Zardin, D. (2007). Crise e metamorfosi del cristianesimo europeo tra ´500 e ´600. Memorandum, 12, 46-60. Retirado em /  /  , da World Wide Web http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/zardin02.htm

Crisi e metamorfosi del cristianesimo europeo tra ’500 e ’600

Crisis  and metamorphosis of Christianity in Europe between 16th and 17th century

 Danilo Zardin
Università Cattolica del Sacro Cuore

Italia

 

Riassunto
Dialogando criticamente con l’interpretazione ottocentesca che ha posto l’accento sul passaggio alla modernità in termini di rottura con la tradizione e di precoce divorzio dall’eredità cristiana, si pongono in evidenza i fili di continuità che legano tra loro la cristianità tardomedievale e l’età della Riforma e della Controriforma maturata alla fine nei suoi esiti barocchi.
Si cerca di mostrare che la modernità non si è costruita sempre e comunque ‘contro’ la fede cristiana, ma utilizzando i suoi materiali, culturali e sociali, per edificare una realtà nuova, che solo in una fase molto avanzata ha messo in discussione veramente le sue radici e ha preso strade autonome.

Parole chiave: tradizione; modernità; continuità

Abstract
Through the critical review of the nineteenth-century interpretation of the transition to modern age as and an early parting from the Christian heritage and a break from the tradition, the paper highlights the continuity between the late Middle Ages Christianity and the age of Reformation and Counter-Reformation (with their baroque derivatives). The intent is to show that modernity has not always and anyhow developed ‘against’ the Christian faith, but rather using its cultural and social materials in view of the construction of a new reality, which only much later came to question ist roots and tooks different directions.

 

Keywords: tradition; modernity; continuity

 

 

Rinascimento contro Medioevo?

L’idea della genesi della modernità appare ancora ai giorni nostri collegata all’idea della frattura: davanti a qualcosa che finisce, a un mondo che entra in declino e si frantuma (l’autunno del Medioevo, come l’ha chiamato un grande storico olandese del secolo scorso, Huizinga(1995)), il moderno si configura come una novità che si afferma entrando in lotta con quello che c’era prima, sottraendogli il terreno, distruggendolo. Viene per lo più concepito come antitesi del non-moderno, come rivolta contro il Medioevo: l’inizio della modernità, infatti, viene identificato con la fioritura prodigiosa del Rinascimento, il Rinascimento «tutto porpora e oro», come l’ha chiamato sempre Huizinga, trionfo di una nuova cultura in espansione e creatrice di progresso. Ma questa idea dell’inizio della modernità come rottura, come Rinascimento, appunto, quando si è codificata e cosa implica? Come ha fatto a prendere forma?

Certo alcuni elementi di questa percezione storica li hanno prodotti, condividendone i presupposti, gli stessi uomini dell’élite culturale e politica che è stata protagonista della fuoriuscita dal mondo preesistente. Ma lo schema di pensiero si è consolidato ed è diventato lo scheletro portante di una spiegazione dotata di forza diffusamente persuasiva solo in un passaggio molto più vicino a noi, a partire dall’800.

Possiamo dire che ciò è avvenuto perché l’800 è stato l’inizio di un altro grande nuovo ciclo di sviluppo all’interno della storia dell’uomo europeo, speculare e immaginato in continuità con quello che avrebbe segnato la fine del mondo premoderno in seguito alla svolta dell’Umanesimo. L’Europa della Restaurazione, uscita dalla crisi dell’Antico Regime, è stata l’epoca della decisiva affermazione dei grandi stati nazionali, del primo emergere di una economia compiutamente moderna, l’inizio di un enorme decollo tecnologico, di un generalizzato progresso anche materiale della società. Era l’inizio di un mondo nuovo, che aveva bisogno di definire la sua identità, di giustificare la sua pretesa di costituire il vertice di una catena di vicende storiche che lo avevano preparato nel corso del tempo. Un’Europa nuova, l’Europa della borghesia in ascesa, di una cultura laica, efficientista, razionalizzatrice, che ambiva ad entrare in una competizione sempre più energica con la cultura della tradizione, era inevitabilmente spinta a ricostruire in modo nuovo il passato, in funzione del proprio presente. È in questo momento che si impone la reinterpretazione moderna della storia della cultura europea, fondata su uno schema dualistico che viene radicalizzato: da una parte il Medioevo concepito come l’età della barbarie, dominio del negativo e del primitivo, dall’altra l’esaltazione trionfalista del Rinascimento come primo abbozzo della modernità destinata a dispiegare pienamente tutte le sue premesse nella nuova Europa nata dalla Rivoluzione francese, a seguito dell’abbattimento dell’Antico Regime.

Certo questa visione dualistica dell’inizio della modernità non è stata inventata dal niente. Già in alcuni ambienti culturali dell’Umanesimo, dell’alta cultura filosofica ed erudita del primo Rinascimento – come abbiamo suggerito – erano emersi i primi accenni di una idea che implicava la sensazione di doversi ridestare da un lungo letargo per introdursi in un’età nuova che cominciava a profilarsi. Poi soprattutto nel ’700, nella grande crisi della coscienza europea spinta a maturazione dagli apporti dell’illuminismo, per esempio attraverso gli scritti storici di Voltaire o di Condorcet, si sono definitivamente perfezionati i presupposti del rifiuto polemico del Medioevo, in funzione di una visione antinomica della nascita della modernità che presupponeva, del resto, la parallela invenzione di un Medioevo concepito come un tutto organico e coerente fino a una precisa soglia cronologica (idea a sua volta attestata, si ricordi, solo a partire dalla fine del ’600).

È questo un aspetto che anche Marc Bloch (1978) richiama in un passaggio della sua celebre Apologia del mestiere di storico (pp. 152-154). Secondo Bloch, gli spunti di giudizio elaborati dalla cultura illuminista nella sua polemica contro la tradizione furono raccolti e sistemati nel modo narrativamente più efficace, nell’ambito francese, da un esponente di punta della storiografia destinata ad affermarsi all’indomani della Rivoluzione: Jules Michelet. Bloch anticipava qui una tesi cara al suo compagno di avventura Lucien Febvre (1976) (come si sa, un altro dei grandi ri-fondatori della nostra storiografia moderna), autore di un brillante articolo sulla paternità dell’idea moderna di Rinascimento: Come Jules Michelet inventò il Rinascimento (il Rinascimento con la R maiuscola, diceva Bloch, inteso come epoca storica unitaria successiva a un’altra epoca storica di segno diametralmente opposto). Con Michelet (1798-1874), siamo già traghettati dagli ideali politico-culturali dell’Europa illuminista e rivoluzionaria nel cuore della cultura ottocentesca. Ed è in questo contesto, come dicevamo, che l’apologia dualistica della modernità avanzante sotto forma di progresso si è assestata in uno schema scientifico di interpretazione generale della storia, che ha conquistato il mondo del sapere storico di tutta l’Europa colta, a partire dalla sua roccaforte tedesca.

