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- Dante,
Borges e il libro
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- Dante,
Borges and book
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- Biagio
D’Angelo
Pontificia
Universidad Católica del Perú
- Universidad
Católica Sedes Sapientiae
Perú
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Riassunto
L’articolo
tratta del libro come documento scritto indispensabile per il
perdurare eterno della memoria storico-collettiva. Vengono
analizzati due autori che hanno reso il discorso sul libro e, di
conseguenza, sulla Lettura, un metadiscorso etico e
didattico-moraleggiante. Borges e Dante, diversissimi tra loro,
lontani temporalmente e indicativi della cultura occidentale di
matrice eurocentrica, ci permettono di riconsiderare il libro
come un oggetto vivo, attuale, un frammento del mondo dotato di
una propria personalità, che vive della e nella memoria.
Parole chiave: libro;
memoria storico-collettiva; lettura; Borges; Dante; raccontare .
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Abstract
The
article approaches the question of the book as a written
document, indispensable for the eternal duration of
historical-collective memory. Two authors are analyzed here.
Both worked on and about the book and, consequently, on reading,
and developed an ethic and didactic-moral metadiscourse. Borges
and Dante, very different from each other, temporally distant
and representatives of the Western culture of eurocentric
origin, allow us to reconsider the book as a living, current
object, a fragment of the world that possesses its own
personality, which lives through and by memory.
Keywords:
book; historical-collective
memory; reading; Borges; Dante; story telling.
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In un’epoca
telematica, in cui alla comunicazione lenta, ponderata, suggestiva si è
preferito la forma celere della connessione a Internet, la natura
originale del libro è stata seriamente posta in discussione. Il premio
Nobel per la letteratura, Nadine Gordimer, in un recente intervento al
congresso internazionale dell’ICLA (Associazione Internazionale di
Letteratura Comparata), nell’agosto 2000 all’università del Sudafrica
di Pretoria, ha sostenuto l’importanza quasi vitale, organica della
parola scritta e del libro come documento indispensabile per il perdurare
eterno della memoria storico-collettiva (Yates, 1966; Florés, 1972; Le
Goff, 1979). Senza la conferma per iscritto del primo versetto del Vangelo
di San Giovanni, "In principio il Verbo era Dio ed era presso
Dio", definitivamente suggellato nella Bibbia, non avremmo oggi
quella forza unica della scrittura, tanto da essere temuta ed evitata,
censurata e bistrattata, abusata e violentata. Non si può tacere in
questa sede l’importanza che la scrittura ha rivestito nelle società
orientali (ricordiamo le storie ad salvationem di Shehrazad nelle Mille
e una Notte o le pseudo fiabe raccolte dalla memoria collettiva dell’Estremo
Oriente e ricompilate da Marguerite Yourcenar, o ancora le impressionanti
analogie tematiche sul mito riscontrabili nei grandi blocchi culturali
est/ovest come il mito di Arianna che è possibile ritrovare addirittura
in un racconto giapponese).
Il
diletto e il giovamento della lettura sono stati largamente commentati
poeticamente da Italo Calvino, che ha lasciato, in "Se una notte d’inverno
un viaggiatore" (1979), un saggio della sua verve ironica e
della sua attitudine di maestro di teorie senza mai cadere nell’aridità
della letterarietà, rischio usuale di un certo accademismo. Calvino, che
era innanzitutto un appassionato lettore, sosteneva la
"necessità" di vivere l’esperienza della lettura come un
momento irripetibile, unico, dell’arricchimento spirituale dell’individuo.
Non esagerava nel richiedere al lettore di procurarsi un posto comodo e
poi abbandonarsi al piacere del testo, cioè della lettura: seguire le
parole scritte, affidare tutto se stesso al racconto proposto, lasciare
affascinare dalla trama, dai personaggi, magari identificarsi con uno di
essi. Non a caso, inoltre, la lettura è spesso percepita e vissuta come
un viaggio intimo, coraggioso, dentro il testo, che dev’essere
affrontato per la possibilità imparagonabile di diventare un altro
personaggio, forse un eroe, e che permette, attraverso il riconoscimento
dell’altro, di diventare più se stesso. La famosa espressione
flaubertiana, "Madame Bovary, c’est moi!", raffigura l’atteggiamento
consapevole dell’autore/lettore che vive e si nasconde negli abiti dei
personaggi da lui creati. Il libro è dunque un’ipotesi nobile e
privilegiata di lavoro personale, sempre che scopo di tale lavoro vada più in là di un banale piacere epicureo e senza ragioni.
