Rinascimento contro Medioevo?
L’idea della genesi della modernità appare ancora ai giorni
nostri collegata all’idea della frattura: davanti a qualcosa che finisce,
a un mondo che entra in declino e si frantuma (l’autunno del Medioevo,
come l’ha chiamato un grande storico olandese del secolo scorso,
Huizinga(1995)), il moderno si configura come una novità che si afferma
entrando in lotta con quello che c’era prima, sottraendogli il terreno,
distruggendolo. Viene per lo più concepito come antitesi del non-moderno,
come rivolta contro il Medioevo: l’inizio della modernità, infatti,
viene identificato con la fioritura prodigiosa del Rinascimento, il
Rinascimento «tutto porpora e oro», come l’ha chiamato sempre Huizinga,
trionfo di una nuova cultura in espansione e creatrice di progresso.
Ma questa idea dell’inizio della modernità come rottura, come
Rinascimento, appunto, quando si è codificata e cosa implica?
Come ha fatto a prendere forma?
Certo alcuni elementi di questa percezione storica li hanno
prodotti, condividendone i presupposti, gli stessi uomini dell’élite
culturale e politica che è stata protagonista della fuoriuscita dal
mondo preesistente. Ma lo schema di pensiero si è consolidato ed è
diventato lo scheletro portante di una spiegazione dotata di forza
diffusamente persuasiva solo in un passaggio molto più vicino a noi, a
partire dall’800.
Possiamo dire che ciò è avvenuto perché l’800 è stato
l’inizio di un altro grande nuovo ciclo di sviluppo all’interno della
storia dell’uomo europeo, speculare e immaginato in continuità con
quello che avrebbe segnato la fine del mondo premoderno in seguito alla
svolta dell’Umanesimo. L’Europa della Restaurazione, uscita dalla crisi
dell’Antico Regime, è stata l’epoca della decisiva affermazione dei
grandi stati nazionali, del primo emergere di una economia compiutamente
moderna, l’inizio di un enorme decollo tecnologico, di un generalizzato
progresso anche materiale della società. Era l’inizio di un mondo nuovo,
che aveva bisogno di definire la sua identità, di giustificare la sua
pretesa di costituire il vertice di una catena di vicende storiche che
lo avevano preparato nel corso del tempo. Un’Europa nuova, l’Europa
della borghesia in ascesa, di una cultura laica, efficientista,
razionalizzatrice, che ambiva ad entrare in una competizione sempre più
energica con la cultura della tradizione, era inevitabilmente spinta a
ricostruire in modo nuovo il passato, in funzione del proprio presente.
È in questo momento che si impone la reinterpretazione moderna della
storia della cultura europea, fondata su uno schema dualistico che viene
radicalizzato: da una parte il Medioevo concepito come l’età della
barbarie, dominio del negativo e del primitivo, dall’altra l’esaltazione
trionfalista del Rinascimento come primo abbozzo della modernità
destinata a dispiegare pienamente tutte le sue premesse nella nuova
Europa nata dalla Rivoluzione francese, a seguito dell’abbattimento
dell’Antico Regime.
Certo questa visione dualistica dell’inizio della modernità
non è stata inventata dal niente. Già in alcuni ambienti culturali
dell’Umanesimo, dell’alta cultura filosofica ed erudita del primo
Rinascimento – come abbiamo suggerito – erano emersi i primi accenni di
una idea che implicava la sensazione di doversi ridestare da un lungo
letargo per introdursi in un’età nuova che cominciava a profilarsi.
Poi soprattutto nel ’700, nella grande crisi della coscienza europea
spinta a maturazione dagli apporti dell’illuminismo, per esempio
attraverso gli scritti storici di Voltaire o di Condorcet, si sono
definitivamente perfezionati i presupposti del rifiuto polemico del
Medioevo, in funzione di una visione antinomica della nascita della
modernità che presupponeva, del resto, la parallela invenzione di
un Medioevo concepito come un tutto organico e coerente fino a una
precisa soglia cronologica (idea a sua volta attestata, si ricordi, solo
a partire dalla fine del ’600).
È questo
un aspetto che anche Marc Bloch (1978) richiama in un passaggio della
sua celebre Apologia del mestiere di storico (pp.
152-154).
Secondo
Bloch, gli spunti di giudizio elaborati dalla cultura illuminista nella
sua polemica contro la tradizione furono raccolti e sistemati nel modo
narrativamente più efficace, nell’ambito francese, da un esponente di
punta della storiografia destinata ad affermarsi all’indomani della
Rivoluzione: Jules Michelet.
Bloch anticipava qui
una tesi cara al suo compagno di avventura Lucien Febvre (1976) (come si
sa, un altro dei grandi ri-fondatori della nostra storiografia moderna),
autore di un brillante articolo sulla paternità dell’idea moderna di
Rinascimento: Come Jules Michelet inventò il Rinascimento (il
Rinascimento con la R maiuscola, diceva Bloch, inteso come epoca storica
unitaria successiva a un’altra epoca storica di segno diametralmente
opposto). Con Michelet (1798-1874), siamo già traghettati dagli ideali
politico-culturali dell’Europa illuminista e rivoluzionaria nel cuore
della cultura ottocentesca. Ed è in questo contesto, come dicevamo, che
l’apologia dualistica della modernità avanzante sotto forma di progresso
si è assestata in uno schema scientifico di interpretazione generale
della storia, che ha conquistato il mondo del sapere storico di tutta
l’Europa colta, a partire dalla sua roccaforte tedesca.
Un ruolo
decisivo in questo processo di risistemazione dei conti con il passato
(e quindi anche di ri-periodizzazione, di nuova etichettatura del
passato medesimo) è concordemente riconosciuto allo storico di origine
svizzera Jacob Burckhardt, che proprio alla metà dell’800 (1860)
pubblicò la sua grande opera di sintesi sulla Civiltà del
Rinascimento in Italia. Il saggio di Burckhardt contiene la più
influente formulazione di quella idea di Rinascimento che ha
condizionato a lungo e in parte continua tuttora a condizionare lo
sviluppo dell’interpretazione storica, sia attraverso la larga ripresa
che è stata fatta delle sue tesi, sia costringendo gli oppositori a
scendere sul terreno imposto dalle categorie di giudizio da essa
implicate.
Apparso in lingua tedesca, il libro venne rapidamente fatto conoscere
negli altri paesi. Fu tradotto nelle maggiori lingue europee e a
distanza di pochi anni anche in italiano. L’insolita fortuna spiega la
vastità dell’influsso esercitato.
La prima
parte dell’opera è dedicata all’esaltazione dello sviluppo dello stato
come opera d’arte: lo stato che si afferma entrando in
competizione con l’assetto pluralistico e frammentato della società
medievale, portandola a un grado più elevato di razionalità e di unità
di organizzazione.