Un ruolo decisivo in questo processo di risistemazione dei conti con il passato (e quindi anche di ri-periodizzazione, di nuova etichettatura del passato medesimo) è concordemente riconosciuto allo storico di origine svizzera Jacob Burckhardt, che proprio alla metà dell’800 (1860) pubblicò la sua grande opera di sintesi sulla Civiltà del Rinascimento in Italia. Il saggio di Burckhardt contiene la più influente formulazione di quella idea di Rinascimento che ha condizionato a lungo e in parte continua tuttora a condizionare lo sviluppo dell’interpretazione storica, sia attraverso la larga ripresa che è stata fatta delle sue tesi, sia costringendo gli oppositori a scendere sul terreno imposto dalle categorie di giudizio da essa implicate. Apparso in lingua tedesca, il libro venne rapidamente fatto conoscere negli altri paesi. Fu tradotto nelle maggiori lingue europee e a distanza di pochi anni anche in italiano. L’insolita fortuna spiega la vastità dell’influsso esercitato.

La prima parte dell’opera è dedicata all’esaltazione dello sviluppo dello stato come opera d’arte: lo stato che si afferma entrando in competizione con l’assetto pluralistico e frammentato della società medievale, portandola a un grado più elevato di razionalità e di unità di organizzazione. La parte seconda si concentra, invece, sullo «svolgimento della individualità», cioè sulla maturazione dell’idea moderna di individuo. Il passo iniziale di questa parte seconda, diventato memorabile, compendia nella stringatezza di poche righe la tesi dualistica che sto cercando di ridiscutere criticamente. Nelle edizioni tuttora in commercio vi si trova affiancato a margine un titoletto che vale di per sé come un emblema: «Antitesi col Medioevo». L’«antitesi» è sviluppata in una serie di sentenze lapidarie, giocate sul filo di una contrapposizione dove stanno da una parte della barriera le ombre tenebrose, dall’altra le luci della civiltà moderna che doveva farsi spazio dentro i quadri non più tollerabili dell’assetto preesistente. 

Nel Medioevo i due lati della coscienza, quello che riflette in sé il mondo esterno [cioè l’uomo che guarda alla realtà fuori di sé] e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo [la coscienza che si volge su se stessa, l’autocoscienza dell’uomo], se ne stanno avvolti in un velo comune, come in un sogno o dormiveglia; il velo [che impediva la visione nitida delle cose, che imprigionava e limitava le capacità di sviluppo delle risorse umane] era tessuto di fede [intesa qui in senso deviante, superstiziosamente ingenuo, come una cappa negativa], d’ignoranza infantile, di vane illusioni. Veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo [l’individuo, l’autocoscienza che guarda su di sé, che rende l’interiorità, l’immagine interna dell’uomo] non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione [cioè come membro di una aggregazione sociale, e non come singolo, depositario di diritti e di doveri inviolabili, intorno al quale si costituisce la società nella nostra prospettiva moderna], di una razza o di un’altra qualsiasi collettività. L’Italia è la prima a squarciare questo velo [si vede bene che l’enfasi è sempre posta sulla rottura, sulla soluzione di continuità] e a considerare e a trattare lo stato  e, in genere, tutte le cose terrene [di nuovo siamo portati sul primo lato della coscienza] da un punto di vista oggettivo, ma al tempo stesso [secondo lato, dell’interiorità] si risveglia potente nell’italiano il sentimento del soggettivo, l’uomo si trasforma nell’individuo spirituale e come tale si afferma [le sottolineature sono mie] (Burckhardt, 1984, p. 125).

 

I cardini intorno a cui ruota la visione burckhardtiana sono ben definiti. In primo luogo, l’esaltazione di un nuovo modello di individuo, l’individuo soggettivo, che sta in piedi da solo, cosciente del valore di sé e del proprio destino. A lui si intende finalizzare l’ordine della costruzione sociale, non più come avveniva nell’universo messo sotto contestazione, e questo individuo indipendente, autonomo, libero, capace di aprirsi al mondo, di andare incontro alla realtà senza l’ostacolo dei veli che ingombravano la visione e lo tenevano prigioniero, quest’uomo afferma il proprio ruolo dentro una realtà che comincia a trasformarsi, che egli diventa in grado di manipolare per farne un’opera d’arte. L’individuo moderno si qualifica come soggetto della storia collettiva creando intorno a sé la sostanza nuova dello stato inteso come ordine disciplinato, come assetto ideale della società umana: lo stato rinascimentale, che nel libro di Burckhardt viene descritto nel suo strutturarsi intorno alle figure dei grandi principi, dei condottieri, degli esponenti di punta della società laica dell’Italia del tempo. All’ombra dell’individuo capace di farsi da sé, l’esaltazione dello stato come opera d’arte (e quindi come dimensione ideale della convivenza associata), lo stato dove si afferma, appunto, il potere del principe, il potere sovrano che ingloba in sé la società subordinata. Questi due elementi portanti che vengono indicati come i pilastri della modernità avrebbero poi trovato in Italia il loro teatro primario di elaborazione: l’Italia del Rinascimento o della prima età moderna viene elevata a prototipo della modernità.

