poteri occulti, grazie ai quali si muovono nel tempo e nello
psichico, risolvendo i casi più oscuri e indecifrabili. Tutte figure
che, rese popolari nei media, oggi sembra che affollino anche la
normale realtà criminale, soprattutto giovanile. Tra storia,
cronaca e finzione, risorgono dunque dalle inquietanti gallerie
manicomiali della letteratura scientifica lombrosiana, in cui parevano
definitivamente rinchiusi, pazzi, geni incompresi e criminali astuti,
folli e depravati morali. L’opera di Lombroso, insomma, che la si
risguardi secondo una prospettiva rigorosamente storica, o la si
percepisca ancora presente nell’implicita sensibilità contemporanea, si
attesta quale momento significativo per chi voglia comprendere alcuni
fra i più decisivi nodi ideologici della cosiddetta modernità che ancora
ci tocca, cercando di dare ragione delle categorie implicite che in
qualche modo possano spiegare la persistenza di fenomeni apparentemente
frammentari e superficiali.
Fu la
follia, del resto, a rivestire un ruolo rilevante nei molteplici
interessi medici, fisiologici, antropologici, giuridici, educativi e
sociali di Lombroso sin dal principio della sua tormentata carriera, che
lo condusse poi a fare della devianza una categoria onnicomprensiva e
interpretativa non solo del «caso clinico», ma di tutta la vicenda
sociale e storica dell’umanità antica e moderna, secondo le leggi
naturali dell’evoluzione. Ed è appunto sul senso e sul significato
categoriale della «devianza» che vorremmo condurre le nostre
riflessioni, dopo aver constatato che Lombroso, da intellettuale
paradigmatico della sua epoca, volle sempre pensare la follia entro un
grande disegno progressivo-evolutivo, con importanti ricadute nel
progetto di riforma morale e civile degli italiani che allora si stava
avviando dall’élite liberale, spesso anche sotto l’egida del
cosiddetto darwinismo sociale. Lo stesso atavismo, una delle più note
formule diagnostiche lombrosiane, più che un «concetto e un modello
rigorosamente scientifico», dovrebbe essere inteso piuttosto come una
«generale categoria culturale», con la quale egli, grazie al generico
riferimento al darwinismo e all’evoluzionismo, poté interpretare la
«regressione dell’uomo ai caratteri ancestrali» e la conseguente
riemersione, in piena modernità, «del passato», sotto le specie
dell’uomo deviante (Frigessi, 2003, p. 137; Frigessi, 2000, p. 349). Ma,
è bene ricordarlo, Lombroso rielaborerà per tutta la vita un concezione
di follia in rapporto con l’evoluzionismo e la «circolazione della
materia», secondo un caratteristico procedimento per successive
correzioni e agglomerazioni delle nuove scoperte, delle nuove
intuizioni, sino a dare l’impressione di elaborare «un unico libro», in
cui l’«accumulazione progressiva» della sua scrittura non rinuncia mai
neppure al «più piccolo frammento dei suoi lavori», che si riversano poi
uno nell’altro (Mangoni, 2000, p. 685). In tal modo, perciò, se egli
appare spesso ripetitivo, in realtà ad ogni nuova ed ampliata edizione
Lombroso sembra offrirci, alla lettera, uno sviluppo di ciò che precede,
un vero e proprio nuovo pensiero forgiato dalla «lotta per la
sopravvivenza» sostenuta con le critiche e le opinioni avverse, da cui
finalmente emergerebbe un autenticamente nuovo concetto ‘evoluto’ del
medesimo problema. E tale modo di procedere, a ben vedere, sembrava
fatto apposta per indicare la dinamica progressiva, per scarti e
innovazioni, entro cui «tutto si tiene», tutto poteva trovare una logica
e una funzione «utile», malattie ed anomalie ereditarie comprese. Egli
acquisiva insomma un metodo che diverrà il sistema interpretativo del
cosmo e la legge universale cui obbedire in ogni piega dell’azione umana
e intellettuale. Anche le devianze e le follie, perciò, lungi dal
rappresentare un’inutile persistenza del «selvaggio» atavico, come una
sorta di «fossile vivente»; o limitarsi alla manifestazione di un
crimine tanto assurdo quanto colpevole, dovranno prima o poi trovare la
loro funzionale – buona perché progressiva – collocazione in una legge
unitaria.
«Nel
secolo delle unificazioni, dovremmo far anche questa» aveva del resto
esordito nel 1864, con la prima uscita pubblica di uno scienziato
autorevole sull’argomento dell’origine dell’uomo, lo zoologo
evoluzionista Filippo de Filippi, riferendosi, oltre che
all’unificazione nazionale, anche a quella «anatomica» fra scimmie e
uomini. «Se vogliamo trincerarci nel campo della nuda anatomia – aveva
dichiarato – la gran barriera fra bimani e quadrumani, deve essere
definitivamente abbattuta, e l’ordine dei primati ristabilito» (De
Filippi, 1983, p. 3), lasciando invece alla dimensione intellettuale e
spirituale dell’uomo di definire le eventuali distinzioni. La conferenza
di De Filippi fu quindi «qualcosa di più che la comunicazione di uno
scienziato sugli ultimi sviluppi della biologia. Il contenuto, centrato
sull’origine dell’uomo; la forma semplice, ma precisa nei termini e nei
riferimenti; lo stile lucido e appassionato e il pubblico, non solo di
specialisti, cui è rivolta, ne fanno un’occasione per professare un
credo, per sottolineare un’adesione franca e piena a un’idea, quella
darwinista» e per propugnare idee sentite come capaci di «modificare un
modo di pensare e di provocare consensi entusiastici o indignazioni
scandalizzate» (2). Si capisce, insomma, che essa offrì un «carattere di
ufficialità e di avanguardia, soprattutto per il riferimento alla
scabrosa questione dell’origine dell’uomo» tanto da fargli «meritare un
posto a sé nella storia del pensiero biologico italiano» (Giacobini &
Panattoni, 1983, p. 35). L’affermazione dello zoologo, breve ma
illuminante, confermava tra l’altro la diffusa tendenza, nel mondo
scientifico e filosofico del secondo Ottocento, ad ambire in ogni campo
dell’azione umana a nuove unificazioni, che in qualche modo risarcissero
e compensassero il rifiuto e la messa in crisi della visione del modo
classico-cristiana che per tutto il medioevo e l’Antico regime era
servita di riferimento alla cultura d’Occidente. Si è infatti spesso
insistito sul carattere dualistico della cultura del secolo XIX, ma non
si deve perciò dimenticare che l’anelito comune alle due grandi scuole
filosofiche che in Italia si contesero il campo in questo secolo, la
positivista e l’idealista, ovvero la materialista e la spiritualista,
consisteva proprio nel tentativo di unificazione globale del sapere, di
sistematizzazione delle discipline secondo nuovi metodi (‘scientifici’,
‘induttivi’, ‘analogici’), e soprattutto di affrancamento e superamento
della tradizione nella sua funzione di risposta globale alle esigenze
dell’uomo, configurandosi perciò spesso, almeno nelle intenzioni, come
moderne ‘religioni’. Ciò concorre in parte a spiegare, ad esempio, il
facile passaggio di molti protagonisti intellettuali dall’una all’altra
‘scuola’. Basterebbe pensare alle simpatie per il positivismo e
l’evoluzionismo dell’idealista Francesco De Sanctis. O anche, fra i
molti possibili, all’hegeliano Angelo Camillo De Meis, coetaneo e
allievo del De Sanctis, medico e fisiologo (Asor Rosa, 1975, p.855) (3).
O ancora, di altra generazione, a Giovanni Vailati (4), eminente
filosofo della scienza positivista e matematico, ma anche entusiasta
spettatore e lettore delle conferenze sull’evoluzionismo spiritualistico
di Antonio Fogazzaro, che nei primissimi anni del nuovo secolo fonderà
con Calderoni e con gli ‘irrazionalisti’ Papini e Prezzolini a Firenze
la celebre rivista pragmatista del «Leonardo», che poi si avvicinerà
all’idealismo crociano. Senza trascurare lo stesso Papini che, prima di
diventare uno dei più noti esponenti del pragmatismo mistico e
spiritualista delle avanguardie novecentesche, fu, dal 1902, membro e
segretario della Società di antropologia fondata dall’antropologo
positivista ed evoluzionista Mantegazza, ove lesse le maggiori opere
dell’evoluzionismo italiano (Canestrini) e straniero (Haeckel) dopo aver
seguito anche lezioni di anatomia e fisiologia. E lo stesso Haeckel, il
più importante divulgatore della «fede» evoluzionista in Europa, nonché
ispiratore in Italia dell’evoluzionismo diffuso dai popolari Manuali
della Hoepli (5), strenuo assertore del materialismo monista, voleva
svolgere un programma religioso, e cercava con ogni mezzo l’unità dei
saperi e del cosmo contro il dualismo della tradizione (6). Il fenomeno,
pertanto, sembra avvalorare ma anche aggiungere qualcosa a ciò che
afferma Asor Rosa circa il rapporto fra filosofia e scienza in questo
giro d’anni, insistendo sul fatto che «il mito dell’“unità del sapere”
va catalogato tra quelle fondamentali esperienze di pensiero che
caratterizzano, al di là delle stesse differenze ideologiche, la storia
di un’intera classe intellettuale nazionale» (Asor Rosa, 1975, p. 857).