La parte seconda si
concentra, invece, sullo «svolgimento della individualità», cioè sulla
maturazione dell’idea moderna di individuo. Il passo iniziale di questa
parte seconda, diventato memorabile, compendia nella stringatezza di
poche righe la tesi dualistica che sto cercando di ridiscutere
criticamente. Nelle edizioni tuttora in commercio vi si trova affiancato
a margine un titoletto che vale di per sé come un emblema: «Antitesi col
Medioevo». L’«antitesi» è sviluppata in una serie di sentenze lapidarie,
giocate sul filo di una contrapposizione dove stanno da una parte della
barriera le ombre tenebrose, dall’altra le luci della civiltà moderna
che doveva farsi spazio dentro i quadri non più tollerabili dell’assetto
preesistente.
Nel
Medioevo i due lati della coscienza, quello che riflette in sé il mondo
esterno [cioè l’uomo che guarda alla realtà fuori di sé] e quello che
rende l’immagine della vita interna dell’uomo [la coscienza che si volge
su se stessa, l’autocoscienza dell’uomo], se ne stanno avvolti in un
velo comune, come in un sogno o dormiveglia; il velo [che impediva la
visione nitida delle cose, che imprigionava e limitava le capacità di
sviluppo delle risorse umane] era tessuto di fede [intesa qui in senso
deviante, superstiziosamente ingenuo, come una cappa negativa], d’ignoranza
infantile, di vane illusioni.
Veduti attraverso di
esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma
l’uomo [l’individuo, l’autocoscienza che guarda su di sé, che rende
l’interiorità, l’immagine interna dell’uomo] non aveva valore se non
come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una
corporazione [cioè come membro di una aggregazione sociale, e non come
singolo, depositario di diritti e di doveri inviolabili, intorno al
quale si costituisce la società nella nostra prospettiva moderna], di
una razza o di un’altra qualsiasi collettività. L’Italia è la prima a
squarciare questo velo [si vede bene che l’enfasi è sempre posta sulla
rottura, sulla soluzione di continuità] e a considerare e a trattare lo
stato e, in genere, tutte le cose terrene [di nuovo siamo portati sul
primo lato della coscienza] da un punto di vista oggettivo, ma al tempo
stesso [secondo lato, dell’interiorità] si risveglia potente nell’italiano
il sentimento del soggettivo, l’uomo si trasforma nell’individuo
spirituale e come tale si afferma [le sottolineature sono mie] (Burckhardt,
1984, p. 125).
I
cardini intorno a cui ruota la visione burckhardtiana sono ben definiti.
In primo luogo, l’esaltazione di un nuovo modello di individuo,
l’individuo soggettivo, che sta in piedi da solo, cosciente del
valore di sé e del proprio destino. A lui si intende finalizzare
l’ordine della costruzione sociale, non più come avveniva nell’universo
messo sotto contestazione, e questo individuo indipendente, autonomo,
libero, capace di aprirsi al mondo, di andare incontro alla realtà senza
l’ostacolo dei veli che ingombravano la visione e lo tenevano
prigioniero, quest’uomo afferma il proprio ruolo dentro una realtà che
comincia a trasformarsi, che egli diventa in grado di manipolare per
farne un’opera d’arte. L’individuo moderno si qualifica come
soggetto della storia collettiva creando intorno a sé la sostanza nuova
dello stato inteso come ordine disciplinato, come assetto ideale della
società umana: lo stato rinascimentale, che nel libro di Burckhardt
viene descritto nel suo strutturarsi intorno alle figure dei grandi
principi, dei condottieri, degli esponenti di punta della società laica
dell’Italia del tempo.
All’ombra
dell’individuo capace di farsi da sé, l’esaltazione dello stato come
opera d’arte (e quindi come dimensione ideale della convivenza associata),
lo stato dove si afferma, appunto, il potere del principe, il potere
sovrano che ingloba in sé la società subordinata. Questi due elementi
portanti che vengono indicati come i pilastri della modernità avrebbero
poi trovato in Italia il loro teatro primario di elaborazione: l’Italia
del Rinascimento o della prima età moderna viene elevata a prototipo
della modernità.
Sono tutte idee
affascinanti e suggestive. Il libro di Burckhardt è un capolavoro della
letteratura storica. Si legge ancora oggi, viene ristampato e circola
nel mondo delle scuole.
È quel
che si dice un classico. Ma è un classico fortemente datato.
Centocinquant’anni ci separano dalla sua comparsa, e in questi 150 anni
la ricerca storica non è rimasta ferma, non si è limitata
a riprodurre passivamente i clichés di Burckhardt.
All’inizio la sua fortuna è stata dilagante, anche nell’Italia che stava
concludendo la sua esperienza risorgimentale, il suo nuovo
Rinascimento come nazione, e che aveva bisogno, quindi, di dotarsi
di una nuova cultura unitaria, di una nuova interpretazione del suo
passato e di una identità condivisa, e che sulla base di queste doveva
fondare un nuovo sistema di formazione, fino ai suoi vertici
universitari, un nuovo sapere pubblico. Nell’Italia di De Sanctis
e del potere laico della monarchia sabauda le tesi di Burckhardt
incontrarono un’accoglienza cordiale; furono rilanciate, divulgate
attraverso tanti canali, divennero gli assi di riferimento della
ricostruzione della storia letteraria, culturale e artistica, in una
parola del senso della tradizione anche e soprattutto della
nostra civiltà italiana.
Ma progressivamente,
già a pochi anni di distanza dalla pubblicazione del libro di Burckhardt,
cominciarono a emergere anche le voci critiche; presero ad accumularsi
nella ricerca internazionale nuovi materiali informativi, anomalie e
smentite che tendevano a suggerire come non tutto potesse essere fatto
rientrare a perfezione nel quadro di un rigido dualismo impostato sia in
termini cronologici (il Medioevo che finisce, il Rinascimento come età
totalmente nuova), sia geografici (l’Italia come isola felice separata
dal resto dell’Europa, toccata dal destino privilegiato di una fioritura
improvvisa e prodigiosa). Anche l’ultimo Burckhardt sembra che se ne
rendesse consapevole. Le barriere dualistiche di separazione dovevano
essere reinserite in una realtà più complessa e su questa strada si è
avviato un ripensamento che, con il procedere del tempo, soprattutto
nella seconda metà del secolo scorso, ha sollecitato un’ampia
ridiscussione, così che gli elementi messi a fuoco dalla lettura storica
(e dalla sua periodizzazione) sette-ottocentesca sono stati sempre più
massicciamente integrati, fatti interagire con altre sottolineature e
nuove sensibilità di approccio su molti aspetti anche di primario
rilievo.
Oggi
possiamo dire che lo schema burckhardtiano puro è ormai
largamente screditato ai livelli della scienza storica più avanzata.
L’ingresso
nell’età moderna è spiegato facendo ricorso a letture più sofisticate,
molto più sfumate.