Il libro
non è divisibile dall’azione della lettura; ad essa segue
inevitabilmente il processo ermeneutico, consapevole o meno; ma
soprattutto il libro è simbioticamente legato al verbo
"raccontare". Un libro racconta qualcosa, anzi deve
raccontare una storia di cui è costellata la vita di ogni individuo. Il
racconto è una forma ancestrale di comprensione degli avvenimenti (poco
importa la dimensione dell’evento) di cui la vita è intessuta. Se da
una parte, il racconto è lo strumento che consente di partecipare alla
vastità e alla complessità dell’esperienza umana, dall’altra, è lo
strumento privilegiato attraverso il quale si permette agli altri di
accedere al mondo personale, anche a quello più privato e intimo. Ogni
racconto, ogni forma del raccontare, ogni libro rivestono la funzione a
cui assolveva il mito anticamente. Sotto forma di libro e di racconto
(mantengo unite le due nature formale e contenutistica) si conserva e si
trasmette la nostra memoria collettiva, cioè la memoria di un’intera
società e, a un livello ancora superiore, quella di un’intera civiltà
(Halbwachs, 1950). Basti pensare alla singolare forma di narrazione che è
il mito, con cui i popoli dell’antichità hanno tramandato il loro modo
di osservazione e di conoscenza del mondo (i miti greci sulla nascita dell’universo,
degli dei e dell’umanità sono l’esempio più lapalissiano) e un altro
"recipiente" culturale come la fiaba, che ha spesso sintetizzato
il costume e la credenza di una società tradizionale, sotto la specie
della poesia lirica o dell’immaginario popolare.
Tra gli
autori che hanno riflettuto sulla natura del libro e del suo essere
depositario di valori culturali e strutturali all’uomo, prenderemo in
considerazione solo due: si tratta di Borges e Dante, che pur se
diversissimi tra loro, lontani temporalmente e indicativi della cultura
occidentale di matrice eurocentrica, hanno reso il discorso sul libro e,
di conseguenza, sulla Lettura, un metadiscorso etico, o se vogliamo
didattico-moraleggiante. Borges e Dante rappresentano in un certo qual
modo le figure esemplari di quella coscienza e memoria collettive di cui
il mondo occidentale, ma non solo quello, è depositario.
Sia per
Borges che per Dante la metafora rappresentativa dell’universo è il
libro. Il valore assoluto è dato dal bisogno della ricerca del libro
primo, motore dei rimanenti, finiti libri, e dall’esistenza certa del
libro primo, che Dante, medievale, tomista, cristiano, contemplerà al
termine del suo viaggio.
Borges
scrive ne "La biblioteca di Babele", uno dei suoi racconti più
famosi, che come tutti gli uomini abitanti della Biblioteca del mondo,
anche lui ha viaggiato, ha "peregrinato in cerca di un libro, forse
del catalogo dei cataloghi" (1988, p. 66). Una spinta, questa, dovuta
all’incancellabile esigenza di incontrare la Verità, anche se il
viaggio è dentro e attraverso un numero di volumi interminabile,
infinito:
La
Biblioteca esiste
ab aeterno.
Di questa verità, il cui corollario inmediato è l’eternità
futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L’uomo,
questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di
demiurghi malevoli; l’universo, con la sua elegante dotazione di
scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il
viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l’opera di un dio. Per avvertire la distanza che c’è
tra il divino e l’umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli
simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina di un
libro, con le lettere organiche dell’interno: puntuali, delicate,
nerissime, inimitabilmente simmetriche (pp. 67-68).
Borges ci
invita alla lettura, perché l’esperienza inarrivabile di essa può provocare una straordinaria "felicità mentale", per dirla con
le parole di Maria Corti, che non è facile rivivere negli atti imperfetti
a cui soggiace l’esistenza. Dunque, una lettura salutare e terapeutica.
Borges
non teme affatto di poter essere ritenuto quasi anacronistico, quando
afferma che un libro (o un testo) letterario non può essere considerato
come un sistema chiuso, di cui l’autore è l’unico decifratore e l’unico
detentore della chiave di volta. Considerare un libro come un sistema
dalla logica serrata, perimetrale, equivale a distruggere il libro nella
sua essenza di opera aperta, secondo la terminologìa di Eco; ciò che è
ancora più affascinante è che l’operazione della lettura provoca
"ripercussioni incalcolabili" (Paoli, 1992, p. 9), in cui il
lettore aggiunge granelli interpretativi nuovi alla ricerca constante e
mai appagata del libro.