L’anelito unificatore e ‘re-ligioso’ non solo contraddistinse infatti la
ricerca culturale e filosofica del miglior positivismo italiano fra gli
anni 60 e 70 del XIX secolo, ma fu imprescindibile presupposto di tutta
la cultura di ispirazione evoluzionista, materialista o spiritualista
che fosse, votandola ad uscire senza riserve dal ristretto campo dei
«fatti», per assumere il compito d’una missione morale e rigenerativa
dell’umanità intera. In tal modo si comprende anche meglio lo stretto
legame fra positivismo e «irrazionalismo», razionalismo e misticismo,
scienza e occulto, esperimento e magia, così caratteristico della nostra
cultura otto-novecentesca, scientista e militante, di cui parteciperanno
i protagonisti del positivismo come Morselli e Lombroso (7), e quelli
del risveglio spiritualistico su base positivista, come Giacosa e
Fogazzaro, accomunati tutti da un’inossidabile «fede» missionaria nel
progresso cosmico, antropologico e morale dell’umanità, come finalmente
la scienza evoluzionista assicurava con le sue «ipotesi». In tale
situazione di fluida commistione filosofica, anche il rapporto fra le
cosiddette «due culture», scientifica e umanistica, che tra breve si
mostrerà fatalmente conflittuale, risultava viceversa ancora indeciso,
tanto da produrre una delle caratteristiche categorie di intellettuale
dell’età del progresso, vale a dire la figura dello
scienziato-letterato, come furono esemplarmente Mantegazza e Lessona,
Lioy e Stoppani, Strafforello, Stefanoni e Giacosa (Govoni, 2002).
In
questo clima, segnato dunque da una strana e peculiare commistione fra
antico e moderno, Lombroso, giovane studente di medicina a Vienna, sin
qui attratto dalla carriera dell’uomo di lettere – studioso delle
gloriose gesta della Repubblica romana, o degli eclettici interessi
antropologici e linguistici del suo maestro, medico e filologo, Paolo
Marzolo – nel 1858 «si diede alla scienza». Secondo Gina Lombroso,
amorevole figlia, fedele biografa e curatrice del disperso materiale del
padre, fu infatti a Vienna, «dove i professori facevano vere lezioni,
portavano i discepoli nelle cliniche e negli ospedali, lasciavano loro
vedere e toccare i malati», che Cesare ebbe per la prima volta «la
rivelazione che si può, studiando, trovare il rimedio a molte malattie
anche mentali». Qui Lombroso ebbe «la visione che i pazzi veduti ansare
senza speranza nelle torte corsie di Pavia e di Padova potrebbero essere
guariti», a patto che «fossero studiati e curati come a Vienna». La cura
dei pazzi fu dunque la via che lo condusse alla «scienza positiva»,
lasciando l’allettante ma immaginario «paradiso terrestre della
letteratura», per «vivere in un mondo lugubre di vivi e di morti», e
dedicarsi al duro ma reale lavoro dei «fatti». In ogni caso, «la foga,
l’ardore dei nuovi studi» furono «così assorbenti», che non lasciarono
«largo posto ai rammarichi» (Lombroso, 1932, p. 31). La sua opera di
scienziato dei fatti si caratterizzò quindi secondo gli ideali di «una
missione a cui egli anelava senza saperlo» sin da quando «nel suo diario
si disperava “di non essere buono”, “di essere tutto da rifare”, “di
sentirsi regredire”». Esaltato dall’idea, Lombroso mise «tutto l’ardore
missionario della sua razza» sentendosi finalmente «figlio di antichi
profeti cui era indifferente studiare o battersi pur di giovare alla
patria». La missione di «far il bene per il piacere di farlo» lo spinse
così a sognare «di dar sollievo a tutti i pazzi, a tutti i sofferenti
del suo paese»; guarirà perciò «le malattie mentali», trovando in tale
compito «la sua fede, la ragione della sua esistenza» (Lombroso, 1932,
pp. 27-29). La nuova scienza antropologica penetrava così il regno della
natura umana, ma lo faceva in nome di una giustizia più nobile e più
alta, sacerdotale, affacciandosi nei tribunali, mettendo in discussione
il vecchio diritto penale; il suo anelito missionario, poi, si poneva
come obiettivo dichiarato, sin dalla sua origine «scientifica», di
adempiere ad un’opera autenticamente salvifica. Oltre al vecchio giudice
attardato nei superati, astratti «principi» del diritto romano,
l’antropologo psichiatra diventava un moderno curatore di anime, capace
finalmente di dirimere, grazie al nuovo sapere della scienza, il vero
bene dal vero male, il sano dal malato, il criminale dal pazzo,
domandandosi accoratamente il senso della loro infelice esistenza e
cercandone risposta. Emarginati, deviati, folli, criminali, pazzi
morali, mattoidi, diventavano l’oggetto delle cure e dell’attenzione di
una nuova «fede», che finalmente avrebbe considerato quegli infelici per
quello che, «effettualmente», erano, e non per quel che, secondo i
«principi metafisici» obsoleti, essi avrebbero dovuto e potuto essere.
Lombroso quindi proponeva il superamento dei metodi antichi e umanistici
con il metodo della scienza moderna positivista. Egli optava quindi per
uno «studio clinico delle alienazioni mentali» fondato su «fatti
obiettivi, palpabili e non architettati dalla mobile fantasia, o
dall’acuta, profonda, ma pure spesso fallace meditazione», che non era
ispirato da una visione naturalisticamente pessimistica e negativa della
natura umana, come poteva esser stato per il suo antico e ancor troppo
medievale Machiavelli. Quanto il fiorentino insisteva sulla necessità di
un principe «martire», che prendesse su di sé la connaturata malvagità
dell’uomo (l’uomo è «malo»); tanto Lombroso era convinto che «la
tendenza al bene, la virtù, è naturale e fisiologica nell’uomo»,
esattamente come «i moralisti lo dicono». Una bontà naturale, non solo
di indole roussouviana, e neppure «solo perché ciò nobilita il povero
bipede», ma perché «non [...] par contestabile»: «come diceva il nostro
Cattaneo» fra «il vizio e la malattia» vi è «un vero mondo intermedio»
che «si chiama delitto».
L’assunzione di una bontà originaria, invece della malvagità, non
escludeva tuttavia un più intimo parallelismo fra la «verità effettuale»
del Principe e il «metodo dei fatti» dell’antropologo: entrambi
erano chiamati ad una missione di giustizia, che consisteva
nell’assumersi essi soli le responsabilità terribili del male sociale.
In particolare, sulle spalle di Lombroso gravava il compito di emettere
il giudizio «sulla necessità dell’isolamento, dell’interdizione»,
pagando in prima persona lo scotto dell’inevitabile impopolarità, fino a
condividere il martirio destinato a coloro che si fanno vittime per il
bene di tutti. La scienza alienista era anzi più radicale di quella
politica, dovendo direttamente trattare del male incarnato nelle forme
della pazzia e della devianza. Di fronte a «questi infelici» che
«s’accasciano miseramente negli abituri delle nostre campagne, preda
degli scherni, od alla fame» non restava che studiare a fondo, nella
loro «eziologia», nella «loro natura» e nelle loro «conseguenze» simili
«piaghe», non solo per «moderarne nei colpiti la bruttezza e la
ferocia», ma nella speranza progressiva di bloccarne «la propagine e lo
sviluppo, e quindi a farle pressoché sparire dalla nostra terra». In
altri termini, il dominio della scienza dei fatti condurrebbe finalmente
al metodo della prevenzione, che scongiurerebbe non tanto l’apparire
della malattia, ma la nascita stessa di «questi infelici», degli stessi
malati. Essi, infatti, non potevano godere della dignità di persone, per
quanto malate o colpevoli di delitti, cui poter attribuire diritti alla
vita, alla responsabilità individuale, alla libertà, o addirittura alla
felicità e al progresso; costoro erano viceversa anelli sbagliati della
catena evolutiva, «atti a null’altro che a propagarvi e ad eternarvi il
lurido seme dei loro mali guastando alla radice la prole robusta dei
nostri coloni».