Sono tutte idee affascinanti e suggestive. Il libro di Burckhardt è un capolavoro della letteratura storica. Si legge ancora oggi, viene ristampato e circola nel mondo delle scuole. È quel che si dice un classico. Ma è un classico fortemente datato. Centocinquant’anni ci separano dalla sua comparsa, e in questi 150 anni la ricerca storica non è rimasta ferma, non si è limitata a riprodurre passivamente i clichés di Burckhardt. All’inizio la sua fortuna è stata dilagante, anche nell’Italia che stava concludendo la sua esperienza risorgimentale, il suo nuovo Rinascimento come nazione, e che aveva bisogno, quindi, di dotarsi di una nuova cultura unitaria, di una nuova interpretazione del suo passato e di una identità condivisa, e che sulla base di queste doveva fondare un nuovo sistema di formazione, fino ai suoi vertici universitari, un nuovo sapere pubblico. Nell’Italia di De Sanctis e del potere laico della monarchia sabauda le tesi di Burckhardt incontrarono un’accoglienza cordiale; furono rilanciate, divulgate attraverso tanti canali, divennero gli assi di riferimento della ricostruzione della storia letteraria, culturale e artistica, in una parola del senso della tradizione anche e soprattutto della nostra civiltà italiana. Ma progressivamente, già a pochi anni di distanza dalla pubblicazione del libro di Burckhardt, cominciarono a emergere anche le voci critiche; presero ad accumularsi nella ricerca internazionale nuovi materiali informativi, anomalie e smentite che tendevano a suggerire come non tutto potesse essere fatto rientrare a perfezione nel quadro di un rigido dualismo impostato sia in termini cronologici (il Medioevo che finisce, il Rinascimento come età totalmente nuova), sia  geografici (l’Italia come isola felice separata dal resto dell’Europa, toccata dal destino privilegiato di una fioritura improvvisa e prodigiosa). Anche l’ultimo Burckhardt sembra che se ne rendesse consapevole. Le barriere dualistiche di separazione dovevano essere reinserite in una realtà più complessa e su questa strada si è avviato un ripensamento che, con il procedere del tempo, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, ha sollecitato un’ampia ridiscussione, così che gli elementi messi a fuoco dalla lettura storica (e dalla sua periodizzazione) sette-ottocentesca sono stati sempre più massicciamente integrati, fatti interagire con altre sottolineature e nuove sensibilità di approccio su molti aspetti anche di primario rilievo. Oggi possiamo dire che lo schema burckhardtiano puro è ormai largamente screditato ai livelli della scienza storica più avanzata. L’ingresso nell’età moderna è spiegato facendo ricorso a letture più sofisticate, molto più sfumate. Soprattutto è diventato chiaro che l’ingresso nell’età moderna non è tutto e solo Rinascimento, o almeno non può restare bloccato in quel Rinascimento che avevano immaginato gli illuministi e gli intellettuali liberali dell’Europa protestante del nord, dopo la caduta dell’Antico Regime. Oggi è diventato più facile pensare (forse più in altri paesi che non in Italia, soprattutto nel mondo anglosassone e americano, dove la storiografia è più libera e sperimentale, meno legata da condizionamenti ideologici e politici) che l’ingresso nell’età moderna non è l’anti-Medioevo, non è l’uscita già netta e sistematica dalla non-modernità, ma che la modernità si è costruita proseguendo, dando sviluppo, correggendo, articolando in modo diverso gli elementi di un edificio che già esisteva. Alcuni supporti di questo edificio sono stati rifiutati, o sono caduti lungo il cammino. Altri, più decisamente nuovi, hanno fatto la loro comparsa, e tutto si è fuso in una sintesi che lentamente ha dato vita a una formazione storica originale, a un nuovo ‘sistema del vivere’, riconoscibile come una specifica forma di civiltà. Una civiltà, un sistema complessivo del vivere, che però sono apparsi differenziati solo alla conclusione di un lungo processo, perché la loro fisionomia fu in realtà plasmata sulla base di una eredità che non fu subito contestata globalmente e rimossa. Oggi, a fianco delle barriere di rigida demarcazione e degli squarci che monopolizzavano l’attenzione di Burckhardt e di coloro che si sono mossi nella medesima scia, si sottolineano i processi di osmosi, la dialettica a lungo non risolta tra vecchio e nuovo, la circolarità degli scambi. È l’idea, insomma, della continuità quella che tende a riemergere in primo piano, al di sotto della frattura di superficie tra il Medioevo che finisce e l’età moderna che iniziava a muovere i suoi primi passi; l’idea di un legame che scavalca la linea di frattura e ingloba il nuovo che cominciava ad affacciarsi – e che certamente avrebbe in seguito assunto contorni sempre più autonomi e distintivi – tenendolo unito a un antico che continuava a resistere come patrimonio genetico di fondo, formando la trama su cui l’edificio della modernità ha modellato il suo impianto.

 

Il potere avvolgente della religione

Vorrei cercare di addentrarmi nella documentazione di questa prospettiva soffermandomi su uno dei fili più significativi della continuità che ha attraversato il Rinascimento europeo. Questo filo che voglio seguire più da vicino è il filo della continuità culturale: parlo di cultura in senso ampio, totalizzante, cultura intesa non solo come sapere intellettuale, ma come coscienza dell’uomo che vive nel mondo, che ricomprende anche la sua mentalità, i sentimenti, l’insieme delle credenze e delle convinzioni più profonde. La cultura come concezione di sé, come rete di significati a cui si lega il destino dell’individuo e attorno ai quali si costruisce l’ordine totale della realtà in cui l’individuo è immerso.

Dove si mostra la continuità della cultura che ha costituito l’anima profonda della prima modernità, della modernità (tutta relativa!) del ’400, del ’500, dei primi inizi dell’Antico Regime? Si mostra soprattutto nella persistenza della religione come piattaforma di una cultura condivisa, compartecipata, resa cemento dei grandi corpi sociali che abbracciavano gli individui. La religione scandiva lo scorrere del tempo e dominava la visione della storia, dai suoi inizi più remoti fino allo sbocco escatologico atteso come approdo inevitabile. E in analogia con la realtà universale del cosmo, era l’unico sfondo che si poteva immaginare seriamente adeguato per l’esistenza di ogni singolo uomo, dal suo primo emergere fino alla sua fine, che poi non era una fine ma un passaggio, con il quale si transitava nel mondo così vicino e affollato di presenze familiari quale era l’aldilà disegnato dalla tradizione ebraico-cristiana.

Certo questa continuità è più facilmente documentabile a livello popolare, di semplice mentalità collettiva agganciata ai riti, alle pratiche abitudinarie, ai meccanismi d’imitazione del conformismo (torneremo più avanti su questo punto per sottolinearne il peso comunque decisivo). Ma anche a un livello meno scontato (e su cui molto più delicato, per le gravi implicazioni interpretative che vi sono messe in gioco, è il giudizio) si può riconoscere la permanenza di una eredità religiosa che ha costituito il nodo con il quale la cultura della modernità ha dovuto continuare a fare i conti anche ai piani più elevati del suo edificio, anche al livello della cultura riflessa, sistematizzata in pensiero, tradotta in un corpo di saperi elaborati intellettualmente e travasati nei testi, nell’insegnamento delle scuole; testi e saperi che proprio all’inizio dell’età moderna hanno visto spalancarsi davanti a sé l’inedita forza di penetrazione consentita dalla stampa, quella rivoluzione silenziosa, come la si è voluta enfaticamente definire, che la cultura cristiana medievale non aveva fatto in tempo a conoscere (Eisenstein, 1986).

Già introducendo il discorso si è alluso al fatto che l’idea tradizionale del Rinascimento come rinascita del paganesimo antico (Warburg, 1980), l’idea della rivolta umanistica contro la teologia cristiana e la sua concezione antropologica oggi è largamente erosa, e nonostante le forti resistenze dei suoi a volte inconsapevoli sostenitori (sia nostalgici burckhardtiani, sia antiburckhardtiani radicali, che polemizzano contro la liquidazione laicista del Medioevo cristiano semplicemente capovolgendone i termini di polarità valutativa) quello schema interpretativo risulta sempre più difficilmente sostenibile: intendo sul piano di un sapere storico fondato su prove, argomentato in termini di aderenza realistica alla fisionomia globale del suo oggetto. Vorrei proporre due o tre esempi per chiarire la tesi formulata della continuità del cemento cristiano come polo centrale di organizzazione della cultura dotta del Rinascimento. Lo scopo è solo quello di introdurre a una conoscenza più ravvicinata del tema in discussione, muovendo dalle aperture più significative della ricerca contemporanea.