Soprattutto è diventato chiaro che l’ingresso nell’età moderna non è
tutto e solo Rinascimento, o almeno non può restare bloccato in
quel Rinascimento che avevano immaginato gli illuministi e gli
intellettuali liberali dell’Europa protestante del nord, dopo la caduta
dell’Antico Regime.
Oggi è diventato più
facile pensare (forse più in altri paesi che non in Italia, soprattutto
nel mondo anglosassone e americano, dove la storiografia è più libera e
sperimentale, meno legata da condizionamenti ideologici e politici) che
l’ingresso nell’età moderna non è l’anti-Medioevo, non è l’uscita già
netta e sistematica dalla non-modernità, ma che la modernità si è
costruita proseguendo, dando sviluppo, correggendo, articolando in modo
diverso gli elementi di un edificio che già esisteva. Alcuni supporti di
questo edificio sono stati rifiutati, o sono caduti lungo il cammino.
Altri, più decisamente nuovi, hanno fatto la loro comparsa, e tutto si è
fuso in una sintesi che lentamente ha dato vita a una formazione storica
originale, a un nuovo ‘sistema del vivere’, riconoscibile come una
specifica forma di civiltà. Una civiltà, un sistema complessivo del
vivere, che però sono apparsi differenziati solo alla conclusione di un
lungo processo, perché la loro fisionomia fu in realtà plasmata sulla
base di una eredità che non fu subito contestata globalmente e rimossa.
Oggi, a fianco delle barriere di rigida demarcazione e degli squarci
che monopolizzavano l’attenzione di Burckhardt e di coloro che si sono
mossi nella medesima scia, si sottolineano i processi di osmosi, la
dialettica a lungo non risolta tra vecchio e nuovo, la circolarità degli
scambi. È l’idea, insomma, della continuità quella che tende
a riemergere in primo piano, al di sotto della frattura di superficie
tra il Medioevo che finisce e l’età moderna che iniziava a muovere i
suoi primi passi; l’idea di un legame che scavalca la linea di frattura
e ingloba il nuovo che cominciava ad affacciarsi – e che certamente
avrebbe in seguito assunto contorni sempre più autonomi e distintivi –
tenendolo unito a un antico che continuava a resistere come patrimonio
genetico di fondo, formando la trama su cui l’edificio della modernità
ha modellato il suo impianto.
Il potere avvolgente della religione
Vorrei
cercare di addentrarmi nella documentazione di questa prospettiva
soffermandomi su uno dei fili più significativi della continuità che ha
attraversato il Rinascimento europeo.
Questo filo che
voglio seguire più da vicino è il filo della continuità culturale: parlo
di cultura in senso ampio, totalizzante, cultura intesa non solo come
sapere intellettuale, ma come coscienza dell’uomo che vive nel mondo,
che ricomprende anche la sua mentalità, i sentimenti, l’insieme delle
credenze e delle convinzioni più profonde. La cultura come concezione di
sé, come rete di significati a cui si lega il destino dell’individuo e
attorno ai quali si costruisce l’ordine totale della realtà in cui
l’individuo è immerso.
Dove si
mostra la continuità della cultura che ha costituito l’anima profonda
della prima modernità, della modernità (tutta relativa!) del
’400, del ’500, dei primi inizi dell’Antico Regime?
Si mostra soprattutto nella persistenza della religione
come piattaforma di una cultura condivisa, compartecipata, resa cemento
dei grandi corpi sociali che abbracciavano gli individui. La religione
scandiva lo scorrere del tempo e dominava la visione della storia, dai
suoi inizi più remoti fino allo sbocco escatologico atteso come approdo
inevitabile. E in analogia con la realtà universale del cosmo, era
l’unico sfondo che si poteva immaginare seriamente adeguato per
l’esistenza di ogni singolo uomo, dal suo primo emergere fino alla sua
fine, che poi non era una fine ma un passaggio, con il quale si
transitava nel mondo così vicino e affollato di presenze familiari quale
era l’aldilà disegnato dalla tradizione ebraico-cristiana.
Certo questa continuità è più facilmente documentabile a
livello popolare, di semplice mentalità collettiva agganciata ai riti,
alle pratiche abitudinarie, ai meccanismi d’imitazione del conformismo (torneremo
più avanti su questo punto per sottolinearne il peso comunque decisivo).
Ma anche a un livello meno scontato (e su cui molto più delicato, per le
gravi implicazioni interpretative che vi sono messe in gioco, è il
giudizio) si può riconoscere la permanenza di una eredità religiosa che
ha costituito il nodo con il quale la cultura della modernità ha dovuto
continuare a fare i conti anche ai piani più elevati del suo edificio,
anche al livello della cultura riflessa, sistematizzata in pensiero,
tradotta in un corpo di saperi elaborati intellettualmente e travasati
nei testi, nell’insegnamento delle scuole; testi e saperi che proprio
all’inizio dell’età moderna hanno visto spalancarsi davanti a sé
l’inedita forza di penetrazione consentita dalla stampa, quella
rivoluzione silenziosa, come la si è voluta enfaticamente definire,
che la cultura cristiana medievale non aveva fatto in tempo a conoscere
(Eisenstein, 1986).
Già
introducendo il discorso si è alluso al fatto che l’idea tradizionale
del Rinascimento come rinascita del paganesimo antico (Warburg,
1980), l’idea della rivolta umanistica contro la teologia cristiana e la
sua concezione antropologica oggi è largamente erosa, e nonostante le
forti resistenze dei suoi a volte inconsapevoli sostenitori (sia
nostalgici burckhardtiani, sia antiburckhardtiani radicali, che
polemizzano contro la liquidazione laicista del Medioevo cristiano
semplicemente capovolgendone i termini di polarità valutativa) quello
schema interpretativo risulta sempre più difficilmente sostenibile:
intendo sul piano di un sapere storico fondato su prove, argomentato in
termini di aderenza realistica alla fisionomia globale del suo oggetto.
Vorrei
proporre due o tre esempi per chiarire la tesi formulata della
continuità del cemento cristiano come polo centrale di organizzazione
della cultura dotta del Rinascimento. Lo scopo è solo quello di
introdurre a una conoscenza più ravvicinata del tema in discussione,
muovendo dalle aperture più significative della ricerca contemporanea.