Era questa la prolusione al
corso di Clinica delle malattie mentali, letta a Pavia nel 1863
(Lombroso, 1913, pp. 1-6), che già conteneva, neppure tanto in nuce,
alcuni importanti criteri ispiratori dell’attività lombrosiana e
dell’interesse scientifico, morale e civilizzatore, per il mondo della
follia, e in genere per tutto ciò che esulasse dalla norma dell’uomo
civile e di buon senso. L’attenzione era perciò rivolta ad indagare le
sino ad ora misteriose e inesplicabili vestigia del male che si
ostinava ad abitare nel perfettibile mondo della modernità in via di
redenzione. Rileggendo il mito antico con la luce della nuova scienza,
come spesso accadeva a gran parte della generazione positivista, anche
Lombroso credeva infatti nell’avvento di un nuovo ordine cosmico, di
sapore quasi virgiliano. Il mito della Terza Roma portava con sé del
resto il mito di una renovatio escatologica. Quando negli anni
Novanta, forte dell’ipotesi evoluzionista, la categoria della devianza e
della alienazione avranno ormai assimilato i casi particolari del pazzo,
del pazzo morale, del mattoide, del criminale e del genio sulla base
della loro presunta patologia epilettica, il dramma morale e
antropologico dell’esistenza del male sarà risolto finalmente in modo
nuovo, oltre l’utopia del mito, oltre il realismo politico del
Machiavelli. Se infatti Machiavelli, in perfetta omologia con quel che
stabilirà come canone la Storia della letteratura italiana del De
Sanctis, era solo un profeta dell’italiano moderno, l’avvento della
scienza avrebbe consentito la definitiva uscita dalla minorità
metafisica dell’uomo vecchio e trasformato le menomazioni, le
regressioni selvagge, i delitti, in positivi antagonismi propulsori del
nuovo. «In questa Storia» scrive Amedeo Quondam riferendosi
all’opera del De Sanctis «arrivano, finalmente, i “nostri”, ma senza
squilli di trombe: prima l’“eroica resistenza” di pochi pazzi», quindi,
esplicitando le categorie evoluzionistiche di cui si serviva De Sanctis,
la «resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo
moderno». Infine, commenta Quondam, «schiere sempre più ampie di
progressisti e di riformatori. Pazzi o geni, pagano anche con la propria
vita il prezzo della loro rivolta» (8). In buon accordo, dunque, anche
Lombroso scopriva, insieme alla funzione sociale della follia e del
genio, anche quella del delitto, cioè del fare il male per uno scopo
buono, e della nuova bontà della pazzia quando assumeva i connotati del
genio. «È noto come, secondo le teorie darwiniane» scriveva dunque nel
lavoro del 1896 (Lombroso, 2000c, pp. 640-641), «non sopravvivono che le
istituzioni e gli organi, i quali abbiano una qualche utilità per
l’umanità, perché altrimenti la selezione li atrofizza e li spegne».
L’evidenza scientifica confermava cioè la profezia ancora troppo
letteraria del Machiavelli, la cui lezione appare ben viva nella memoria
di Lombroso, che unisce le categorie evoluzioniste alle politiche, anche
attraverso l’impiego di certa terminologia di evidente ascendeza
machiavelliana e assai frequente nel lessico lombrosiano (si veda ad
esempio l’uso tecnico di «spegnere»). Al contrario di quanto sosteneva
Herbert Spencer, infatti, che prevedeva una progressiva riduzione del
crimine e del male morale e psichico, secondo Lombroso «il delitto va
continuamente aumentando» e «lo vediamo anzi tanto più crescere quanto
più la civiltà si va avanzando». Questa intollerabile realtà, questo
ossimoro della modernità progressiva, non poteva non avere soluzione
scientifica. E infatti, la constatazione della diretta dipendenza fra
aumento della civiltà e aumento della pazzia e del delitto, unita «alla
legge darwiniana sopra citata – proseguiva Lombroso – mi fa sospettare
che anche il delitto abbia una funzione sociale». Ne veniva perciò la
necessità di un confronto con i «tempi antichi», presso i quali, come
«ora nei popoli meno civili, i più nefandi delitti sono adoperati come
arma politica; e noi possediamo anzi una specie di codice (quello di
Machiavelli), che è tutta una serie di progetti, di delitti a scopo
politico, di cui Borgia fu il praticato esecutore, o meglio il modello».
Allo stesso modo, nell’Italia odierna, «una triste osservazione» «mia ha
dimostrato che, da Cavour in poi, non vi fu un ministero completamente
onesto che potesse reggersi». Anzi, «il peggior ministro per l’Italia fu
quello che dichiarava: “saremo incapaci, ma onesti” e ahi! la storia
postuma rivelò che non era onestissimo neppur esso». Ciò, da un lato
avrebbe dimostrato il danno che provocano «gli studi arcaici», ossia gli
studi storico letterari, nei quali «potrebbero specchiarsi molti
Ministri della Pubblica Istruzione, che ci ribadiscono sempre più la
catena dei classici, così dannosa ai cervelli mediocri». Dall’altro, lo
studio scientifico dei delinquenti e delle prostitute «degenerate»
avrebbe confermato la presenza di «eccessi intellettuali, di cui l’uomo
medio non è capace» perché, lontanissimo dal genio, non è creatore.
L’«anomalia organica» presente nei pazzi, nei degenerati e nei
delinquenti, preparava dunque «il terreno al minore misoneismo, che è il
carattere normale dell’uomo onesto normale», rendendo tale deficienza un
vantaggio per la società. Facilitati quindi dalla disfunzione organica a
vedere il nuovo, e quindi ad essere in un certo senso profeti di una
verità a venire, i deviati di ogni specie «vedono, forse ispirati dalla
passione, i difetti dei Governi» che insieme «all’impulsività e al
bisogno del male» li spinge «in prima linea nelle ribellioni». Una volta
dunque stabilita la causa organica che definirebbe i pazzi e i
criminali, essi cominciavano ad apparire non solo come prossimi al
genio, ma più originalmente assumevano una valorizzazione moralistica
piuttosto che intellettualistica, che consisteva nell’essere dotati di
eccezionali capacità di diagnosi sui «difetti dei Governi», di odio
verso lo «stato presente», e dunque di slancio ideale che li rendeva
«più inclini all’azione» innovatrice e rivoluzionaria (9). Il loro genio
morale era insomma direttamente associato alla capacità profetica,
d’anticipare, antivedere, creare fenomeni, scoperte, istituzioni, per lo
più del tutto «inconsciamente» (9); in altri termini, grazie alla loro
malattia, essi avrebbero potuto anticipare ciò che poi, nel futuro che
necessariamente sarebbe avvenuto giusta le inflessibili leggi
cosmiche descritte dall’evoluzionismo, sarebbe stato accettato quando
anche il gran numero del «pubblico» normale si sarebbe evoluto. I
devianti, infatti, «anormali essi stessi, non sentono la ripugnanza del
pubblico, per l’anomalia, per la novità» e adoperano la loro
«straordinaria energia» «oltreché pei propri vantaggi e per eseguire i
loro tristi scopi, nel sostenere e propagare le nuove idee, mentre gli
onesti apatici ne rifuggirebbero». Nelle «truffe» essi portano «lo
stesso spirito novatore»; «gli imbroglioni, i truffatori» se è vero che
lavorano per il loro tornaconto, è altrettanto vero che «applicano il
loro ingegno a vantaggio di altri» e «mettono in moto una tal quantità
di fermenti, che danno spinta fortissima al progresso e alla civiltà»
(Lombroso, 2000c, pp. 642-643). Si realizzava così, su scala
antropologica e per il progresso di tutta la specie, la profezia sociale
e morale della Favola delle api di Mandeville, secondo la quale i
tanto deprecati «vizi privati» erano i necessari responsabili dei così
lodevoli «pubblici benefici». Ma a differenza del pensatore
settecentesco, nel XIX secolo non si trattava più di adempiere
liberamente ad una scelta morale, ma di obbedire ad un’asserzione
scientifica, che metteva capo ad una legge universale della devianza in
grado di rendere ragione della totalità dei fenomeni legati al progresso
dell’umanità.
Per
tutta l’esistenza Lombroso si era angustiato di fronte ad una sorta di
insostenibile pesantezza della presenza del male sotto la forma della
pazzia. C’era stato, all’origine, l’inquietante incontro con il
cretinismo, un problema «né semplice né facile». Nella Prefazione
del 1859 al Cretinismo in Lombardia, la sua indagine sul campo,
secondo gli insegnamenti della scuola viennese, lo avevano condotto ad
angosciate e angosciose riflessioni, autenticamente drammatiche, che
vale la pena riproporre.
L’osservatore cui si
affaccia il fenomeno del cretinismo, non nel queto soggiorno di un
ospizio, ma nell’umile suo nido, tra le catapecchie della città e dei
villaggi remoti si sente colpire da una singolare ambascia. L’animo e
l’occhio angustiato da quell’aria oscura, da quelle vie sudice, da quei
volti squallidi e torvi degli abitanti, da quell’orrenda miseria che
traspariva ovunque, si arrestano ancora più tristemente su quella nuova
specie di uomini bruti, che burbugliano, grugniscono, si accosciano,
sbadati, fra gli apatici congiunti, sui quali l’affinità del sangue e
del morbo sta dipinta a brutti caratteri nel volto e nella gola.