Quando
si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima
impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si
sentirono padròn di un tesoro intatto e segreto. Non v’era
problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non
esistesse in un qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo
attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. (p.
70)
Secondo
Borges, l’uomo ha tentato afferrare e possedere quel libro, senza che
gli fosse possibile, oscurando e vanificando quelle "ripercussioni
incalcolabili" che il processo della lettura avrebbe scatenato, fino
alla blasfema identificazione di sè con il libro. "La Biblioteca è
così enorme che ogni riduzione d’origine umana risulta
infinitesima" (p. 71) sostiene l’autore argentino. Perciò la
ricerca del libro è un’operazione fondamentale, perché strutturale all’uomo,
ma la Biblioteca perdurerà incorruttibile e segreta come sempre.
La
Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la
traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei
secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine
(che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). (p. 74)
Dietro la
massiccia metafora della Biblioteca, Borges ci addita che il cammino
necessario e quasi impellente dell’individuo alla ricerca del dio
nascosto nelle pieghe dei libri è l’atto sacro della lettura. La
completezza e la gratificazione del vivere potrebbero confluire nella
lettura. Paoli riporta un’affermazione "didattica" di Borges,
quando insegnava letteratura inglese, una delle letterature meglio
conosciute e preferite dallo scrittore di Finzioni:
Nella
lettura il piacere debe essere predominante. Quando un libro non v’interessa,
dovete lasciarlo inmediatamente, anche se il suo autore è famoso
(1992, p. 24).
E’
interessante che questa ricerca attraverso la lettura sia non solo
piacevole, ma allo stesso tempo utile: essa corrisponde al processo di
conoscimento del reale che sebbene non sia mai del tutto indolore, dev’essere
investito di un coraggio, e del senso dell’avventura che la lettura di
Stevenson, Kipling e Chesterton avevano senz’altro stimolato in Borges.
La felicità borgesiana, come ci ricorda suggestivamente Paoli, "Sta
quindi primariamente nel vivere e, solo succedaneamente, nel seguire
quegli incerti riflessi della vita che sono i libri" (p. 26).
Il libro
si presenta nella poetica di Borges come un universo di citazioni
infinite, ripetute, eppure sempre nuove, di modelli che si succedono, di
influenze che si percepiscono: un libro è una copia di libri in cui si
affermano o si confutano i temi eterni dell’umanità. Il modello di
comunicazione borgesiana, che trova nel labirinto e nella biblioteca le
metafore più note, consta di un corollario essenziale. Il libro, per la
sua natura di elemento concluso e mai definitivo, vive della e nella
memoria, cioè di un atto necessario senza del quale il libro non può considerarsi eterno: il ricordo di libri infiniti, letti e riletti, aperti
e poi richiusi, si trasforma in memoria e permette di rendere presente e
attuale un universo poetico creato, per esempio, durante il Medioevo.
La
lezione etica di Borges è che il libro è inseparabile, oltre che dalla
lettura, dalla vita stessa, in una misteriosa interazione che è possibile
ritrovare in questo frammento rilasciato qualche anno prima della
scomparsa:
Tutti
gli autori che ho letto, tutto il passato delle lettere e della
lingua, tutti hanno influito su di me. Io direi che su uno scrittore
influiscono non solo tutti i libri che ha letto ma anche quelli che
non ha letto, perfino quelli che gli piacciono meno; in altre
parole, la vita influisce in ogni momento. Un uomo, specialmente uno
scrittore, è esposto a ogni tipo di influenze. (...) Cos’è uno
scrittore, infatti, se non, prima di tutto, un essere
particolarmente sensibile ai fatti, alle circostanze della vita?
(citato da Paoli, 1992, pp. 170-171).