Pensiamo, per prima cosa, al rapporto con l’antico, che è
forse l’aspetto più caratteristico di tutto il movimento umanistico e
rinascimentale. Il Rinascimento si chiama così innanzitutto perché è
stato visto come l’opera di riciclaggio della cultura degli antichi
pagani. È stato il tentativo di ricostruire un ponte di più diretto
collegamento con la cultura dei primi fondatori dei paradigmi della
tradizione, riabilitata nel prestigio e resa di nuovo eloquente
reimmettendo nei canali moderni della circolazione del sapere le loro
opere scritte. Opere che, a questo scopo, i primi umanisti andavano a
scovare girovagando da una biblioteca all’altra, da un monastero
all’altro di tutta Europa, per dissotterrare quei tesori nascosti e a
volte completamente dimenticati; per riscoprire testi, o parti di libri,
anche dei più illustri autori, da Cicerone, Tacito in giù, che dovevano
tornare alla vita diventando nuovamente fruibili per gli usi di un
pubblico il più possibile dilatato. Lo strumento di questa resurrezione
degli antichi è stato il decollo della filologia moderna, rifluita poi
nelle tecniche di edizione a stampa innanzitutto dei testi normativi
delle auctoritates che dominavano i diversi rami della pianta del
sapere. Ma l’arma della filologia non è stata solo un grimaldello
eversivo per ridare attualità ai canoni della classicità precristiana.
Gli stessi strumenti utilizzati dagli umanisti che lavoravano sulle
fonti latine e greche del pensiero occidentale, simultaneamente, e a
volte dagli stessi uomini, sono stati utilizzati nell’età del
Rinascimento per ripristinare un rapporto altrettanto vitale con i testi
fondanti della tradizione religiosa del cristianesimo, con i codici di
base del cristianesimo delle origini. Anche la Bibbia, il corpus della
letteratura patristica, greca e latina, dovevano essere restaurati,
riportati alla loro forma autentica, rimessi in circolazione attraverso
edizioni, traduzioni, stampe commentate, rielaborazioni applicative.
Sono imponenti, e nella sostanza inseparabili dal loro risvolto più
marcatamente profano, nel campo storico, erudito, filosofico,
matematico-scientifico, enciclopedico in senso lato, le dimensioni di
questa filologia cristiana a tutti gli effetti, intorno alla
quale si è profilato un ricco e fecondo Umanesimo devoto, di cui
uno dei grandi campioni rappresentativi è la ben nota figura di Erasmo.
Un Erasmo che, però, non è di sicuro riducibile a
una eccezione anomala, e il cui successivo ridimensionamento
controriformistico è tutto da precisare nei suoi veri contorni.
La
filosofia rinascimentale è nel suo insieme un campo che è stato al
centro di indagini di grande impegno nell’ultimo Novecento, in
particolare ad opera di studiosi stranieri [ricordo almeno il nome di
Paul Oskar Kristeller (1953, 1974, 1979)] (1), che su questi temi ha
scritto cose memorabili, purtroppo ancora scarsamente tradotte e poco
conosciute nel largo pubblico dei non specialisti, o l’ancora meno
frequentato Charles Trinkaus (1995) (O’Malley, 1979 e 1981; O’Malley,
Izbicki & Christianson, 1993).
Emerge in primo piano
il dato che il discorso della tradizione filosofica, nelle sue varie
sfaccettature, è tutto attraversato dall’osmosi cordialmente costruttiva
con l’immagine religiosa dell’uomo e del cosmo, tranne che in quelle che
possiamo definire le crepe marginali ed eccentriche che potevano aprirsi
nell’edificio del sapere comune. Ma questi punti isolati di frizione,
questi interrogativi che stentavano a trovare soluzione nel contesto
della ricerca su basi puramente filosofiche, sulla base della ragione
umana (la doppia conoscenza, scienza e fede, l’immortalità dell’anima,
l’origine del commercio sociale e la fonte del potere), non possono
essere forzati interpretandoli, finalisticamente, come la prefigurazione
dell’esito secolarizzato, puramente naturalistico, di un mondo e di una
realtà umana immaginati indipendenti e separati dalla realtà del Dio
creatore e dalla redenzione cristiana. L’esito scettico e antimetafisico
che prenderà forma compiuta a secoli di distanza è un’altra cosa, che va
ricostruita nella sua genesi propria e inserita in una linea di sviluppo
analiticamente documentata, non di pure analogie formali retrospettive.
Le domande inevase e i dubbi della filosofia rinascimentale non sono (già)
l’inizio dell’ateismo moderno. Sono problemi di funzionamento
all’interno di una logica di pensiero ancora molto diversa, che muoveva
i suoi incerti passi anche verso la configurazione di un campo
filosofico che cominciava a distinguersi (e non è, di per sé, segno solo
riprovevole di cedimento, ma di passaggio a una forma più moderna e
specializzata di sapere) dal campo strettamente teologico fondato sulla
parola rivelata. Il tessuto generale dell’argomentazione filosofica
restava strutturalmente compenetrato dai contenuti della tradizione
religiosa. Dentro di questo, le aporie sollevate segnalavano il limite
delle risorse della ragione filosofica, che per articolarsi nel suo
spessore non aveva affatto bisogno di spalancare la porta alla forza
corrosiva del laicismo moderno. Laicismo che certamente a un certo punto
prenderà piede, ma che non ha preso piede, non ha cominciato a
modellarsi in termini realmente significativi nel cuore del Rinascimento.
Se noi spostassimo l’analisi sul versante della rappresentazione fisica
del mondo esistente, pilastro della filosofia naturale, ci troveremmo
ugualmente davanti alla persistenza di una immagine dell’universo
cristianizzato e geocentrico, in chiave di dipendenza divina, che è
stata scartata – come ha mirabilmente mostrato Lewis (1990) –
solo molto al di là del primo annuncio della rivoluzione copernicana.
Quello che valeva sul piano cosmologico, valeva ancora
prima – è il terzo esempio – sul piano della concezione della società
umana e della natura della politica. Nelle sbrigative convenzioni del
sapere comune dei nostri giorni, noi tendiamo a ingigantire la novità
introdotta dalle teorie politiche rinascimentali, collegandola
soprattutto al genio profetico di Machiavelli, il grande precursore su
cui poi si sarebbe innestato l’apporto di Hobbes, ripreso alla fine
dall’illuminismo: la magica triade da cui sarebbe scaturita la nascita
della politica moderna. Dove stava la modernità di questa linea di
pensiero? Nella scoperta dell’autonomia della politica, cioè nella
separazione tra la politica e la religione, la politica e l’etica, che
mirava a spiegare in termini disincantati, puramente politici, i
meccanismi di formazione e di mantenimento del potere, per subordinare
la politica a un fine che restava intrinseco alla politica stessa,
immaginata come l’arte del dominio in sé legittimo, che non doveva
rendere conto a nessun tribunale esterno. Solo che questa visione che
enfatizza, di nuovo, la frattura, lo sganciamento emancipatore dal
retroterra morale cristiano, è tragicamente anacronistica. Si scontra
con una serie di dati di fatto di una evidenza macroscopica, che ci
indicano come Machiavelli è stato, invece, rifiutato dagli uomini del
suo tempo. È diventato l’eretico del pensiero politico del Rinascimento
e dell’età moderna, colui che è stato messo al bando e contro il quale
si è polemicamente costruita la dottrina politica moderna, la dottrina
della ragione di stato, il pensiero politico della seconda scolastica di
matrice gesuitica e almeno la prima ondata della teoria politica di
matrice laica, di cui Bodin in Francia è stato uno degli antesignani. La
riflessione moderna sul mondo della politica è dominata
dall’antimachiavellismo, cioè dal bisogno di ristabilire la simbiosi
strutturale che doveva legare la politica a una finalità che scavalcava
la politica stessa, subordinandola a un fine morale superiore (Bireley,
1990).