(Lombroso, 1859/1932, p. 29)
Il pur
tristo ritratto, assai meno sociale quanto piuttosto già fisiognomico e
ben radicato nell’antropologia evoluzionista, assumeva tratti ancor più
cupi e apocalittici se messo a confronto con quel che seguiva, allorché,
passando dal dato corporale a quello mentale, dalle «sembianze» alla
parola, dai «bruti» sembrava uscire il residuo d’una «luce» di
intelligenza e, con essa, il grottesco manifestarsi allo stadio di
sub-umanità degenerata, l’ostinato persistere della loro libertà: “Che è
poi quando ti metti a interrogare quegli esseri, ed al meschino raggio
d’intelligenza che luce ancora su quelle poco umane sembianze, ti è dato
scorgere le forme più ignobili dell’egoismo e della cattiveria!” (idem)
Almeno
non parlassero, fossero cioè «bruti» a tutti gli effetti; o discordasse
almeno l’aspetto ‘bestiale’, malvagio, esteriore, con la bontà «umana»
del cuore, interiore. Invece il rapporto inesorabile fra ‘anima’ e
‘corpo’, lo stretto determinismo fra esterno ed interno, rendeva quegli
«spettacoli» di così acerbo dolore, che nessun sollievo e redenzione ne
sarebbero venuti «col senso della compassione» o «coll’indifferenza».
Davanti al mostruoso «spettacolo» dei cretini
un senso
ti nasce nell’animo, ad un tempo uggioso, avvilente e confuso, in cui
non poca parte hanno le cause stesse che ingenerano il cretinismo; senso
che ti si appiccica quasi e ti accompagna nelle ricerche scientifiche,
sì che i fatti più chiari ti si contraddicono fra loro e sfuggono alle
sintesi, snaturano e rabbuiano non solo l’essenza e le cause, ma la
forma stessa del morbo; talché spesso non ingrata soltanto, ma anche
inutile riesce la tua fatica (Lombroso, 1859/1932, pp. 29-30).
Lo
sconforto del «missionario» innanzi la bruttezza senza vie d’uscita del
male non potrebbe essere più palpabile. Anche l’icasticità dello stile
letterario, efficacemente calibrato sul registro ‘infernale’, ricorda
il clima della cantica dantesca. Lombroso pare quasi rileggersi con gli
occhi del pellegrino Dante (10), il quale, giunto alla soglie
dell’inferno e al principio dell’incredibile viaggio che lo attende,
teme, appunto, «che la venuta non sia folle», e gioca tutto il dialogo
con Virgilio proprio intorno al senso da attribuire alla follia umana.
Lo ricordava infatti Cesare Mozzarelli nell’introduzione al Seminario
Nazionale su Salute mentale e Stigma sociale (Mozzarelli &
Civinini, 2004), che l’etimo di «follia» è da riferire al «follis», «al
mantice che si riempie d’aria, dunque al vuoto, al vento», attribuendone
il significato negativo all’accezione della follia antica, come devianza
dalla «retta via», uscita dalla ragione verso la vacuità, la mobilità
del vento, alla quale infatti sono destinate le anime dannate. Dante
esortava la sua guida ad essere «savio» per intendere «me’ ch’i’non
ragiono»: esortava insomma Virgilio a diagnosticare meglio la radice
della presunta follia che lo faceva resistere all’impresa del viaggio. E
la risposta virgiliana, anziché confermare la diagnosi del finto pazzo
Dante, ne intendeva tutt’altro senso: «S’i’ ho ben la parola tua
intesa/[...]/ l’anima tua è da viltade offesa/la quale molte fiate l’omo
ingombra/sì che d’onrata impresa lo rivolve»: la vera follia era insomma
rifiutare la via divina in nome del buon senso.
Lombroso
indicava perciò i veri geni della storia in Spinoza, Bacone, Galilei,
Dante, Voltaire, Colombo, Machiavelli, Michelangelo e Cavour, che
differivano dai «geni malati» e dalla «patologia dell’alienato», oltre
che per «l’armonico volume del cranio» soprattutto per «la forza del
pensiero, frenata dalla calma dei desideri», per una «passione» che non
abbia «soffocato l’amor di famiglia e di patria»; quindi perché «non
mutarono mai di fede o di carattere, non divagarono mai nello scopo; non
lasciarono a mezzo, mai, l’opera loro». Di fronte ai più temibili
assalti, al «sublime eretismo dell’estro», alla «tortura dell’odio
ignorante», allo «sconforto del dubbio», «essi non deviarono mai,
perciò, dal retto cammino» (Lombroso, 2001, p. 409). Non si rivolsero
mai, parafrasando Dante, «d’onrata impresa», e furono coerenti fino in
fondo con la propria convinzione: in ciò consisteva la forza di volontà
del genio contro la debolezza del matto. Sfuggiva tuttavia
all’antropologo il significato diametralmente opposto che nel contesto
dantesco assumeva il termine «follia». Ovviamente, Dante stigmatizzava
un’idea di ragione chiusa ai soli valori cortesi e umani, che dichiarava
follia il paradosso dell’incarnazione cristiana e delle sue conseguenze
storiche: che un uomo, appunto, potesse ora ascendere a Dio. La «follia»
sembrava perciò configurarsi nella visione dantesca più vicina a quella
di Aiace, come ricordava Mozzarelli, che sfida Nettuno, e che consisteva
«nel voler ciò che all’uomo non è concesso»: il «folle volo» di Ulisse,
dunque, che naufragò alle coste del Purgatorio per essersi ritenuto
capace, colle sole sue forze di astuzia intellettuale, di un’impresa che
invece Dante condurrà a termine in virtù della compagnia personale di
Dio tramite il sostegno di un «savio». Ma quale maggior pazzia, agli
occhi della sanità lombrosiana del buon senso, di quella che spinge un
pellegrino qualunque a salire al cielo cominciando col discendere agli
inferi, e per di più seguendo una guida pagana?
La fede
positivista di Lombroso, viceversa, non solo impediva di leggere nella
critica ai valori di un certo mondo cortese una sorta di parodia del
buon senso laicista, moderato e liberale, messa in atto dal medievale
Dante, ma, come molti altri intellettuali progressisti neppure riusciva
a capacitarsi del fatto che tutto l’inferno fosse squassato e flagellato
dal «vento»-«follia» che proveniva dal battito delle gigantesche ali del
pipistrello Dite, cioè di Lucifero in persona, e che giungeva sin là
dove si estendeva il dominio infernale. Così, mentre De Sanctis
celebrava nella Storia della Letteratura la Francesca da Rimini –
sbattuta qua e là dal vento diabolico e folle del «talento» cui decise
in vita di sottomettere la «ragione» – assumendola proprio per questo al
rango di «prima donna del mondo moderno» (De Sanctis, 1958, vol I., p.
187), Lombroso proverà per tutta la vita a dare un senso non metafisico
alla follia, cercando in tutti i modi o di relegarla nel moderno inferno
del manicomio, o di sublimarla ed elevarla a vera ‘ragione del mondo
moderno’, sino a farne l’origine – incompresa e incosciente – del
rivoluzionario, del pazzo morale, del genio epilettico e finanche del
santo (11).
Restava
solo da risolvere, in questo percorso di emancipazione della dimensione
infernale e folle della ragione umana, uno spiacevole paradosso, che
costringeva a riconoscere l’esito della civiltà progredita e moderna non
come l’evoluzione di un’umanità più sana e santa, della realizzazione
insomma del paradiso in terra, ma come l’affermarsi dell’‘inferno’ come
«folle» tentativo di condurre l’uomo al cielo (12). Tutti i «fatti», da
quelli culturali a quelli fisiologico-anatomici, continuavano a ripetere
che la civiltà moderna era stata preconizzata e profetizzata dagli
abitatori dell’inferno, fossero i Farinata o le Francesche; fossero gli
eretici pensatori o martiri della scienza; ovvero i pochi geni
innovatori, insieme ai degenerati, ai pazzi, ai delinquenti nati, ai
tribuni rivoltosi, alle prostitute laide, tutti portatori, a differenza
dell’uomo normale, della vera stigmate della «buona» follia: il
«filoneismo». Insomma, non v’era alcun paradosso: come Darwin avrebbe
insegnato, che cioè dall’individuo deviante nascerebbe il migliore atto
alla lotta e alla sopravvivenza, così la società umana sarebbe
progredita grazie a coloro che non ebbero, per ragioni fisiologiche come
la patologia epilettica, paura del nuovo. Le ‘pietre’ scartate dalla
storia e dall’opinione del volgo, i deviati, erano insomma riscattati
secondo un nuovo evangelo, che li identificava come le «pietre angolari»
della modernità. Il misoneismo era infatti il vero flagello della
civiltà progrediente. Il primo a farne direttamente le spese era stato
del resto lo stesso Lombroso, che non si stancò mai di denunciare, quasi
ad ogni prefazione, le difficoltà incontrate dalle sue teorie, perché
«siamo in un paese vecchio, che, come i vecchi ed i bambini, ha terrore
di ogni novità; e per difendersene crea la leggenda e la fiaba, che
trasforma in uno stupro di demolitori quanti osano pensare diversamente
dalla inerte maggioranza e cerca annichilirlo» (Lombroso, 1887, p. XII).