Il libro,
la Biblioteca e lo scrittore sono accomunati dalla facoltà della memoria,
una facoltà che si trova intrecciata in molti scritti borgesiani e che
rappresenta la responsabilità etica e spirituale dell’uomo, non solo
dell’uomo di lettere. Il libro permette la non dimenticanza dell’opera
giusta dell’individuo e infatti ad essa Borges si riferisce quando, per
esempio, in una sua lirica, descrivendo la Biblioteca di Alessandria,
ricorda che i suoi volumi superano di gran lunga il numero degli astri o
la sabbia del deserto:
- aquí
la gran memoria de los siglos
- que
fueron, las espadas y los héroes,
- los
lacónicos símbolos del álgebra,
- el
saber que sondea los planetas
- que
rigen el destino, las virtudes
- de
hierba y marfiles talismánicos,
- el
verso en que perdura la caricia,
- la
ciencia que descifra el solitario
- laberinto
de Dios, la teología,
- la
alquimia que en el barro busca el oro
- y
las figuraciones del idólatra. (1989, p. 167)
La
Biblioteca e, con essa, il suo oggetto più prezioso e necessario -perché
senza di questi essa non esisterebbere-, il libro, favoriscono dunque la
durata imperitura della dignità dell’uomo, delle sue azioni, delle sue
ricerche, del suo tentativo di sapere l’origine della concezione del
mondo.
In Dante,
uomo esemplarmente medievale, la memoria ha proprio questa consapevolezza:
che, cioè , ogni atto vissuto nella pienezza del riferimento divino
ultimo, possiede un valore eterno; per questo il libro assume in Dante l’importanza
del gesto etico, della responsabilità civile e política, dell’essere
"guida spirituale", investito da una forza trascendente che lo
chiama alla salvezza.
Il
triangolo esistenziale dantesco è così composto ai tre vertici dall’io
poetico, dal libro in cui l’io trova realizzazione e infine dalla
memoria che unifica e riassetta, purificàndolo, il processo di tensione
tra l’io e la sua creazione finita, il libro.
Dante è
consapevole, come d’altronde lo era tutta la cultura della quale era
imbevuto, del fatto che la memoria sia principio e fine di ogni azione,
punto d‘origine di ogni passo esistenziale; come si può leggere nell’incipit
della Vita Nuova
In
quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si
potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit
vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le
quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non
tutte, almeno la loro sentenzia (1292-94 / 1965, p. 53).
Così
come Dante trova scritte le sue proprie espressioni nella memoria, allo
stesso modo Guido Cavalcanti acquista forza e dimensione di partecipazione
agli avvenimenti esistenziali grazie all’effetto di permanenza eterna e
oggettiva della memoria ("In quella parte dove sta memora / prende
suo stato", 1996, p. 116).
In Dante
la memoria è sì la capacità di conservare determinate informazioni che
gli permettono di rendere attuali impressioni o informazioni del passato,
ma è anche la permanenza di Dio dentro la storia dell’umanità, chiaro
com’era per un uomo di coscienza medievale. La possibilità di
testimonianza e di trasmissione della Verità dell’Incarnazione era
esplicitata dal libro, oggetto sublime destinato a non perire nel tempo e
ad essere preservato nelle Biblioteche.
La
memoria cristiana ha come imperativo discorso, dunque, il perdurare nel
tempo dell’avvenimento di Cristo come presente. La memoria collettiva,
invece, è la permanenza, ma anche la trasformazione, di un
discorso mitico attraverso cui le culture dei popoli hanno cercato di
tramandarsi valori, nozioni, esempi vitali per la sopravvivenza e per la
constante pulsione all’Essere (Dahl, 1948; de Schonen, 1974).
Andrè
Leroi-Gourhan distingue cinque fasi nel processo della memoria collettiva:
la trasmissione orale, la trasmissione scritta mediante codici o indici,
quella delle semplici schede, la meccanografia e la classificazione
elettronica per serie (1964-65, pp. 303-304). Durante il Medioevo, di
queste cinque fasi, le prime tre erano considerate come fondamentali per
il processo della memoria: se la trasmissione orale rappresentava la
grande memoria storica, antica, che affondava le proprie radici nel mito,
i codici scritti la perpetuavano ad maioram Gloriam Dei, mentre le
schede, o glosse, rendevano il testo nel suo finale processo ermeneutico.
Abbiamo così, in sintesi, la triade di quegli elementi necessari per
fissare, attraverso il gesto definitivo della scrittura, l’insieme
imaginario e mimetico che opera come mediatore di conoscenza sulla realtà
e sull’uomo (Barthes, 1970). I medievali, e Dante, in primo luogo,
avevano intuito che lo studio della memoria collettiva era il punto nodale
per affrontare i problemi del tempo e della storia, ed eccezionalmente in
tutta quella cultura, nel suo aspetto propiamente europeo, la memoria
collettiva coincideva con la memoria cristiana tout court.