Pensiamo, per prima cosa, al rapporto con l’antico, che è forse l’aspetto più caratteristico di tutto il movimento umanistico e rinascimentale. Il Rinascimento si chiama così innanzitutto perché è stato visto come l’opera di riciclaggio della cultura degli antichi pagani. È stato il tentativo di ricostruire un ponte di più diretto collegamento con la cultura dei primi fondatori dei paradigmi della tradizione, riabilitata nel prestigio e resa di nuovo eloquente reimmettendo nei canali moderni della circolazione del sapere le loro opere scritte. Opere che, a questo scopo, i primi umanisti andavano a scovare girovagando da una biblioteca all’altra, da un monastero all’altro di tutta Europa, per dissotterrare quei tesori nascosti e a volte completamente dimenticati; per riscoprire testi, o parti di libri, anche dei più illustri autori, da Cicerone, Tacito in giù, che dovevano tornare alla vita diventando nuovamente fruibili per gli usi di un pubblico il più possibile dilatato. Lo strumento di questa resurrezione degli antichi è stato il decollo della filologia moderna, rifluita poi nelle tecniche di edizione a stampa innanzitutto dei testi normativi delle auctoritates che dominavano i diversi rami della pianta del sapere. Ma l’arma della filologia non è stata solo un grimaldello eversivo per ridare attualità ai canoni della classicità precristiana. Gli stessi strumenti utilizzati dagli umanisti che lavoravano sulle fonti latine e greche del pensiero  occidentale, simultaneamente, e a volte dagli stessi uomini, sono stati utilizzati nell’età del Rinascimento per ripristinare un rapporto altrettanto vitale con i testi fondanti della tradizione religiosa del cristianesimo, con i codici di base del cristianesimo delle origini. Anche la Bibbia, il corpus della letteratura patristica, greca e latina, dovevano essere restaurati, riportati alla loro forma autentica, rimessi in circolazione attraverso edizioni, traduzioni, stampe commentate, rielaborazioni applicative. Sono imponenti, e nella sostanza inseparabili dal loro risvolto più marcatamente profano, nel campo storico, erudito, filosofico, matematico-scientifico, enciclopedico in senso lato, le dimensioni di questa filologia cristiana a tutti gli effetti, intorno alla quale si è profilato un ricco e fecondo Umanesimo devoto, di cui uno dei grandi campioni rappresentativi è la ben nota figura di Erasmo. Un Erasmo che, però, non è di sicuro riducibile a una eccezione anomala, e il cui successivo ridimensionamento controriformistico è tutto da precisare nei suoi veri contorni.

La filosofia rinascimentale è nel suo insieme un campo che è stato al centro di indagini di grande impegno nell’ultimo Novecento, in particolare ad opera di studiosi stranieri [ricordo almeno il nome di Paul Oskar Kristeller (1953, 1974, 1979)] (1), che su questi temi ha scritto cose memorabili, purtroppo ancora scarsamente tradotte e poco conosciute nel largo pubblico dei non specialisti, o l’ancora meno frequentato Charles Trinkaus (1995) (O’Malley, 1979 e 1981; O’Malley, Izbicki & Christianson, 1993). Emerge in primo piano il dato che il discorso della tradizione filosofica, nelle sue varie sfaccettature, è tutto attraversato dall’osmosi cordialmente costruttiva con l’immagine religiosa dell’uomo e del cosmo, tranne che in quelle che possiamo definire le crepe marginali ed eccentriche che potevano aprirsi nell’edificio del sapere comune. Ma questi punti isolati di frizione, questi interrogativi che stentavano a trovare soluzione nel contesto della ricerca su basi puramente filosofiche, sulla base della ragione umana (la doppia conoscenza, scienza e fede, l’immortalità dell’anima, l’origine del commercio sociale e la fonte del potere), non possono essere forzati interpretandoli, finalisticamente, come la prefigurazione dell’esito secolarizzato, puramente naturalistico, di un mondo e di una realtà umana immaginati indipendenti e separati dalla realtà del Dio creatore e dalla redenzione cristiana. L’esito scettico e antimetafisico che prenderà forma compiuta a secoli di distanza è un’altra cosa, che va ricostruita nella sua genesi propria e inserita in una linea di sviluppo analiticamente documentata, non di pure analogie formali retrospettive. Le domande inevase e i dubbi della filosofia rinascimentale non sono (già) l’inizio dell’ateismo moderno. Sono problemi di funzionamento all’interno di una logica di pensiero ancora molto diversa, che muoveva i suoi incerti passi anche verso la configurazione di un campo filosofico che cominciava a distinguersi (e non è, di per sé, segno solo riprovevole di cedimento, ma di passaggio a una forma più moderna e specializzata di sapere) dal campo strettamente teologico fondato sulla parola rivelata. Il tessuto generale dell’argomentazione filosofica restava strutturalmente compenetrato dai contenuti della tradizione religiosa. Dentro di questo, le aporie sollevate segnalavano il limite delle risorse della ragione filosofica, che per articolarsi nel suo spessore non aveva affatto bisogno di spalancare la porta alla forza corrosiva del laicismo moderno. Laicismo che certamente a un certo punto prenderà piede, ma che non ha preso piede, non ha cominciato a modellarsi in termini realmente significativi nel cuore del Rinascimento. Se noi spostassimo l’analisi sul versante della rappresentazione fisica del mondo esistente, pilastro della filosofia naturale, ci troveremmo ugualmente davanti alla persistenza di una immagine dell’universo cristianizzato e geocentrico, in chiave di dipendenza divina, che è stata scartata – come ha mirabilmente mostrato Lewis (1990) – solo molto al di là del primo annuncio della rivoluzione copernicana.