Al
centro di pressoché tutti i trattati politici del tardo ’500 e del ’600,
in terra protestante come in ambiente cattolico, non c’è il principe di
Machiavelli, ma il principe cristiano, che è sottoposto a una
gamma preordinata di doveri, che deve improntare la propria condotta a
un codice di virtù con il quale è chiamato costantemente a paragonarsi,
come in uno specchio da cui trarre la propria fisionomia ideale, e a
partire dal quale la collettività della respublica, il corpo
generale della società cristiana, poteva sottoporre a giudizio il
comportamento dei massimi detentori di autorità.
L’età moderna, infatti, non ha per nulla conosciuto
il vero assolutismo, la politica sganciata da ogni freno di limitazione
(e di compartecipazione) dal basso. Il potere sciolto dal controllo
sociale, senza contratto, è un’invenzione della modernità estrema, che
ha portato ai totalitarismi della storia più recente o al massimo si è
prefigurato, se vogliamo, in alcuni aspetti della vita dei potenti stati
nazionali dell’Europa ottocentesca. Ma l’assolutismo come metodo
perseguito di governo è rimasto estraneo alle deboli monarchie della
Spagna, della Francia o dei piccoli stati italiani del ’500 o del ’600.
L’assolutismo è un altro dei miti negativi alimentati da una visione
progressista della storia che ha bisogno di legittimarsi proiettando il
male all’indietro nel tempo e immaginando la catena storica come una
evoluzione che porta inesorabilmente al trionfo del meglio possibile.
Studiare finalmente in modo serio la storia delle dottrine politiche
dell’Europa cattolica e anche di quella protestante del ’500 e del ’600
è un lavoro di grandissimo interesse, destinato a riservare sorprese
notevoli, che culminano nella scoperta della forte tenuta di una visione
etica della politica perlomeno fino agli inizi del ’700.
Si può
individuare nel trattato di Ludovico Antonio Muratori (1996) sulla
pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi apparso già nel ’700
avanzato, uno degli ultimi esiti di questo filone filosofico-religioso
costruito sul tema della politica, che subordinava la rivendicazione
dell’obbedienza non al timore, ma al rispetto della virtù da parte
dell’autorità, all’esercizio dell’amore nei confronti dei sudditi e alla
ricerca del bene comune, vietando al principe di farsi tiranno teso a
inseguire il rafforzamento unilaterale della potenza come bene supremo,
cui andava sostituito il modello su base economica della saggia
amministrazione, della prudente e giusta tutela della riconciliazione
pacifica degli interessi della respublica, di una respublica
evidentemente ancora tenuta insieme dal collante della comune etica
cristiana. Il dovere più alto del principe cristiano era la
protezione del bene religioso dei sudditi, nutrito dall’identità di
destino tra la propria sovranità particolare e la coscienza religiosa
della massa collettiva dei sudditi, nel contesto di quella sintonia tra
religione del principe e religione del suo dominio territoriale (la
religio, indistinguibile dalla regio) che
ancora si presentava come assetto ideale cui puntare nel cuore dei
conflitti politici che hanno segnato lo sviluppo degli stati moderni
europei dalla metà del ’500 (pace di Augusta) alle guerre di equilibrio
del ’700 (Terni, 1995).
Dalla
sfera collettiva della grande politica si può tornare a discendere fino
al microcosmo del soggetto umano.
L’ultimo esempio che
voglio toccare riguarda il tema decisivo della visione antropologica
ritenuta tipica della cultura rinascimentale, collegata a una
esaltazione unilaterale della dignità autonoma dell’uomo che avrebbe
costituito uno dei piani inclinati scivolando lungo i quali il
Rinascimento avrebbe posto mano all’iniziale sgretolamento del primato
teologico trasmesso dalla tradizione religiosa medievale. Ma,
chiediamoci, la valutazione positiva della dignità dell’uomo è veramente
antitetica rispetto all’antropologia del pensiero cristiano, sviluppato
in maniera coerente a partire dalle sue premesse bibliche e alla luce
della sua più intima coscienza originaria? (Santi, 1996).
Basta
leggere in presa diretta il De hominis dignitate di Pico della
Mirandola (1486) per pronunciarsi sul fatto se esso sia già un primo
manifesto dell’antropocentrismo laico della modernità matura, o qualcosa
di diverso. Segnalo intanto che gli studiosi che hanno indagato sulla
predicazione tenuta, al vertice più eminente della cristianità del XV
secolo, nella cerchia della corte papale, vi hanno evidenziato la
presenza di una costante attenzione al tema della dignità dell’uomo,
soprattutto sulla falsariga dei commenti dedicati ai primi capitoli
della Genesi, al racconto della creazione del mondo e della nascita
dell’uomo, a Sua immagine e somiglianza. Nella letteratura
patristica, l’idea che la gloria di Dio si riflette nel sigillo
dell’uomo vivente è una affermazione che dovremmo subito congiungere con
il profilo della cristologia e della stessa escatologia della
resurrezione della carne, come cercheremo di chiarire tra poco.
Sono prospettive a
ben vedere vertiginose, che affondano le loro radici già nel patrimonio
veterotestamentario dei salmi, il cuore della grande preghiera cristiana
dall’inizio del monachesimo fino a oggi. La visione che ne emerge è
incontrovertibile e resiste a ogni tentazione di evasione pessimistica,
antimondana, in senso gnostico e dualistico. Prendiamo per esempio il
salmo 8. Senza dubbio ci troviamo di fronte, nei versi di inizio, a una
esaltazione della gloria incommensurabile di Dio, di fronte alla quale
l’uomo in un primo tempo sembra come annichilire, ridursi a una briciola,
a un niente che sprofonda nella totalità dell’universo creato:
O Signore, nostro
Dio,/ quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:/ sopra i cieli
[sopra i cieli che avvolgevano da ogni lato l’universo degli antichi]
s’innalza la tua magnificenza./ […] Se guardo il tuo cielo, opera della
tue dita,/ la luna e le stelle che tu hai fissate,/ che cosa è l’uomo
perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi? (Salmi
8, I-V)
Ma subito il dettato della poesia biblica si capovolge nel
contrario della sua tensione tirata fino al paradosso: Eppure l’hai
fatto poco meno degli angeli,/ di gloria e di onore l’hai coronato:/ gli
hai dato potere sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto sotto ai
suoi piedi…Anche senza attendere quello che è stato definito lo
spregiudicato umanesimo della Scolastica del XIII secolo (quando il
Rinascimento era ancora lontano dal profilarsi all’orizzonte), basta
passare ad altri testi cruciali come il salmo 138 per ritrovarsi nel
medesimo vortice di folgorazioni fondate sull’abbraccio
dell’immensamente oltre con l’insignificante esiguo che trasuda un
valore assolutamente unico nel segno della sua apparente evanescenza:
Sei Tu che hai creato le mie viscere / e mi hai tessuto nel seno di mia
madre./
Ti
lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/ sono stupende le tue
opere,/ Tu mi conosci fino in fondo
(Salmi 138, XIII – XIV).