Non si trattava infatti, per l’antropologo, di un problema
superficialmente ‘psicologico’, legato all’indole soggettiva di alcuni
individui. Certo, a dare il peggio di sé erano specifiche categorie
intellettuali, tra cui spiccavano i giornalisti: «Il giornale uccide il
libro», poiché «chi può passare il tempo [...] con quelle paginette
svolazzanti ed amene, a periodi spezzati e infiorati di giocherelli, da
pompierate e perfino da pupazzoli», non può «non avere a sdegno anche i
più piccoli volumi di scienze». Quando appariva una novità che urtava
l’ovvio senso comune, i giornalisti creavano «così di lor posta, una
leggenda [...] in perfetta antitesi colla verità», come quando avevano
sostenuto essere «la nuova scuola penale [...] protettrice dei rei,
mentre ne è la più implacabile persecutrice». In tal maniera, «con un
fanatismo apostolico [...] non di rado spengono, brutalmente, le opere
più geniali». E «forse peggio di loro si comportano», ed ecco un’altra
categoria misoneista, «i colleghi dello scienziato: gli scienziati che
diremo Accademici, che hanno per massima suprema lo sprezzo dei volghi
profani» (Lombroso, 1886, pp. X-XI). Le novità della scienza, viceversa,
nascevano per essere divulgate, benché poi sussistessero difficoltà
nell’essere comprese, sia a causa della loro intrinseca difficoltà, sia
perché «mancano in Italia i molti che amino istruirsi nelle cose
scientifiche», ma sia soprattutto per una serie di ragioni culturali,
storiche e geografiche che risalivano al “mito” del peccato d’origine
della tradizione culturale italiana nell’eredità della «maschia
intelligenza latina», così come s’era costituita in Antico Regime. Del
misoneismo, infatti, «un po’ n’ha colpa la soavità del nostro clima»;
quindi «la incontrastata bellezza dei nostri classici»; «ma più di
tutto»
quella
specie d’atavismo, lasciatoci nel sangue dalle abili mene dei passati
governi e dei buoni padri di Gesù, i quali, ben comprendendo quanto
sarebbe stato difficile l’evirare, d’un tratto, la maschia intelligenza
latina vi s’adoperarono abilmente col distrarne, per secoli e secoli,
tutta la vigoria nelle adorazioni idolatre della forma, ci guastarono
così profondamente il senso intimo, che anche fra i più colti non si può
nemmeno discutere sul maggiore vantaggio che hanno le nozioni
scientifiche sulle letterarie (Lombroso, 1886, pp. IX-X).
In
altri termini, oltre a «quel ribrezzo che nasce dal dolore e dalla
difficoltà di percepire le sensazioni nuove e che è proprio degli
individui incolti», e, come si è visto, in genere degli uomini
«normali», «per noi Latini v’è una causa in più», e sarebbe
l’esaurimento lasciato dalle troppe civiltà godute; tremila anni di
coltura, più o meno intensa, vi hanno fatto crescere ed abbarbicare
migliaia di piante, sicché le nuove restano soffocate dalle vecchie o
appena riescono ad una vita stentata o infelice, mentre nei popoli da
poco inciviliti ogni nuovo seme riesce rigoglioso e fecondo. Perciò noi,
checché ci vantiamo a parole di tolleranze e progresso, rifuggiamo da
ogni varietà; siamo un popolo di archeologi morali – viviamo del
passato, fuggiam da ogni soffio d’aria viva, attuale (Lombroso, 1886,
p. XIII).
Occorreva dunque sfrondare e potare con l’accetta delle verità
scientifiche questa troppo consunta tradizione, che lungi dal
rappresentare la forza dell’identità nazionale, nonché della razza
latina, per Lombroso – in perfetta sintonia, lo ripetiamo, con la
maggior parte dell’intellettualità progressiva e positivista
ottocentesca, materialista o spiritualista che fosse – ne costituiva
invece il peggiore ostacolo.
Ma l’elemento storico e
culturale, come sempre in Lombroso, non rappresentava mai la causa
determinante di un fenomeno, bensì solo aggravante o attenuante in un
delicato gioco di compensazioni. Il misoneismo, in altri termini, era
qualcosa di ben ancorato al livello biologico dell’antropologia
evoluzionista, ed era perciò argomento di scienza positiva, con il
metodo dell’osservazione dei fatti. Accadeva perciò che, da un
«aneddoto» raccontato «dall’egregio mio amico professor Lessona (13)»,
Lombroso pervenisse a definire una vera e propria legge del misoneismo,
che indicò poi come «legge d’inerzia». Si trattava, è importante
notarlo, d’una riflessione centrale nel discorso sulla pazzia cominciato
in gioventù, e sul significato che esso aveva via via assunto nello
sviluppo degli studi, divenendo la categoria onnicomprensiva cui già
accennavamo. Nel 1886, introducendo la raccolta di saggi intitolata ai
Pazzi ed anomali, Lombroso infatti rispondeva alle molteplici
critiche che avevano messo in discussione l’esorbitante applicazione del
suo metodo. «Ed ho io colpa» domandava nel primo capitolo «se il genio è
in gran parte effetto di un’iperemia cerebrale che essendo comune anche
ai pazzi fa che spesso ne prenda a prestito non solo le parvenze ma fino
l’indole tutta?». O poteva essere biasimato se si era trovato
«costretto, dall’evidenza dei fatti» ad ammettere «che anche il delitto
spesso non è che una manifestazione di una malattia cerebrale?». Domande
che terminavano in un’esclamazione intensa, quasi a rilevare il disagio,
lui per primo, per risultati che andavano contro il suo stesso buon
senso e le sue attese: «Io, più di tutti, ve lo posso dire che ho
creduto di lavorare molti anni per trovare le differenze fra i pazzi ed
i rei, ed ho finito poi per trovare sempre maggiori analogie!». Aveva
dunque colpa Lombroso se «intanto il campo dei matti si allarga[va] di
troppo»? Come poteva conciliarsi la presenza di questi fenomeni
atavistici con la civiltà progrediente? Per quanto riguarda il rapporto
fra civiltà e pazzia, Lombroso ebbe modo di ripetere in più luoghi, che
da un lato, quello delle «nude cifre», all’aumento di civiltà, di
inurbamento, corrispondeva «un aumento nel numero dei delitti e delle
pazzie»; ciò tuttavia non poteva trascinare «ad una bestemmia, che del
resto sarebbe impotente, contro l’irrompere fecondo della civiltà, che
anche da questo lato non può definirsi dannosa». Essa infatti «se anche
fosse momentaneamente causa di un aumento dei delitti», secondo l’ormai
consueto procedere evolutivo e compensativo della logica lombrosiana,
«certo ne mitiga l’indole, e d’altronde, là dove tocca al suo apogeo,
essa ha già trovato i mezzi di sanare le piaghe onde fu causa». «Mezzi»
che, naturalmente, avranno poi il nome e la cosa di «manicomi
criminali», «sistema cellulare carcerario», «case d’industria», «casse
di risparmio applicate alle Poste ed alle officine», e «specialmente
colle società protettrici dei fanciulli vagabondi, che prevengono, quasi
nella culla, il delitto» (Lombroso, 2000b, p. 469). Tutto questo, però,
era riservato al fronte dei «pazzi» atavici, selvaggi, regredienti,
delinquenti, sventurati, «vagabondi», la cui pazzia, non possedendo le
caratteristiche compensative del genio, rappresentava l’elemento
negativo del progresso; negativo ma necessario e degno di compassione,
perché destinato a far funzionare la legge della lotta per l’esistenza,
e in essa interpretando il ruolo dell’inetto, dunque destinato «a
soccombere» per la felicità, il benessere e il progresso altrui. C’era
però un altro fronte, quello del genio e del pazzo di genio, per il
quale «la civiltà», pur non essendone la causa, «determina la uscita, lo
sviluppo dell’embrione, o meglio, ne determina l’accettazione». Ma nel
passato la selezione non aveva agito per il meglio, eliminando i «forti»
per lasciar spazio ai «geni». Anzi, i geni, assimilati agli inadatti
alla lotta come i pazzi, erano stati scartati dalla storia. Poiché le
civiltà più evolute erano infatti le meno afflitte dal misoneismo, «è
probabile che de’ genii sieno comparsi in tutte le epoche, in tutti i
paesi, ma come, grazie alla lotta per l’esistenza, una quantità di
esseri non nasce che per soccombere, invendicata, preda dei più forti,
così moltissimi di quei genii, quando non trovarono l’epoca favorevole,
restarono ignorati, o misconosciuti, o peggio, anzi, puniti» (Lombroso,
1894, p. 466). Come molti pazzi del passato furono poi riconosciuti geni
del futuro, così dunque geni del presente potrebbero essere considerati
pazzi dalla società contemporanea, a causa del misoneismo, della «legge
d’inerzia», andando così ad accrescere il numero dei martiri per il
progresso della civiltà. La pazzia, in ultima analisi, sia che la si
osservi come patologia manicomiale, dunque come necessario portato della
legge evoluzionistica della lotta per l’esistenza, che deve prevedere
una serie di individui che si sacrificano per la specie (14); sia da
quello della pazzia di genio; in ogni caso rappresentava l’energia, il
motore della civiltà, poiché era l’unica forza capace di vincere
l’inerzia atavica degli uomini, che avevano ereditato sin dal loro stato
selvaggio e dunque dal loro pregresso stato di bruto e di animale: il
loro evoluzionistico peccato originale.