Quello che valeva sul piano cosmologico, valeva ancora prima – è il terzo esempio – sul piano della concezione della società umana e della natura della politica. Nelle sbrigative convenzioni del sapere comune dei nostri giorni, noi tendiamo a ingigantire la novità introdotta dalle teorie politiche rinascimentali, collegandola soprattutto al genio profetico di Machiavelli, il grande precursore su cui poi si sarebbe innestato l’apporto di Hobbes, ripreso alla fine dall’illuminismo: la magica triade da cui sarebbe scaturita la nascita della politica moderna. Dove stava la modernità di questa linea di pensiero? Nella scoperta dell’autonomia della politica, cioè nella separazione tra la politica e la religione, la politica e l’etica, che mirava a spiegare in termini disincantati, puramente politici, i meccanismi di formazione e di mantenimento del potere, per subordinare la politica a un fine che restava intrinseco alla politica stessa, immaginata come l’arte del dominio in sé legittimo, che non doveva rendere conto a nessun tribunale esterno. Solo che questa visione che enfatizza, di nuovo, la frattura, lo sganciamento emancipatore dal retroterra morale cristiano, è tragicamente anacronistica. Si scontra con una serie di dati di fatto di una evidenza macroscopica, che ci indicano come Machiavelli è stato, invece, rifiutato dagli uomini del suo tempo. È diventato l’eretico del pensiero politico del Rinascimento e dell’età moderna, colui che è stato messo al bando e contro il quale si è polemicamente costruita la dottrina politica moderna, la dottrina della ragione di stato, il pensiero politico della seconda scolastica di matrice gesuitica e almeno la prima ondata della teoria politica di matrice laica, di cui Bodin in Francia è stato uno degli antesignani. La riflessione moderna sul mondo della politica è dominata dall’antimachiavellismo, cioè dal bisogno di ristabilire la simbiosi strutturale che doveva legare la politica a una finalità che scavalcava la politica stessa, subordinandola a un fine morale superiore (Bireley, 1990). Al centro di pressoché tutti i trattati politici del tardo ’500 e del ’600, in terra protestante come in ambiente cattolico, non c’è il principe di Machiavelli, ma il principe cristiano, che è sottoposto a una gamma preordinata di doveri, che deve improntare la propria condotta a un codice di virtù con il quale è chiamato costantemente a paragonarsi, come in uno specchio da cui trarre la propria fisionomia ideale, e a partire dal quale la collettività della respublica, il corpo generale della società cristiana, poteva sottoporre a giudizio il comportamento dei massimi detentori di autorità. L’età moderna, infatti, non ha per nulla conosciuto il vero assolutismo, la politica sganciata da ogni freno di limitazione (e di compartecipazione) dal basso. Il potere sciolto dal controllo sociale, senza contratto, è un’invenzione della modernità estrema, che ha portato ai totalitarismi della storia più recente o al massimo si è prefigurato, se vogliamo, in alcuni aspetti della vita dei potenti stati nazionali dell’Europa ottocentesca. Ma l’assolutismo come metodo perseguito di governo è rimasto estraneo alle deboli monarchie della Spagna, della Francia o dei piccoli stati italiani del ’500 o del ’600. L’assolutismo è un altro dei miti negativi alimentati da una visione progressista della storia che ha bisogno di legittimarsi proiettando il male all’indietro nel tempo e immaginando la catena storica come una evoluzione che porta inesorabilmente al trionfo del meglio possibile. Studiare finalmente in modo serio la storia delle dottrine politiche dell’Europa cattolica e anche di quella protestante del ’500 e del ’600 è un lavoro di grandissimo interesse, destinato a riservare sorprese notevoli, che culminano nella scoperta della forte tenuta di una visione etica della politica perlomeno fino agli inizi del ’700. Si può individuare nel trattato di Ludovico Antonio Muratori (1996) sulla pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi apparso già nel ’700 avanzato, uno degli ultimi esiti di questo filone filosofico-religioso costruito sul tema della politica, che subordinava la rivendicazione dell’obbedienza non al timore, ma al rispetto della virtù da parte dell’autorità, all’esercizio dell’amore nei confronti dei sudditi e alla ricerca del bene comune, vietando al principe di farsi tiranno teso a inseguire il rafforzamento unilaterale della potenza come bene supremo, cui andava sostituito il modello su base economica della saggia amministrazione, della prudente e giusta tutela della riconciliazione pacifica degli interessi della respublica, di una respublica evidentemente ancora tenuta insieme dal collante della comune etica cristiana. Il dovere più alto del principe cristiano era la protezione del bene religioso dei sudditi, nutrito dall’identità di destino tra la propria sovranità particolare e la coscienza religiosa della massa collettiva dei sudditi, nel contesto di quella sintonia tra religione del principe e religione del suo dominio territoriale (la religio, indistinguibile dalla regio) che ancora si presentava come assetto ideale cui puntare nel cuore dei conflitti politici che hanno segnato lo sviluppo degli stati moderni europei dalla metà del ’500 (pace di Augusta) alle guerre di equilibrio del ’700 (Terni, 1995).

Dalla sfera collettiva della grande politica si può tornare a discendere fino al microcosmo del soggetto umano. L’ultimo esempio che voglio toccare riguarda il tema decisivo della visione antropologica ritenuta tipica della cultura rinascimentale, collegata a una esaltazione unilaterale della dignità autonoma dell’uomo che avrebbe costituito uno dei piani inclinati scivolando lungo i quali il Rinascimento avrebbe posto mano all’iniziale sgretolamento del primato teologico trasmesso dalla tradizione religiosa medievale. Ma, chiediamoci, la valutazione positiva della dignità dell’uomo è veramente antitetica rispetto all’antropologia del pensiero cristiano, sviluppato in maniera coerente a partire dalle sue premesse bibliche e alla luce della sua più intima coscienza originaria? (Santi, 1996). Basta leggere in presa diretta il De hominis dignitate di Pico della Mirandola (1486) per pronunciarsi sul fatto se esso sia già un primo manifesto dell’antropocentrismo laico della modernità matura, o qualcosa di diverso. Segnalo intanto che gli studiosi che hanno indagato sulla predicazione tenuta, al vertice più eminente della cristianità del XV secolo, nella cerchia della corte papale, vi hanno evidenziato la presenza di una costante attenzione al tema della dignità dell’uomo, soprattutto sulla falsariga dei commenti dedicati ai primi capitoli della Genesi, al racconto della creazione del mondo e della nascita dell’uomo, a Sua immagine e somiglianza. Nella letteratura patristica, l’idea che la gloria di Dio si riflette nel sigillo dell’uomo vivente è una affermazione che dovremmo subito congiungere con il profilo della cristologia e della stessa escatologia della resurrezione della carne, come cercheremo di chiarire tra poco. Sono prospettive a ben vedere vertiginose, che affondano le loro radici già nel patrimonio veterotestamentario dei salmi, il cuore della grande preghiera cristiana dall’inizio del monachesimo fino a oggi. La visione che ne emerge è incontrovertibile e resiste a ogni tentazione di evasione pessimistica, antimondana, in senso gnostico e dualistico. Prendiamo per esempio il salmo 8. Senza dubbio ci troviamo di fronte, nei versi di inizio, a una esaltazione della gloria incommensurabile di Dio, di fronte alla quale l’uomo in un primo tempo sembra come annichilire, ridursi a una briciola, a un niente che sprofonda nella totalità dell’universo creato:  