La
dignità dell’uomo pensata in ottica biblica e cristiana ha preso forma
all’interno della grande visione della realtà come cosa creata
dall’amore espansivo di Dio, e non è stata certo smentita dalla
costruzione architettonica della dottrina medievale.
La stessa elevazione della figura umana a soggetto rappresentabile
della tradizione iconografica dell’Occidente, applicata anche alla
riproduzione visiva della santità e, al suo vertice supremo, delle prime
due persone della comunione trinitaria e spinta verso la ricerca del
massimo realismo mimetico con la svolta artistica che prelude alla
fioritura del Rinascimento, conferma la perfetta compatibilità della
statura dell’uomo con i contenuti fondanti della più ortodossa
tradizione teologica. La pittura sacra del Rinascimento non ha fatto che
portare alle estreme conseguenze questo antico connubio, fino
all’esplosione di energia creativa che si riscontra nell’arte di un
Michelangelo, profondamente ispirata sul piano religioso e nello stesso
tempo basata sulla riproduzione dei canoni di bellezza dell’antico. È
del resto altamente significativo che Michelangelo viva proprio a
cavallo dei due mondi che abbiamo cercato di mettere in rapporto fra
loro, nascendo nei dintorni della fine che attribuiamo per convenzione
al Medioevo e concludendo la sua esistenza alla metà del ’500, dopo che
si erano già manifestati molti dei fenomeni oggi ritenuti tipici del
primo ingresso nella modernità (1475-1564).
Un’icona ormai universalmente classica come l’immagine
della creazione dell’uomo sulla volta della Sistina sintetizza
emblematicamente la possibilità di una valutazione positiva della forma
umana, almeno come identità originaria e come destino, messa in accordo
con la grandezza della statura del Dio creatore, viste non come due
realtà antitetiche che si contraddicono, ma come i due poli di un’unica
catena di corrispondenze. Dal fondamento della parentela strutturale con
il divino, violata nella realtà della storia umana dal peccato, si
sprigiona un legame, una vicenda millenaria di alleanza tra Dio e l’uomo
che si conclude nell’iniziativa per cui il Dio cristiano si trova nella
condizione di uscire dalla sua lontananza celeste e di abbassarsi per
assumere la nostra carne terrena, facendosi in tutto come noi. La
creazione si completa nell’incarnazione, che riapre a sua volta la
possibilità della salvezza piena e totale della persona vivente, ed è
per questo (per il fatto che non soltanto la carne dell’uomo è stata
creata a immagine di Dio, ma Dio stesso l’ha fatta propria e l’ha
redenta, risanandola) che nell’arte rinascimentale si instaura
l’esaltazione della forma umana di Cristo, la rappresentazione di Cristo
come uomo perfetto, raffigurato nella totalità dei suoi caratteri più
materialmente corporei, senza omissione neppure dei tratti della sua
mascolinità. Nell’arte religiosa rinascimentale, è stato notato in
particolare dagli studi di Leo Steinberg (1996), affiora una
consuetudine iconografica che a noi può sembrare, nella migliore delle
ipotesi, persino ingenua: il tema della sessualità di Cristo, cioè della
rappresentazione del Cristo crocifisso, o del Cristo Bambino nel
presepio, in cui non sono censurati i tratti della sua più appariscente
fisicità (maschile). Ci si sentiva religiosamente in dovere di
raffigurare Cristo come uomo intero, nell’integrità riconoscibile di
tutti i suoi connotati, con una naturalezza che solo più tardi comincerà
a fare problema, sollevando l’esigenza di una circospezione ben più
timorosamente discreta, in pratica di una banalizzazione evasiva fondata
su uno standard innalzato di pudore, simile a quello che già incitava i
curiali della prima Controriforma romana a premere per far coprire i
nudi, ugualmente michelangioleschi, del Giudizio Universale.
La forza della tradizione come fermento
Voglio
concludere la serie degli esempi indicati per sottolineare la centralità
del fulcro cristiano della cultura rinascimentale proponendo alcune
righe di uno dei massimi studiosi di storia del ’900.
È anche questo un
brano molto famoso, un classico di una portata simile a quella del testo
di Burckhardt (1984) da cui siamo partiti, ma che si colloca agli
antipodi dell’interpretazione burckhardtiana più coerente.
Cento
anni dopo la comparsa del libro che ha divulgato l’idea moderna di
Rinascimento, vi troviamo suggerito un modo ribaltato e ben più
convincente, che oggi possiamo avvertire molto più aperto e realistico,
di guardare alla dimensione religiosa della società rinascimentale.
Infatti,
che lo vogliamo o no, oggi il clima delle nostre società occidentali è
sempre, profondamente, un clima cristiano [gli esperti di diritto che
hanno il compito di redigere le nostre costituzioni non sempre
dimostrano di esserne consapevoli].
Un tempo, nel secolo
XVI, a maggior ragione [non si parla del Medioevo, vorrei sottolineare,
ma proprio del secolo del Rinascimento], il cristianesimo era l’aria
stessa che si respirava in quella che noi chiamiamo l’Europa e che era
la cristianità. Era l’atmosfera in cui l’uomo viveva la sua vita, tutta
la sua vita; e non solo la sua vita intellettuale, ma la sua vita
privata coi suoi gesti molteplici, la sua vita pubblica con le sue
occupazioni diverse, la sua vita professionale quale che ne fosse
l’ambito. Il tutto automaticamente, in qualche modo, fatalmente,
indipendentemente da ogni volontà espressa di essere credente, di essere
cattolico, di accettare o di praticare la propria religione. Perché oggi
si sceglie: di essere cristiani o no. Nel secolo XVI, nessuna scelta. Si
era cristiani di fatto. Si poteva vagabondare nel pensiero lontani da
Cristo: giochi d’immaginazione, senza supporto vivente di realtà. Ma non
si poteva neppure astenersi dal praticare. Lo si volesse o no, ci se ne
rendesse chiaramente conto o no, ci si trovava immersi fin dalla nascita
in un bagno di cristianesimo da cui non si evadeva neppure alla morte:
perché quella morte era cristiana necessariamente, socialmente,
attraverso i riti ai quali nessuno poteva sottrarsi, anche se era in
rivolta di fronte alla morte, anche se aveva scherzato e fatto il
burlone nei suoi ultimi istanti. Dalla nascita alla morte, si tendeva
tutta una catena di cerimonie, di tradizioni, di costumi, di pratiche,
che essendo tutte cristiane o cristianizzate, legavano l’uomo [aggiungerei
un “anche”, esalterei il paradosso di questa formulazione] suo malgrado,
lo tenevano schiavo anche se lui si pretendeva libero. (Febvre, 1978, p.