«Per misoneismo (neos
nuovo, misos odiare) – scriveva Lombroso nel 1886 – io intendo
quella tendenza istintiva degli animali vertebrati e ben inteso
nell’uomo, specie in istato selvaggio, di avversare ed evitare qualunque
sensazione nuova colpisca i loro sensi». La dimostrazione dell’assunto
andava dunque a coinvolgere, secondo l’uso ormai invalso del genio di
Down, tutta una serie di animali più o meno domestici, fra cui il cane,
forse anche perché ‘miglior amico dell’uomo’, che teneva l’assoluto
primato. Pare che l’osservazione del comportamento delle bestie più
comuni – cani, gatti, cavalli o scimmie addomesticate – conducesse molti
antropologi ottocenteschi, come gli armchair antropologist, alle
più innovative e sconvolgenti scoperte scientifiche, cui nessun uomo di
scienza sino ad allora fosse mai giunto. Tutti sanno infatti «come i
cani abbajno sempre […] ad ogni vettura che passi per le vie silenziose
del villaggio»; o che il cane di Bret-Harte «s’irritava per tutte le
innovazioni introdotte dalla civiltà, come gaz, telegrafi, ferrovie»; o
ancora che alcuni cavalli «s’impennano se il cavaliere abbia mutato
foggia nel vestire», come fece una «scimmia addomesticata da un
francese» che, scappata e tornata sui suoi monti, «fu accolta con orrore
e sfuggita dai vecchi compagni grazie al vestiario». Degno di ampio
rilievo veniva poi lo studio del noto psicologo evoluzionista
anglosassone Romanes che, nella sua Evoluzione mentale negli animali,
induceva dallo spavento prodotto al suo cane da un osso oscillante «una
prova di un germe, già ben sviluppato, d’immaginazione degli animali, o
come egli lo chiama di una particolare senso dell’ignoto, del
misterioso, che più sviluppato nelle specie umane ha dato luogo alle
religioni» (15). «Nulla di più erroneo di questa induzione», commentava
Lombroso (16): «L’orrore del cane per le nuove proprietà dell’osso», in
altri termini il suo misoneismo, come «quello delle galline e delle
scimmie», «come quello dei fanciulli», non nasce dalla «troppa
immaginazione, ma precisamente dalla mancanza di immaginazione, che non
permette alle menti troppo corte o malate, di subire, senza un grande
sforzo e quindi dolore, il cambiamento di scenario, diremo così, delle
sensazioni primitive» (Lombroso, 1894, pp. 73-75). La risposta alla
legge del progresso cominciava così a farsi sempre più esplicita,
impiegando la pazzia come assoluta protagonista. Infatti, come «ho
potuto dimostrare altrove», egli proseguiva, l’uomo «naturalmente,
eternamente, conservatore, non sarebbe progredito mai senza il
combinarsi di circostanze straordinarie che mettevano nella necessità di
superare il dolore della novazione per confortare altri più grandi
dolori», cioè accettava la novità come male minore, per evitare un
dolore maggiore. Ma in tali «combinarsi di circostanze», il ruolo
dirimente lo ebbe la «comparsa di alcuni uomini singolari, come i pazzi
di genio e i mattoidi, che per la anomala organizzazione avendo un
esagerato altruismo e un’attività cerebrale superiore di lunga mano a
quella dei contemporanei, precorrono gli eventi, trascinano alle
innovazioni, senza pensare al proprio danno» (Lombroso, 1894, p. 77).
Era la pazzia dunque, nella sua forma progressiva e altruistica, che
consentiva al mondo ed alle civiltà di proseguire nel cammino evolutivo
di affrancamento dallo stato egoistico e conservatore del bruto, ossia
di vincere la «legge dell’inezia»: «L’inerzia è la regola, il progresso
l’eccezione». Da tale convinzione veniva a Lombroso la certezza della
fine d’ogni paradosso, di cui si nutriva la sua fede in un
inarrestabile, benché graduale, progresso, imposto dalla dialettica tra
misoneisti e filoneisti, neofobi e neofili. Dalla parte dell’atavismo
regressivo, dell’animale, del bruto, del selvaggio, del bambino, stavano
naturalmente tutte le forme oscurantiste della religione. La religione
era infatti «l’ufficio conservatore degli usi per eccellenza» e sin
dall’origine essa «confuse subito per un’infrazione alla morale e un
insulto a Dio, ogni infrazione contro l’uso». Di qui avvenne che «i
custodi della religione, i sacerdoti, maghi, medici, stregoni, ecc.»
fossero considerati sacri e delitti fossero considerate le offese contro
di loro e «le leggi da essi introdotte» (Lombroso, 1894, p. 78).
Dalla parte buona, progressiva, altruistica stava invece la presenza
«dei geni, degli alienati o dei mattoidi» che grazie alle loro
anormalità fisiologiche «provocano i mutamenti non senza pagarne spesso
il fio col martirio, col carcere e con le risate accademiche» (Lombroso,
1886c, p. 148).
Riferimenti bibliografici
Asor Rosa, A. (1975). La
cultura. In Storia d’Italia (Vol. IV, 2). Torino: Einaudi.
Baima Bollone, P. (1992).
Cesare Lombroso: ovvero il principio di irresponsabilità. Torino:
SEI.
Bulferetti, L. (1975).
Cesare Lombroso. Torino: UTET.
Colombo, G. (1992). La
Scienza infelice: il museo di antropologia criminale di Cesare lombroso.
Torino: Bollati Boringhieri.
De Filippi, F. (1983).
L’uomo e le scimie.
Lezione pubblica detta in Torino la sera dell’11 gennaio 1864. Il
Politecnico, III, 21. In G. Giacobini & G. L. Panattoni. Il
darwinismo in Italia. Torino: UTET. (Original published in 1864).
De Sanctis, F. (1958).
Storia della letteratura italiana. Bari: Laterza. (Origlinal
published in 1872).
Fenizia, C. (1901).
Storia dell’evoluzione. Milano: Hoepli.
Fogazzaro, A. (1945).
Recensione a G. J.
Romanes, L’Evolution mentale chez l’homme. Origines des facultes
humaines.
Parigi. In A Fogazzaro, Scene e prose varie. in Tutte le opere
di Antonio Fogazzaro, vol. XV. Milano: Mondadori. (Original pulished
in 1891).
Friedmann Coduri, T.
(1900). Santi ed
eroi. Milano:
Tip. Pietro Agnelli.
Frigessi D.; Giacanelli F.;
Mangoni L. (Org), (2000). Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia.
Scritti scelti. Torino: Bollati Boringhieri.
Frigessi, D. (2000).
Introduzione a La scienza della devianza. In Frigessi D.; Giacanelli F.;
Mangoni L. (Org), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti
scelti. (p. 349). Torino: Bollati Boringhieri.
Frigessi, D. (2003).
Cesare Lombroso. Torino: Einaudi.
Gibson, M. (2004). Nati
per il crimine: Cesare Lombroso e le origini della criminologia
biologica (Trad.). Milano: Bruno Mondadori. (Originale pubblicato in
2002)
Giacobini, G. & Panattoni,
G. L. (1983). Il darwinismo in Italia. Torino: UTET.
Govoni, P (2002). Un
pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica nell’Italia in
formazione. Roma: Carocci.
Guarnieri, L. (2000).
L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso. Milano:
Mondadori.
Haechel, E. (1894).
Antropogenia e storia dell’evoluzione umana. Il monismo quale vincolo
tra religione e scienza. Professione di fede di un naturalista
pronunciata il 9 ottobre 1892 al Altenburg in occasione del
settantacinquesimo giubileo della «Naturforschende Gesellschaft des
Osterlandes». (D. Rosa & A. Herlitzka Trad.). Torino: Unione
Tipografico-Editrice.