O Signore, nostro Dio,/ quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:/ sopra i cieli [sopra i cieli che avvolgevano da ogni lato l’universo degli antichi] s’innalza la tua magnificenza./ […] Se guardo il tuo cielo, opera della tue dita,/ la luna e le stelle che tu hai fissate,/ che cosa è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi? (Salmi 8, I-V)

 

Ma subito il dettato della poesia biblica si capovolge nel contrario della sua tensione tirata fino al paradosso: Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,/ di gloria e di onore l’hai coronato:/ gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto sotto ai suoi piedi…Anche senza attendere quello che è stato definito lo spregiudicato umanesimo della Scolastica del XIII secolo (quando il Rinascimento era ancora lontano dal profilarsi all’orizzonte), basta passare ad altri testi cruciali come il salmo 138 per ritrovarsi nel medesimo vortice di folgorazioni fondate sull’abbraccio dell’immensamente oltre con l’insignificante esiguo che trasuda un valore assolutamente unico nel segno della sua apparente evanescenza: Sei Tu che hai creato le mie viscere / e mi hai tessuto nel seno di mia madre./ Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/ sono stupende le tue opere,/ Tu mi conosci fino in fondo (Salmi 138, XIII – XIV).

La dignità dell’uomo pensata in ottica biblica e cristiana ha preso forma all’interno della grande visione della realtà come cosa creata dall’amore espansivo di Dio, e non è stata certo smentita dalla costruzione architettonica della dottrina medievale. La stessa elevazione della figura umana a soggetto rappresentabile della tradizione iconografica dell’Occidente, applicata anche alla riproduzione visiva della santità e, al suo vertice supremo, delle prime due persone della comunione trinitaria e spinta verso la ricerca del massimo realismo mimetico con la svolta artistica che prelude alla fioritura del Rinascimento, conferma la perfetta compatibilità della statura dell’uomo con i contenuti fondanti della più ortodossa tradizione teologica. La pittura sacra del Rinascimento non ha fatto che portare alle estreme conseguenze questo antico connubio, fino all’esplosione di energia creativa che si riscontra nell’arte di un Michelangelo, profondamente ispirata sul piano religioso e nello stesso tempo basata sulla riproduzione dei canoni di bellezza dell’antico. È del resto altamente significativo che Michelangelo viva proprio a cavallo dei due mondi che abbiamo cercato di mettere in rapporto fra loro, nascendo nei dintorni della fine che attribuiamo per convenzione al Medioevo e concludendo la sua esistenza alla metà del ’500, dopo che si erano già manifestati molti dei fenomeni oggi ritenuti tipici del primo ingresso nella modernità (1475-1564).

Un’icona ormai universalmente classica come l’immagine della creazione dell’uomo sulla volta della Sistina sintetizza emblematicamente la possibilità di una valutazione positiva della forma umana, almeno come identità originaria e come destino, messa in accordo con la grandezza della statura del Dio creatore, viste non come due realtà antitetiche che si contraddicono, ma come i due poli di un’unica catena di corrispondenze. Dal fondamento della parentela strutturale con il divino, violata nella realtà della storia umana dal peccato, si sprigiona un legame, una vicenda millenaria di alleanza tra Dio e l’uomo che si conclude nell’iniziativa per cui il Dio cristiano si trova nella condizione di uscire dalla sua lontananza celeste e di abbassarsi per assumere la nostra carne terrena, facendosi in tutto come noi. La creazione si completa nell’incarnazione, che riapre a sua volta la possibilità della salvezza piena e totale della persona vivente, ed è per questo (per il fatto che non soltanto la carne dell’uomo è stata creata a immagine di Dio, ma Dio stesso l’ha fatta propria e l’ha redenta, risanandola) che nell’arte rinascimentale si instaura l’esaltazione della forma umana di Cristo, la rappresentazione di Cristo come uomo perfetto,  raffigurato nella totalità dei suoi caratteri più materialmente corporei, senza omissione neppure dei tratti della sua mascolinità. Nell’arte religiosa rinascimentale, è stato notato in particolare dagli studi di Leo Steinberg (1996), affiora una consuetudine iconografica che a noi può sembrare, nella migliore delle ipotesi, persino ingenua: il tema della sessualità di Cristo, cioè della rappresentazione del Cristo crocifisso, o del Cristo Bambino nel presepio, in cui non sono censurati i tratti della sua più appariscente fisicità (maschile). Ci si sentiva religiosamente in dovere di raffigurare Cristo come uomo intero, nell’integrità riconoscibile di tutti i suoi connotati, con una naturalezza che solo più tardi comincerà a fare problema, sollevando l’esigenza di una circospezione ben più timorosamente discreta, in pratica di una banalizzazione evasiva fondata su uno standard innalzato di pudore, simile a quello che già incitava i curiali della prima Controriforma romana a premere per far coprire i nudi,  ugualmente michelangioleschi, del Giudizio Universale.

 

La forza della tradizione come fermento

Voglio concludere la serie degli esempi indicati per sottolineare la centralità del fulcro cristiano della cultura rinascimentale proponendo alcune righe di uno dei massimi studiosi di storia del ’900. È anche questo un brano molto famoso, un classico di una portata simile a quella del testo di Burckhardt (1984) da cui siamo partiti, ma che si colloca agli antipodi dell’interpretazione burckhardtiana più coerente. Cento anni dopo la comparsa del libro che ha divulgato l’idea moderna di Rinascimento, vi troviamo suggerito un modo ribaltato e ben più convincente, che oggi possiamo avvertire molto più aperto e realistico, di guardare alla dimensione religiosa della società rinascimentale. 

Infatti, che lo vogliamo o no, oggi il clima delle nostre società occidentali è sempre, profondamente, un clima cristiano [gli esperti di diritto che hanno il compito di redigere le nostre costituzioni non sempre dimostrano di esserne consapevoli]. Un tempo, nel secolo XVI, a maggior ragione [non si parla del Medioevo, vorrei sottolineare, ma proprio del secolo del Rinascimento], il cristianesimo era l’aria stessa che si respirava in quella che noi chiamiamo l’Europa e che era la cristianità. Era l’atmosfera in cui l’uomo viveva la sua vita, tutta la sua vita; e non solo la sua vita intellettuale, ma la sua vita privata coi suoi gesti molteplici, la sua vita pubblica con le sue occupazioni diverse, la sua vita professionale quale che ne fosse l’ambito. Il tutto automaticamente, in qualche modo, fatalmente, indipendentemente da ogni volontà espressa di essere credente, di essere cattolico, di accettare o di praticare la propria religione. Perché oggi si sceglie: di essere cristiani o no. Nel secolo XVI, nessuna scelta. Si era cristiani di fatto. Si poteva vagabondare nel pensiero lontani da Cristo: giochi d’immaginazione, senza supporto vivente di realtà. Ma non si poteva neppure astenersi dal praticare. Lo si volesse o no, ci se ne rendesse chiaramente conto o no, ci si trovava immersi fin dalla nascita in un bagno di cristianesimo da cui non si evadeva neppure alla morte: perché quella morte era cristiana necessariamente, socialmente, attraverso i riti ai quali nessuno poteva sottrarsi, anche se era in rivolta di fronte alla morte, anche se aveva scherzato e fatto il burlone nei suoi ultimi istanti. Dalla nascita alla morte, si tendeva tutta una catena  di cerimonie, di tradizioni, di costumi, di pratiche, che essendo tutte cristiane o cristianizzate, legavano l’uomo [aggiungerei un “anche”, esalterei il paradosso di questa formulazione] suo malgrado, lo tenevano schiavo anche se lui si pretendeva libero. (Febvre, 1978, p. 322)