322)
L’autore di questo brano non è un devoto professore
cattolico di qualche oscura università pontificia, ma Lucien Febvre.
Siamo davanti a una pagina del suo ineguagliato e pur discusso libro su
Il problema dell’incredulità nel secolo XVI , che costituisce
ancora oggi un valido punto di partenza per una esplorazione
ideologicamente non prevenuta su questi temi.
Si può anche postillare ulteriormente la proposta di
metodo di Febvre. Facendolo, abbiamo modo di accennare a un ultimo
aspetto importante, veramente fondamentale, senza il quale il discorso
fin qui svolto rimarrebbe amputato di una parte decisiva dei suoi
significati.
Abbiamo parlato di continuità, o di centralità della
tradizione religiosa, di impianto cristiano della visione del mondo che
invadeva anche i piani della cultura più agguerrita e meglio attrezzata,
più immediatamente disponibile all’innovazione e alla messa in
discussione della codificazione teologica ereditata dal passato. Però è
decisivo mettere bene a fuoco che quando parliamo di continuità della
tradizione, quando isoliamo il lato cristiano del Rinascimento e
lasciamo intendere che il Rinascimento è stato anche un Rinascimento
cristiano, non vogliamo semplicemente alludere alla forza d’inerzia di
una forma culturale che si disponeva come un freno al cambiamento,
imbrigliando le potenzialità nuove di sviluppo e di elaborazione nelle
reti di un sistema tendente, come tutti i sistemi consolidati, alla
ripetizione dei suoi schemi condivisi. Si può parlare di vera continuità,
perché questa tradizione nutrita dal dogma cristiano, nel momento in cui
è aperta alle sfide dell’età moderna, si è ridiscussa, ha ridefinito il
proprio assetto, è entrata in dialogo con i linguaggi della cultura
degli uomini del tempo appropriandosi delle loro tecniche, dei loro
strumenti, tentando di rispondere alle domande imposte dalla situazione
nuova che stava prendendo a delinearsi. La tradizione non era una
tradizione congelata. Era una tradizione che si è rigenerata al suo
interno, come un corpo vivente.
La vitalità della
tradizione religiosa nel cuore della prima età moderna si impone nel
fatto che questa è stata l’età delle grandi riforme del cristianesimo,
l’età in cui il cristianesimo medievale si è riorganizzato nei suoi
quadri e ha prodotto dal suo tronco il fenomeno di un cristianesimo
rinnovato. Reinventando se stessa, la religione non si è adattata per
sopravvivere. Si è travasata in una nuova cristianizzazione dell’Europa,
in una nuova grande ondata di cristianizzazione, animata dalla ciclopica
‘utopia’ missionaria di voler rendere più cristiana la vita dell’intera
società europea. Questa energia riformatrice è un fatto storico
oggettivo. È la grande ondata di risveglio della presenza della Chiesa
nel mondo, che si è incanalata nei due binari principali della riforma
protestante nel cuore dell’Europa continentale e nel parallelo fenomeno
della riforma cattolica, o Controriforma, in quella rinascita del
cattolicesimo romano (e prevalentemente mediterraneo) che è maturata già
prima e indipendentemente dall’altra, che non è stata semplicemente una
reazione difensiva, trovando impulso proprio a partire dagli anni di
Erasmo, di Savonarola e Michelangelo e rafforzandosi nel corso del ’500
(Ditchfield, 2005).
Mi pare evidente che non si possano spiegare le riforme
conosciute dalla cristianità europea a partire dal ’500 senza fare i
conti con quella vitalità robusta della sua tradizione più originale di
cui abbiamo ragionato. Ritorna in primo piano, di nuovo, la continuità
sostanziale di un humus ricco di fermenti che hanno costituito uno dei
grandi motori propulsivi intorno ai quali si è modellato il destino
della modernità. Naturalmente non c’è qui lo spazio per descrivere anche
solo sommariamente cosa sono state le due riforme. Accennerò almeno alla
fecondità creativa della riforma cattolica nell’intera cornice della
cristianità europea (e non solo tale). Pensiamo alla fioritura
incredibile di nuovi santi, alla forza di contagio dei leader
carismatici diventati capaci di lanciare nuovi messaggi, di raccogliere
intorno a sé seguaci, gruppi di fedeli, di dare vita a movimenti,
associazioni, confraternite, opere caritative, opere educative, come gli
orfanotrofi, le scuole di catechismo, i seminari per la formazione dei
preti. Ho citato realtà che in molti luoghi sono state impiantate solo
nel cuore della riforma cattolica del ’500. Che spesso prima non
esistevano per nulla, segnale di un dinamismo potente che per la prima
volta, inoltre – ed è questo un altro punto veramente decisivo –, si
proietta in una dimensione mondiale, rompendo gli argini della
cristianità medievale chiusa nei suoi bastioni dell’Occidente europeo,
cominciando ora a spalancarsi alla totalità del mondo conosciuto. Le
esplorazioni geografiche e i contatti intensificati con i territori
extraeuropei, dalla seconda metà del ’400 in poi, hanno aperto i varchi
attraverso i quali i missionari degli ordini religiosi della
Controriforma, gesuiti, cappuccini, francescani, hanno potuto lasciare
le loro terre di origine per tentare l’impresa ardita, tante volte anche
a costo della vita, con un prezzo altissimo di martirio, per ripiantare
il cristianesimo latino dentro le realtà di mondi che con l’Occidente
non avevano avuto fino al recente passato alcun rapporto, o solo
intermittenti relazioni di superficie. E bisogna sottolineare qui che la
missione del cattolicesimo verso l’esterno (del resto, al pari di quella
interna) non si è risolta innanzitutto in una colonizzazione culturale,
ma è sfociata nel tentativo di creare una molteplicità di nuovi
linguaggi comunicativi dell’unico cristianesimo, resi funzionali alla
mentalità, agli stili di cultura e alle consuetudini sociali dei popoli
che esistevano fuori dell’Europa, e che l’Europa ha cominciato a
rendersi familiari solo a partire dalla prima età moderna. In Cina e in
Giappone i missionari gesuiti, quando stamparono i loro libri di
devozione illustrati e diffusero le immagini con la figura della Madonna
e di Gesù Cristo, non ebbero remore ad attribuire alla Madonna e a Gesù
i caratteri somatici dell’uomo orientale. La Madonna prese gli occhi a
mandorla o ritrovò la pelle scura attraverso l’opera di propagazione del
cristianesimo mondiale.