Lombroso, C. (1883). Due
tribuni. Roma: Sommaruga.
Lombroso, C. (1886a).
Pazzi ed anomali. Città di Castello: Lapi.
Lombroso, C. (1886b). Il
misoneismo negli animali e negli uomini. In C. Lombroso, Pazzi ed
anomali. Città di Castello: Lapi.
Lombroso, C. (1886c). Una
nuova teoria psichiatrico-zoologica delle rivoluzioni. In C. Lombroso,
Pazzi ed anomali. Città di Castello: Lapi.
Lombroso, C. (1887). Tre
tribuni studiati da un alienista. Milano: Bocca.
Lombroso, C. (1894).
L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed
all’estetica. Torio: Bocca.
Lombroso, C. (1909).
Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici. Torino: UTET.
Lombroso, C. (1913). Pregi
e importanza dello studio delle malattie mentali. In C. Lombroso,
L’uomo alienato. Trattato clinico sperimentale delle malattie mentali
riordinato dalla dott.ssa Gina Lombroso. Torino: Bocca.
Lombroso C. (2000a).
Genio e follia. Milano: Brigola Milano 1872, in In D. Frigessi; F.
Giacanelli; L. Mangoni (Edd.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia.
Scritti scelti (p. 409). Torino: Bollati Boringhieri. (Original
published in 1872).
Lombroso C. (2000b).
L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza e alle
discipline carcerarie. Torino: Bocca. In D. Frigessi; F. Giacanelli;
L. Mangoni (Edd.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti
scelti. Torino: Bollati Boringhieri. (Original published in 1878).
Lombroso, C. (2000c). La
funzione sociale del delitto. Palermo: Sandron. In D. Frigessi; F.
Giacanelli; L. Mangoni (Org.), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia.
Scritti scelti. Torino: Bollati Boringhieri. (Original published in
1896).
Lombroso, G. (1932).
Vita di Lombroso. Milano: Istituto italiano per il libro del popolo.
Mangoni, L. (2000).
Introduzione a Eziologia di una nazione. In C. Lombroso, Delitto,
genio, follia. Scritti scelti. (p. 685). Torino: Bollati
Boringhieri.
Mosse, G. L. (2003). Il
razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto. Bari: Laterza.
(Originale pubblicato in 1978).
Mozzarelli C. & Civinini L.
(2004, maggio). Le malattie mentali e lo stigma sociale nella storia
antica, moderna e contemporanea. Intervento presentato al Seminario
Nazionale Salute Mentale e Stigma Sociale.
Percorsi interdisciplinari per il superamento del
pregiudizio, Roma, Italia.
Parinetto, L. (1963).
Vailati e Fogazzaro alla luce dell’inedito epistolario vailatiano. In
Rivista critica di storia della filosofia, XVIII, 3, 499-523.
Quondam, A. (2004).
Petrarca, l’italiano dimenticato. Milano: Rizzoli.
Resoconto (1907, novembre).
Luce e Ombra, 11, 72.
Rondini, A. (2001). Cose
da pazzi: Cesare Lombroso e la letteratura. Pisa-Roma: Istituti
editoriali e poligrafici internazionali.
Semeria, G. (2003).
La santità nella realtà
della storia e in un romanzo recentissimo.
In P. Marangon (Ed.), Antonio Fogazzaro e il modernismo. Vicenza:
Accademia Olimpica.
Note
(1) Il
lavoro è destinato a completare la serie di interventi del Seminario
Nazionale Salute Mentale e Stigma Sociale.
Percorsi interdisciplinari per il superamento del
pregiudizio, tenutosi a Roma il 5
maggio 2004 presso la Sala Convegni dell’Ex Ospedale Psichiatrico
S.Maria della Pietà, i cui Atti sono in fase di rielaborazione per un
numero monografico della rivista «Cheiron».
(3) Asor
Rosa così commenta: «A questo punto il lettore dovrebbe accorgersi di
essere stato messo su di una pista, che porterà lontano. La natura
particolare di questo rapporto tra pensiero (cultura e vita morale) e
scienza è un tratto indelebile della situazione italiana
otto-novecentesca, anzi, per molti versi, e per lunghi tratti, un
aspetto caratteristico della mentalità “nazionale” (o, per dirla, più
esattamente, di quella classe colta e semicolta nel nostro paese)»
dovuta oltre che da una particolare interpretazione dello Hegel, «anche
da altre componenti più indigene (per esempio da un certo spiritualismo
di fondo, in parte di origine cattolica, che permea di sé quella
interpretazione)».
(4) Sul
rapporto tra Vailati e Fogazzaro, e sui molti loro punti di contatto, si
può vedere ancora Parinetto, L. (1963). Vailati e Fogazzaro alla luce
dell’inedito epistolario vailatiano. In Rivista critica di storia
della filosofia, XVIII, 3, 499-523. In particolare Parinetto mette
in rilievo il comune anelito a superare il materialismo con il sostegno
di iniziative di tipo volontaristico e spiritualistico, ispirate da una
comune attenzione al fenomeno religioso, che ha come riferimenti
culturali Schopenhauer e Tolstoj. Di qui l’interesse comune nei
confronti del rapporto fra scienza e fede, documentato sia dalla
partecipazione del Vailati alle conferenze fogazzariane (segnatamente a
quella del ’93 sull’Origine dell’uomo); sia dall’approvazione
della politica sociale del Bonomelli; sia dal sostegno alla rivista
«L’Ora presente», cui collaborava padre Semeria, la Giacomelli e lo
stesso Fogazzaro, trasportando in Italia l’esperienza del Desjardins;
sia, infine, per il prolungato e comune interesse per il mondo
dell’occulto, sempre sulla scorta dello Schopenhauer, dell’ipnotismo e
della telepatia, che avvicinerà Fogazzaro e Lombroso nella Società di
Studi Psichici di Milano nei primi anni del Novecento.
(5)
Fenizia, C. (1901) Storia dell’evoluzione. Milano: Hoepli,
dedicato e ispirato al più celebre ‘maestro’.
(6)
Fondamentale in tal senso Haechel, 1894.
(7) La
definitiva ‘conversione’ agli studi sull’occulto, dopo anni di
incredulità e scetticismo, è testimoniata, ad esempio, in Lombroso,
1909. Lombroso era membro, insieme a Morselli e Fogazzaro, della Società
di Studi Psichici di Milano, di cui Fogazzaro fu nel 1905 presidente
onorario, fondata sul modello della positivista ed evoluzionista Society
for Psychical Reserch di Londra. Alle sedute della celeberrima medium
Eusapia Paladino assisteranno fra i molti altri Lombroso, Morselli,
Capuana, Farina. La partecipazione del Fogazzaro è attestata in data 26
novembre 1906, come è documentato dal resoconto ‘scientifico’ delle
sedute medianiche, pubblicato sulla rivista della società milanese:
Resoconto, 1907: «Seduta del 26 novembre. Ore 21, 40 – Presenti i
signori: Baccigaluppi Angelo, Brioschi Achille, Ferrari Dott. Francesco,
Fogazzaro Sen. Antonio, Marzorati Angelo, Massaro Giuseppe, Odorico On.
Odorico, Tassoni March. Alessandro, Visconti di Modrone Conte Giuseppe;
medium Eusapia Paladino»; segue quindi la descrizione della
collocazione dei presenti intorno al tavolino e i fenomeni accaduti ai
diversi partecipanti. Alla p. 76 della medesima rivista è pubblicata una
precisazione del Fogazzaro circa il verbale, da lui sottoscritto, della
seduta: «La relazione della seduta alla quale ho assistito è
perfettamente esatta. Solo converrebbe aggiungere, là dov’è detto che
l’Eusapia non sapeva da qual paese fosse venuto il Massaro, che questo
era noto ad alcuni dei presenti. Ella avrebbe quindi potuto saperlo per
una comunicazione occulta di pensiero. La mia impressione della serata
fu questa: È impossibile affermare ed è del pari impossibile negare in
modo assoluto che vi abbiano avuto luogo simulazioni di fenomeni, salvo
che per i movimenti del tavolo. Questi, che avvennero in piena luce, non
poterono simularsi da chicchessia, a scopo d’inganno». Ci pare un
documento interessante, che attesta non solo la convergenza fra
materialismo e spiritualismo di formazione evoluzionistica
nell’interesse dello spiritualismo per l’«occulto», ma anche la
‘scientifica’, cioè positivista, preoccupazione che da entrambe le parti
si manifestano nello studio di quei fenomeni, lasciando il sospetto che
a muovere figure per altro così distanti verso simili interessi sia
proprio il comune riferimento evoluzionista. Per Lombroso si veda
Frigessi, 2003, pp. 397-412.