Per
questo a Dante è stato possibile concepire un’opera come la Commedia,
il cui valore oggettivo è quello di avere la pretesa di essere "il
libro", una Bibbia non scritta da profeti o da evangelisti, ma da un
uomo di lettere che è stato favorito dall’epoca in cui ha vissuto a
rivivere e unificare la memoria individuale, la memoria collettiva nella
forma miracolosa del ripetersi del Fatto cristiano.
La Commedia,
o il libro, tanto sognato e rincorso da Borges, nasce dalla missione di
salvare l’umanità dalla perdizione e indicarle la via della redenzione.
Come libro, svolge una funzione educativa precisa, che è anche un
tentativo che potremmo definire quasi sacramentale: la storia del viaggio
ultraterreno di Dante, dal male castigato all’espiazione fiduciosa e
alla contemplazione del Bene perfetto, non è solo la redenzione
individuale dell’Autore (cosa che lo ridurrebbe a un libro fra i tanti)
ma è l’invito alla redenzione dell’umanità intera, per mezzo dell’esempio
di un singolo, redenzione che sebbene troverà la sua completa satisfactione
nella vita beata del Paradiso, inizia già nella terra, secondo la
bellissima formula dantesca di beatitudo huius vitae.
Il libro,
dunque, possiede in Dante un valore eterno e universale, come il Poeta
italiano si espressa nella:
il
senso di quest’opera non è unico, anzi può dirsi polisema, cioè
di più sensi; infatti il primo senso è quello che si ha della
lettera, l‘altro è quello che si ha dal significato attraverso la
lettera. E il primo si dice letterale, e il secondo allegorico o
morale o anagogico" (1316-20 / 1965, p. 343).
Non solo
la Commedia prevede questa lettura, giacché in Dante è tutta l’opera,
la concezione cioè del libro che si asesta attorno al sistema polisemico
e anagogico di essere un libro iscritto dentro al libro divino. La storia
tutta è anagogica allo stesso modo, perché anch’essa è pellegrinaggio
verso la Storia in un’ontologia di impianto tipicamente medievale che
aveva impressionato la domanda onnisciente di Borges. Come metafora del
pellegrinaggio terrestre, Borges utilizzerà l’esperienza
"polisemica" della cecità, così come Dante l’esilio:
- Quivi
si vive e gode del tesoro
- che s’acquistò
piangendo nello essilio
- di
Babilon, ove si lasciò l’oro (1316-20 / 1965, Paradiso, XXIII,
133-135, p. 697).
Dante,
dunque, assieme a Borges, ci permette di riconsiderare il libro come un
oggetto vivo, attuale, un frammento del mondo dotato di una propria
personalità, che è "l’estensione della memoria ed anche dell’immaginazione
e della dimenticanza, visto che di questa è composta la memoria",
come ricorda Borges suggestivamente.
Agli
albori del XXI secolo, il libro deve essere ribadito come unico,
originale, vigente trasmettitore di cultura e memoria autentiche. Come
scrive Alfredo Bryce Echenique: "Vedere la versione del Quijote
in un computer mi fa stare male. Come si potrebbe sottolineare, annotare e
personalizzare quello scritto!" (Bryce Echenique, 2002).
Riferimenti
bibliografici
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D. (1965). Tutte le Opere. Firenze: Sansoni.
Barthes,
R. (1970). L’ancienne rhétorique, aide-mémoire. Communications,
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"Epoca" su concessione editore Einaudi, Torino.
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J. L. (1989). Obras completas. Buenos Aires: Emecé.
Bryce
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(Vol. VIII, pp. 347-400). Torino: Einaudi.
Leroi-Gourhan,
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Paoli,
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Haye: Mouton.
Yates,
F. A. (1966). The Art of Memory. London: Routledge and Kegan Paul.
Nota al
riguardo dell’autore
Biagio
D'Angelo è professore di letteratura presso l'Universidad Católica Sedes
Sapientiae di Lima, Perù. Insegna inoltre nella Pontificia Universidad
Católica della stessa città. I suoi campi di lavoro sono la letteratura
comparata, la teoria letteraria, la modernità in letteratura
(specialmente le aree slave e latinoamericane). Contatto:
biagiodangelo@hotmail.com
- Data de
recebimento: 31/07/2002
- Data de aceite: 30/09/2002
-
- Memorandum, Out/2002
- Belo Horizonte:
UFMG; Ribeirão Preto: USP.
- http://www.fafich.
ufmg.br/~memorandum/artigos03/dangelo01.htm
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