 

L’autore di questo brano non è un devoto professore cattolico di qualche oscura università pontificia, ma Lucien Febvre. Siamo davanti a una pagina del suo ineguagliato e pur discusso libro su Il problema dell’incredulità nel secolo XVI , che costituisce ancora oggi un valido punto di partenza per una esplorazione ideologicamente non prevenuta su questi temi. Si può anche postillare ulteriormente la proposta di metodo di Febvre. Facendolo, abbiamo modo di accennare a un ultimo aspetto importante, veramente fondamentale, senza il quale il discorso fin qui svolto rimarrebbe amputato di una parte decisiva dei suoi significati.

Abbiamo parlato di continuità, o di centralità della tradizione religiosa, di impianto cristiano della visione del mondo che invadeva anche i piani della cultura più agguerrita e meglio attrezzata, più immediatamente disponibile all’innovazione e alla messa in discussione della codificazione teologica ereditata dal passato. Però è decisivo mettere bene a fuoco che quando parliamo di continuità della tradizione, quando isoliamo il lato cristiano del Rinascimento e lasciamo intendere che il Rinascimento è stato anche un Rinascimento cristiano, non vogliamo semplicemente alludere alla forza d’inerzia di una forma culturale che si disponeva come un freno al cambiamento, imbrigliando le potenzialità nuove di sviluppo e di elaborazione nelle reti di un sistema tendente, come tutti i sistemi consolidati, alla ripetizione dei suoi schemi condivisi. Si può parlare di vera continuità, perché questa tradizione nutrita dal dogma cristiano, nel momento in cui è aperta alle sfide dell’età moderna, si è ridiscussa, ha ridefinito il proprio assetto, è entrata in dialogo con i linguaggi della cultura degli uomini del tempo appropriandosi delle loro tecniche, dei loro strumenti, tentando di rispondere alle domande imposte dalla situazione nuova che stava prendendo a delinearsi. La tradizione non era una tradizione congelata. Era una tradizione che si è rigenerata al suo interno, come un corpo vivente.

La vitalità della tradizione religiosa nel cuore della prima età moderna si impone nel fatto che questa è stata l’età delle grandi riforme del cristianesimo, l’età in cui il cristianesimo medievale si è riorganizzato nei suoi quadri e ha prodotto dal suo tronco il fenomeno di un cristianesimo rinnovato. Reinventando se stessa, la religione non si è adattata per sopravvivere. Si è travasata in una nuova cristianizzazione dell’Europa, in una nuova grande ondata di cristianizzazione, animata dalla ciclopica ‘utopia’ missionaria di voler rendere più cristiana la vita dell’intera società europea. Questa energia riformatrice è un fatto storico oggettivo. È la grande ondata di risveglio della presenza della Chiesa nel mondo, che si è incanalata nei due binari principali della riforma protestante nel cuore dell’Europa continentale e nel parallelo fenomeno della riforma cattolica, o Controriforma, in quella rinascita del cattolicesimo romano (e prevalentemente mediterraneo) che è maturata già prima e indipendentemente dall’altra, che non è stata semplicemente una reazione difensiva, trovando impulso proprio a partire dagli anni di Erasmo, di Savonarola e Michelangelo e rafforzandosi nel corso del ’500 (Ditchfield, 2005).

Mi pare evidente che non si possano spiegare le riforme conosciute dalla cristianità europea a partire dal ’500 senza fare i conti con quella vitalità robusta della sua tradizione più originale di cui abbiamo ragionato. Ritorna in primo piano, di nuovo, la continuità sostanziale di un humus ricco di fermenti che hanno costituito uno dei grandi motori propulsivi intorno ai quali si è modellato il destino della modernità. Naturalmente non c’è qui lo spazio per descrivere anche solo sommariamente cosa sono state le due riforme. Accennerò almeno alla fecondità creativa della riforma cattolica nell’intera cornice della cristianità europea (e non solo tale). Pensiamo alla fioritura incredibile di nuovi santi, alla forza di contagio dei leader carismatici diventati capaci di lanciare nuovi messaggi, di raccogliere intorno a sé seguaci, gruppi di fedeli, di dare vita a movimenti, associazioni, confraternite, opere caritative, opere educative, come gli orfanotrofi, le scuole di catechismo, i seminari per la formazione dei preti. Ho citato realtà che in molti luoghi sono state impiantate solo nel cuore della riforma cattolica del ’500. Che spesso prima non esistevano per nulla, segnale di un dinamismo potente che per la prima volta, inoltre – ed è questo un altro punto veramente decisivo –, si proietta in una dimensione mondiale, rompendo gli argini della cristianità medievale chiusa nei suoi bastioni dell’Occidente europeo, cominciando ora a spalancarsi alla totalità del mondo conosciuto. Le esplorazioni geografiche e i contatti intensificati con i territori extraeuropei, dalla seconda metà del ’400 in poi, hanno aperto i varchi attraverso i quali i missionari degli ordini religiosi della Controriforma, gesuiti, cappuccini, francescani, hanno potuto lasciare le loro terre di origine per tentare l’impresa ardita, tante volte anche a costo della vita, con un prezzo altissimo di martirio, per ripiantare il cristianesimo latino dentro le realtà di mondi che con l’Occidente non avevano avuto fino al recente passato alcun rapporto, o solo intermittenti relazioni di superficie. E bisogna sottolineare qui che la missione del cattolicesimo verso l’esterno (del resto, al pari di quella interna) non si è risolta innanzitutto in una colonizzazione culturale, ma è sfociata nel tentativo di creare una molteplicità di nuovi linguaggi comunicativi dell’unico cristianesimo, resi funzionali alla mentalità, agli stili di cultura e alle consuetudini sociali dei popoli che esistevano fuori dell’Europa, e che l’Europa ha cominciato a rendersi familiari solo a partire dalla prima età moderna. In Cina e in Giappone i missionari gesuiti, quando stamparono i loro libri di devozione illustrati e diffusero le immagini con la figura della Madonna e di Gesù Cristo, non ebbero remore ad attribuire alla Madonna e a Gesù i caratteri somatici dell’uomo orientale. La Madonna prese gli occhi a mandorla o ritrovò la pelle scura attraverso l’opera di propagazione del cristianesimo mondiale. Il cristianesimo cominciò a trasformarsi solo a partire da questo momento nella prima grande religione planetaria (Bailey, 1999) (2).