(7) Se
Ariosto e Machiavelli sono «ancora portatori di valori positivi», oltre
al solo Dante il «canone dei padri della nuova patria» sarà formato da
«Giordano Bruno, Tommaso campanella, Galileo Galilei, Pietro Giannone,
Giambattista Vico, eccetera» (Quondam, 2004, pp. 247-249).
(8) Allo
studio dei «rivoluzionari» come forme diverse di intelligenza nei pazzi,
di monomania o di mattoidismo sono dedicati Lombroso, 1887 e Lombroso,
1883. Nell’introduzione, Lombroso ribadiva la necessità della
divulgazione della verità scientifica, cioè la sua, contro «la teologia
e poi la metafisica» e «la nostra educazione classica, classica per così
dire» poiché altro non si impara se non «come lo stesso oggetto si
chiami e si declini in vecchie lingue». L’odio per la tradizione e
l’impotenza nel vedere ancora le masse italiane sottoposte alla menzogna
della religione e della metafisica anziché illuminate dal nuovo ‘verbo’,
provocava poi il caratteristico atteggiamento di disprezzo per il volgo
arretrato, «atavico» e ignorante («quel mondo insomma che fa da platea
ed anche da orchestra ai pochi attori di genio») e insieme la malcelata
mendicanza del favore popolare, che non arrideva al genio incompreso
perché troppo avanti nella scala evolutiva.
(9) «Il
genio indovina quasi i fatti prima di conoscerli appieno, come Goethe,
che descriveva l’Italia tale e quale prima di averla veduta, che
prevenne Darwin nella scoperta dell’origine delle specie. Codesta
originalità si osserva anche, non di raro, benché quasi sempre senza
scopo, nelle azioni dei matti [...], e specialmente dei letterati»
(Lombroso, 1894, p. 46).
(10)
Altro riferimento esplicito e implicito della formazione lombrosiana,
che spesso torna nell’elenco, curiosamente omogeneo a quello
desanctisiano, dei Geni-profeti (insieme a Spinoza, Bacone, Galilei,
Voltaire, Colombo, Machiavelli, Michelangelo e Cavour, Dante
rientrerebbe, all’altezza dell’edizione del ’72 di Genio e Follia,
fra i geni che non mostrano i segni caratteristici dei ‘genialoidi’
alienati, documento quindi della distanza fra uomo di genio e alienato,
che nelle edizioni successive andrà scemando e praticamente scomparendo;
cfr. DGF, p. 409). La Divina Commedia è poi fonte inesauribile di
citazioni, di luoghi e anche di argomenti ‘scientifici’ per sostenere le
proprie tesi (ad esempio, per confermare la tesi secondo la quale «la
scuola carceraria entra a fattore nell’accrescimento della criminalità»,
si veda Lombroso, 2000b. p. 744).
(11) Ne
subirà il fascino il padre barnabita Giovanni Semeria, ricordando in una
conferenza sulla santità che «Cesare Lombroso manifestò il proposito,
poi non attuato, di studiare fisiologicamente il Santo come aveva
studiato il genio» (in La santità nella realtà della storia e in un
romanzo recentissimo, in Marangon, 2003, p. 70).
(12)
«Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita
via/che tiene una sostanza in tre persone./ State contenti, umana gente
al quia;/ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era
parturir Maria» (Dante, Purg., III, vv. 35-39). È Dio dunque che
scende, non l’uomo che sale.
(13) Il
celebre naturalista, professore e rettore dell’Università di Torino,
traduttore dell’Origine dell’uomo di Darwin e infaticabile
promotore culturale, nonché scrittore di successo con Volere è potere,
il best seller nazionale dell’ideologia self-help
divulgata in Europa da Samuel Smiles.
(14) Di
lì a breve, un noto esponente della politica e della cultura
positivista, liberale ed evoluzionista come Gaetano Negri, sindaco di
Milano, ma già naturalista allievo di Antonio Stoppani, quindi pugnace
assertore del materialismo, in una posizione di continua sfida e
confronto con le posizioni dei conciliatoristi spiritualisti, avrà modo
di applicare la medesima logica, di una sorta di altruismo
evoluzionista, nel sincero impegno profuso per gli storpi. Intervenendo
nella strenna natalizia del Pio Istituto per i Rachitici di Milano, egli
aveva modo di riflettere sulla «santità e l’eroismo» che sono «una
manifestazione della grandezza umana». «Ma può esservi grandezza vera
senza pietà?» si chiedeva Negri; «l’uomo è tanto più veracemente grande,
quanto è più aperto al sentimento della pietà, che vuol dire quanto più
risente in sé stesso le sofferenze, i dolori, le passioni degli altri,
quanto più in questa coscienza della solidarietà essenziale in cui vive
con gli esseri tutti che lo circondano, quanto più in questa coscienza
egli attenua ed obblia la prepotenza dell’Io» (Friedmann Coduri,
1900, pp. VII-IX). Insomma, i «rachitici» servirebbero all’eroe della
«lotta per l’esistenza» per esercitare la «pietà», indispensabile
ingrediente del suo compimento, senza che vi sia spazio alcuno, come per
i «pazzi» lombrosiani, per immaginare una ‘santità’ del rachitico, cioè
un compimento personale, impedito addirittura nella sua ‘eroicità’
fisica o mentale.
(15)
Fisiologo celebre per le teorie dell’evoluzione applicate all’origine
dell’uomo ed allo spirito, George John Romanes fu anche fra i primi ad
estendere l’evoluzionismo agli studi di psicologia comparata, e diede
vita, presso l’Università di Oxford, alle Conferenze Romanes,
alle quali veniva annualmente invitato un relatore di chiara fama ad
esprimersi su argomenti letterari o scientifici. Fu uno degli
evoluzionisti più apprezzati dallo spiritualista cattolico Fogazzaro,
che ne ammirava il tentativo di sviluppare il «complemento logico delle
dottrine evoluzioniste circa l’origine dell’uomo», attraverso la
dimostrazione della «massima probabilità di quella genesi della
intelligenza umana dalla intelligenza dei bruti». Secondo lo scrittore
vicentino, particolarmente inserito nel dibattito sull’evoluzionismo
positivista di fine Ottocento, il metodo del Romanes metteva infatti a
paragone «la evoluzione mentale del bambino alla evoluzione della
intelligenza attraverso la scala delle specie animali e si giovava di
questo studio comparativo quasi come la scienza si giovò
dell’embriologia per provare a dimostrare l’evoluzione fisica». Il
metodo scientifico è dunque ancora quello comparativo delle specie
esistenti, confrontando le quali, tuttavia, egli «si sforza di graduare
le fasi del processo di evoluzione mentale in modo di mantenerne la
continuità». Sulla continuità fra intelligenza animale e umana,
«[Romanes] indaga la formazione naturale della coscienza ch’è il
carattere e la forza dello spirito umano, studia largamente e
profondamente il linguaggio come facoltà di far segni, che pure i bruti
posseggono, e cerca dimostrare che lo sviluppo di questa facoltà si
presenta continuo nelle sue fasi. Continuità nell’evoluzione
dell’intelligenza, continuità nell’evoluzione del linguaggio sono i due
maggiori fatti per sostenere come probabile a posteriori la tesi
indicata come probabile a priori circa l’origine dello spirito umano»
(Fogazzaro, 1945, pp. 385-386).
(16) Il
quale tuttavia, in conclusione dell’articolo, che terminava ancora con
il consueto insegnamento anti-religioso e clericale, aveva modo di
apprezzare le osservazioni dell’«ingegno assai più erudito che acuto »
del Romanes: «Il misoneismo, la neofobia, è dunque una delle cause
fondamentali della religione, ma ciò non per l’eccesso, sì per un
difetto grande dell’immaginazione; e le nostre conclusioni essendo
affatto contrarie, quanto alle origini a quelle del Romanes finiscono,
per accordarsi con le sue quanto ai risultati intorno all’origine delle
religioni, che infatti, nei molteplici assurdi, ne portano tutta
l’impronta. Si può domandare: ha fatto più danno all’umanità l’eccesso
dell’immaginazione di pochi poeti e novatori od il difetto rappresentato
dal misoneismo? La storia delle scienze e delle lettere, da un lato,
quella delle religioni, da un altro, risolvono ben chiaramente il
problema» (Lombroso, 1886b, p. 79).
Nota
sobre o autor
Stefano Bertani é
docente junto à Universidade Católica de Milão (Universitá Cattolica del
Sacro Cuore), Itália. Sua área de ensino e pesquisa: história da cultura
humanista e científica e história d marginalidade. È autor de vários
escritos científicos, entre os quais o livro L’ascensione della
modernitá: Antonio Fogazzaro tra santitá e evoluzionismo.
E.mail:
stefano.bertani@unicatt.it.
Data de recebimento: 27/07/2006
Data de aceite: 30/12/2007
Memorandum 12, abril/2007
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP
ISSN 1676-1669
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/bertani01.htm