Il
cristianesimo cominciò a trasformarsi solo a partire da questo momento
nella prima grande religione planetaria (Bailey, 1999) (2).
Una vitalità che permane
Chiudo con un’ultima suggestione. Il dinamismo espansivo e
riformatore della tradizione religiosa ereditata, sì, dal passato, ma
tenuta ancora viva, rilanciata come sostegno per una presenza più
incisiva e più capillare del cristianesimo all’interno della realtà del
mondo, non è stato neppure un fenomeno di breve durata. È maturato nel
cuore dell’età rinascimentale, senza attendere l’entrata in scena di
Martin Lutero. Si è sviluppato attraverso le riforme che sono entrate
presto in conflitto fra loro, dando vita a chiese e confessioni
cristiane contrapposte. Ma poi è andato ugualmente avanti nel tempo;
percorre tutta la storia europea fino a coprire quanto meno gran parte
del ’600 e in un certo senso anche il primo ’700 non illuminista.
Guardando le cose nel loro insieme, si può giungere a sostenere che la
creatività del barocco, la fioritura dello stile di civiltà che l’ha
nutrito, sono stati forse l’ultimo grande esito in cui si è sedimentata
l’energia cristianizzatrice ridestata dal passaggio all’età moderna.
Perché il barocco che cosa è stato, nella sua radice? È
stato soprattutto l’arte del cattolicesimo riformulato, della
riconquista della Controriforma; l’invenzione di un nuovo linguaggio per
ritrasmettere e rendere persuasive, per far trionfare nel mondo le
verità della fede cristiana di ogni tempo: una nuova musica, una nuova
poesia, una nuova letteratura, un nuovo teatro, un nuovo modo di
organizzare il discorso religioso, la predicazione, l’edificazione dei
fedeli, l’educazione del popolo cristiano, il rapporto tra i ceti, i
corpi sociali e i loro poteri. Il barocco, non a caso, si è sviluppato
come fenomeno culturale con un fondo omogeneo, è stata l’ultima grande
ondata artistica unitaria e a modo suo coerente dell’Europa cristiana,
che ha trovato il suo primo polmone alimentatore proprio nella Roma
papale. Roma è stata la grande culla del barocco; Roma come capitale
morale della cristianità, alla quale già la cultura del Rinascimento
aveva guardato come uno dei suoi fari più potenti di illuminazione. Da
Roma la proposta barocca si è diffusa attraverso due canali divergenti:
verso nord, raggiungendo Vienna, il mondo asburgico, e da lì poi
penetrando nell’Europa centrale dopo la guerra dei Trent’anni, a Praga,
in Boemia; dall’altra parte ha portato il suo contagio fino a Madrid ed
esportato i propri codici nel mondo iberico, per trapiantare quindi se
stessa nel Nuovo Mondo, nelle colonie dell’America del sud, dell’America
centrale, della costa indiana, dell’estremo Oriente. Riflettiamo anche
solo un attimo sul rilievo eccezionale di questa espansione in senso
mondiale dell’arte barocca (Dupront, 2001; Tapié, 1998). Pensiamo alle
chiese e agli altari barocchi delle terre messicane e sudamericane (o di
Goa, di Macao), che riciclano i modelli di partenza dell’architettura
sacra spagnola, portoghese e italiana. Pensiamo alla produzione
artistica, esemplarmente ‘meticciata’, degli avamposti missionari più
creativi in terra extraeuropea, alla musica prodotta per insegnare a
pregare e a celebrare la liturgia agli indios delle reducciones
del Paraguay, nelle prime circoscrizioni diocesane del sud America e poi
anche al nord, tra huroni e irochesi (musica almeno in parte
sopravvissuta fino ai giorni nostri, come quella del gesuita nativo di
Prato Domenico Zipoli, in qualche caso riscoperta solo in anni recenti e
travasata in CD che sono anche in commercio, che si possono ascoltare o
far ascoltare con non minore efficacia di quanto non consenta l’epopea
cinematografica di Mission…) (Oltre l’Occidente, 2003).
La diffusione in
prospettiva mondiale del codice artistico europeo, di matrice cattolica
e barocca, mi sembra il segno più tangibile della capacità espansiva e
assimilatrice della costruzione culturale cristiana della prima età
moderna, che ci consente di parlare di questa prima fase dell’età
moderna non come il prodromo della fine della cristianità, ma come il
momento di decollo di un nuovo modello di cristianità, o come abbiamo
detto di una ricristianizzazione della cristianità tradizionale europea.
Di nuovo Lucien Febvre (1999), in un libro altrettanto suggestivo quanto
quello sulla (non) incredulità del secolo XVI che ho citato prima
– un corso universitario sul processo di formazione dell’Europa –
sottolinea il fatto che solo nel ’700 andò in crisi l’abitudine di
chiamare cristianità l’intera realtà materiale del mondo europeo,
spingendo a sostituire l’antica etichetta religiosa fino ad allora in
uso con le nuove formule vincenti di un linguaggio politico che si
avviava a farsi sostanzialmente laicizzato, come umanitá, com la
stessa parola Europa. E solo da allora l’Europa cominciò a
diventare veramente l’Europa che conosciamo, cioè un’entità puramente
geografica e politica, una comunità di stati che condividono (o
dovrebbero condividere) un patrimonio di regole comuni, un identico
stile di civiltà, a prescindere dalla varietà delle fedi e delle
ideologie.
Ma questo è stato il frutto di una metamorfosi maturata molto più avanti
nel tempo, rispetto all’età di Michelangelo – di sant’Ignazio di Loyola,
di san Carlo Borromeo, e su un altro fronte della barricata di Lutero e
Calvino –, che ha sottoposto a torsione e piegato in una direzione nuova
l’eredità trasmessa dai costruttori delle due grandi riforme del
cristianesimo postmedievale.
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tempo: Itinerari di ricerca storica e letteraria, 7(1).
Note
(1)
Kristeller, 1953 (El mito
del ateísmo renacentista y la tradición francesa del librepensamiento) è
stato tradoto con lievi varianti in inglese (Journal of the history
of philosophy, VI, 1968, pp. 233-243) e francese (Bibliothèque
d’Humanisme et Rénaissance, XXXVII, 1975, pp. 337-348); si noti la
mancanza di traduzione italiana.
(2) Cf.
anche i materiali riuniti nel fascicolo monografico: Oltre l’Occidente.
Europa, missione, colonialismo (2003), Linea tempo: Itinerari di
ricerca storica e letteraria, VII, 1.
Nota al riguardo
dell’autore
Danilo
Zardin è laureato in Filosofia e Professore Ordinario di Storia Moderna
presso l´Istituto di Storia Moderna e Contemporanea dell´Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia.
Contatto:
danilo.zardin@unicatt.it.
Data de recebimento: 13/01/2006
Data de aceite: 30/10/2007
Memorandum 12, abril/2007
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP
ISSN 1676-1669
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a12/zardin02.htm