 

Una vitalità che permane

Chiudo con un’ultima suggestione. Il dinamismo espansivo e riformatore della tradizione religiosa ereditata, sì, dal passato, ma tenuta ancora viva, rilanciata come sostegno per una presenza più incisiva e più capillare del cristianesimo all’interno della realtà del mondo, non è stato neppure un fenomeno di breve durata. È maturato nel cuore dell’età rinascimentale, senza attendere l’entrata in scena di Martin Lutero. Si è sviluppato attraverso le riforme che sono entrate presto in conflitto fra loro, dando vita a chiese e confessioni cristiane contrapposte. Ma poi è andato ugualmente avanti nel tempo; percorre tutta la storia europea fino a coprire quanto meno gran parte del ’600 e in un certo senso anche il primo ’700 non illuminista. Guardando le cose nel loro insieme, si può giungere a sostenere che la creatività del barocco, la fioritura dello stile di civiltà che l’ha nutrito, sono stati forse l’ultimo grande esito in cui si è sedimentata l’energia cristianizzatrice ridestata dal passaggio all’età moderna.

Perché il barocco che cosa è stato, nella sua radice? È stato soprattutto l’arte del cattolicesimo riformulato, della riconquista della Controriforma; l’invenzione di un nuovo linguaggio per ritrasmettere e rendere persuasive, per far trionfare nel mondo le verità della fede cristiana di ogni tempo: una nuova musica, una nuova poesia, una nuova letteratura, un nuovo teatro, un nuovo modo di organizzare il discorso religioso, la predicazione, l’edificazione dei fedeli, l’educazione del popolo cristiano, il rapporto tra i ceti, i corpi sociali e i loro poteri. Il barocco, non a caso, si è sviluppato come fenomeno culturale con un fondo omogeneo, è stata l’ultima grande ondata artistica unitaria e a modo suo coerente dell’Europa cristiana, che ha trovato il suo primo polmone alimentatore proprio nella Roma papale. Roma è stata la grande culla del barocco; Roma come capitale morale della cristianità, alla quale già la cultura del Rinascimento aveva guardato come uno dei suoi fari più potenti di illuminazione. Da Roma la proposta barocca si è diffusa attraverso due canali divergenti: verso nord, raggiungendo Vienna, il mondo asburgico, e da lì poi penetrando nell’Europa centrale dopo la guerra dei Trent’anni, a Praga, in Boemia; dall’altra parte ha portato il suo contagio fino a Madrid ed esportato i propri codici nel mondo iberico, per trapiantare quindi se stessa nel Nuovo Mondo, nelle colonie dell’America del sud, dell’America centrale, della costa indiana, dell’estremo Oriente. Riflettiamo anche solo un attimo sul rilievo eccezionale di questa espansione in senso mondiale dell’arte barocca (Dupront, 2001; Tapié, 1998). Pensiamo alle chiese e agli altari barocchi delle terre messicane e sudamericane (o di Goa, di Macao), che riciclano i modelli di partenza dell’architettura sacra spagnola, portoghese e italiana. Pensiamo alla produzione artistica, esemplarmente ‘meticciata’, degli avamposti missionari più creativi in terra extraeuropea, alla musica prodotta per insegnare a pregare e a celebrare la liturgia agli indios delle reducciones del Paraguay, nelle prime circoscrizioni diocesane del sud America e poi anche al nord, tra huroni e irochesi (musica almeno in parte sopravvissuta fino ai giorni nostri, come quella del gesuita nativo di Prato Domenico Zipoli, in qualche caso riscoperta solo in anni recenti e travasata in CD che sono anche in commercio, che si possono ascoltare o far ascoltare con non minore efficacia di quanto non consenta l’epopea cinematografica di Mission…) (Oltre l’Occidente, 2003).

La diffusione in prospettiva mondiale del codice artistico europeo, di matrice cattolica e barocca, mi sembra il segno più tangibile della capacità espansiva e assimilatrice della costruzione culturale cristiana della prima età moderna, che ci consente di parlare di questa prima fase dell’età moderna non come il prodromo della fine della cristianità, ma come il momento di decollo di un nuovo modello di cristianità, o come abbiamo detto di una ricristianizzazione della cristianità tradizionale europea. Di nuovo Lucien Febvre (1999), in un libro altrettanto suggestivo quanto quello sulla (non) incredulità del secolo XVI che ho citato prima – un corso universitario sul processo di formazione dell’Europa – sottolinea il fatto che solo nel ’700 andò in crisi l’abitudine di chiamare cristianità l’intera realtà materiale del mondo europeo, spingendo a sostituire l’antica etichetta religiosa fino ad allora in uso con le nuove formule vincenti di un linguaggio politico che si avviava a farsi sostanzialmente laicizzato, come umanitá, com la stessa parola Europa. E solo da allora l’Europa cominciò a diventare veramente l’Europa che conosciamo, cioè un’entità puramente geografica e politica, una comunità di stati che condividono (o dovrebbero condividere) un patrimonio di regole comuni, un identico stile di civiltà, a prescindere dalla varietà delle fedi e delle ideologie. Ma questo è stato il frutto di una metamorfosi maturata molto più avanti nel tempo, rispetto all’età di Michelangelo – di sant’Ignazio di Loyola, di san Carlo Borromeo, e su un altro fronte della barricata di Lutero e Calvino –, che ha sottoposto a torsione e piegato in una direzione nuova l’eredità trasmessa dai costruttori delle due grandi riforme del cristianesimo postmedievale.

 

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Note

(1) Kristeller, 1953 (El mito del ateísmo renacentista y la tradición francesa del librepensamiento) è stato tradoto con lievi varianti in inglese (Journal of the history of philosophy, VI, 1968, pp. 233-243) e francese (Bibliothèque d’Humanisme et Rénaissance, XXXVII, 1975, pp. 337-348); si noti la mancanza di traduzione italiana.

(2) Cf. anche i materiali riuniti nel fascicolo monografico: Oltre l’Occidente. Europa, missione, colonialismo (2003), Linea tempo: Itinerari di ricerca storica e letteraria, VII, 1.

 

Nota al riguardo dell’autore

Danilo Zardin è laureato in Filosofia e Professore Ordinario di Storia Moderna presso l´Istituto di Storia Moderna e Contemporanea dell´Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia. Contatto: danilo.zardin@unicatt.it.

 

Data de recebimento: 13/01/2006
Data de aceite: 30/10/2007

Memorandum 12, abril/2007
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP

ISSN 1676-1669
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/zardin02.htm

 

 

 

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