Zanlonghi, G. (2003) La psicologia e il teatro nella riflessione gesuitica europea del Cinque-Seicento. Memorandum, 4, 61-85. Retirado em   /  /  , do World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos04/zanlonghi01.htm

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La psicologia e il teatro nella riflessione gesuitica europea del Cinque-Seicento

Psychology and theatre in European Jesuit thought during the 16th and 17th centuries 

Giovanna Zanlonghi
Università Cattolica del Sacro Cuore
Italia

Riassunto

L’inseparabilità di parola ed immagine nell’esperienza teatrale gesuitica del Seicento si fondava su un progetto retorico posto a servizio dell’uomo inteso come coscienza incarnata. Il ricorso alla teatralità nella didattica dei collegi gesuitici è interpretato come creazione di uno spazio psicologico e conoscitivo in cui la reinvenzione fantastica, attivando memoria, immaginazione, affetti ed intelligenza, educava a guardare e giudicare la realtà in modo ordinato, consapevole, orientato. Due poli di approfondimento: 1) l’agile manuale di Cipriano Soarez, assunto ad “archetipo” della concezione retorica gesuitica: il dire figurato è riverbero del vero che traluce nel sensibile; 2) un’incursione nelle Disputationes de homine e nelle scuole di Salamanca e Coimbra consente l’ancoraggio della retorica all’antropologia e all’etica. Il punto di approdo è l’individuazione dell’omologia fondativa che assimila lo sguardo dello spettatore teatrale a quello dell’uomo prudente, allenati a cogliere -l’uno nella scena del teatro, l’altro nella scena della storia- l’intentio che le abita.

Parole chiave: teatro; gesuiti; formazione; età moderna

Abstract

The inseparableness of word and image in 17th-century Jesuitical theatrical experience was based on a rhetorical project at the service of man, viewed as embodied conscience. In this context, theatre was the creation of a psychological and cognitive space in which fanciful recreation – activating memory, bonds and intelligence - taught people to observe and judge reality in a orderly way. The references are: 1) Cipriano Soarez´s handbook, "archetype" of the Jesuit rhetorical system: figured speech as a reverberation of the truth shining through what can be perceived; 2) the Disputationes de homine and the schools of Salamanca and Coimbra: the links between rhetoric, anthropology and ethics. The aim is to identify a basic homology assimilating the eye of the theatre-goer to that of the cautious man, both trained to make out - one in the theatrical scene, the other in the historical scene - the intention to be found in them.

Keywords: theatre; Jesuits; education; modern age

 
Premessa

L’eredità consegnata dalla cultura gesuitica alla civiltà teatrale è senza dubbio notevole sia per la durata di tale esperienza (essa ha attraversato l’Ancien Regime), sia per la complessità con cui essa fu praticata sulla scena, dove la parola si incrociava con la danza e con la gestualità. In altri termini, si può dire che la teatralità gesuitica ha lasciato testimonianza di un modello ampio della comunicazione in cui le istanze del logos e della ragione non escludevano la possibilità che le risorse della visione e della metaforicità, del procedere per nessi di associazione e di similitudine, costituissero la via di un “linguaggio patetico” dotato di dignità ed efficacia. L’espressione, di Ernesto Grassi (1989), allude alla parabola filosofica che ha condotto il pensiero moderno di matrice razionalistica a sottrarre al “pensiero patetico” ogni possibilità conoscitiva. Occorre pertanto - secondo Grassi - recuperare e rivalutare la lezione umanistica e secentesca, quando era riconosciuta la legittimità di forme di sapere non sottoposte al dominio della razionalità astratta e “pura”.

Da questa consapevolezza muove l’idea che vorremmo documentare in questa sede: la ragione profonda della centralità del teatro nella pedagogia gesuitica consisteva nel promuovere simultaneamente ragione ed immaginazione ed agire in profondità sulla memoria. Tale progetto riposava su un’antropologia unitaria. Lungi dal cadere nell’errore della scissione e della mortificazione del corporeo, una psicologia alimentata da testi antichi e codificata nei grandi commentari filosofico-teologici coevi elaborava un programma comunicativo a servizio dell’uomo inteso come coscienza incarnata e assegnava alla vocazione formativa del teatro il compito di essere “scuola di virtù”, vale a dire promozione piena dell’umano. Su tale sfondo, il ricorso alla teatralità può essere interpretato come il riconoscimento di un luogo simbolico in cui si raccoglie l’unità del soggetto ed in cui la reinvenzione fantastica, attivando memoria, immaginazione, affetti ed intelligenza, educa a guardare e giudicare la realtà in modo ordinato, consapevole, orientato.

Due sono i poli di approfondimento: il primo è costituito dall’agile manuale di Cipriano Soarez (1569), divenuto “classico” nel circuito europeo della diffusione pedagogica e, di conseguenza, sintesi rapida ma completa di quella “retorica totale” che intere generazioni di docenti e di allievi hanno assimilato. Fra le classificazioni di figure e tropi si sono colte le tracce di una filosofia del linguaggio in cui il dire figurato è riverbero del vero che traluce nel sensibile.

All’altro polo, un’incursione nelle Disputationes de homine e nelle pagine elaborate dalle scuole di Salamanca e di Coimbra consente l’ancoraggio della retorica all’antropologia e all’etica.

Nella tensione dialettica fra la semplicità didattica del manuale scolastico e la complessa architettura logica del commentario neo-scolastico si ritaglia lo spazio interpretativo a partire dal quale si “guadagna” la sfera del sensibile, del corporeo e del pre-concettuale, ossia della potentia imaginativa, quale luogo interiore in cui ragione ed affettività si compongono.

Un testo archetipo della retorica gesuitica: il De arte rhetorica di Cipriano Soarez

Il testo nella cultura gesuitica di fine Cinquecento

Il manuale di Cipriano Soarez (1569) costituisce un punto di riferimento imprescindibile della cultura retorica del Cinque-Seicento gesuitico. L'opera ebbe la sua prima edizione a Coimbra nel 1560 e conobbe centinaia di ristampe anche nel Settecento (Sommervogel, 1896). (1). L'opera conobbe una diffusione veramente europea in quanto prescritta dalle Costituzioni di collegi fiamminghi, spagnoli, portoghesi, tedeschi, nonché italiani.

Esso merita anzitutto un’adeguata collocazione all’interno delle coordinate storico-culturali del contesto in cui vide la luce. (2)

La rinascita della scolastica iniziata dal domenicano Francisco de Vitoria a Salamanca, “l'università che fu nel XVII secolo quello che Parigi era stato nel XIII” (Willaert, 1966, p.232), si irradiava nelle università spagnole, portoghesi e tedesche e giungeva, in particolare, a quella di Coimbra, divenuta nell'ultimo scorcio del XVI secolo sede privilegiata di insediamento dei grandi maestri della Compagnia di Gesù. Un disegno culturale complesso, notevole tanto per il rigore degli studi quanto per gli esiti culturali, avrebbe portato all'incontro dell'umanesimo con la scolastica medievale. Ne sono prova la fioritura della teologia positiva, la codificazione dei nuovi criteri di esegesi scritturale, così come la compilazione del rigoroso Corso conimbricense. (3)

L'attività di Cipriano Soarez, che occupava la cattedra di retorica e al quale era stato assegnato l'incarico di compilare il manuale che sarebbe stato adottato da numerosi collegi gesuitici europei come testo scolastico (4), appare in completa sintonia con questa temperie culturale. Esso condivideva con la scuola di Coimbra il metodo di analisi critica dei testi ed il confronto delle fonti antiche con la tradizione biblico-patristica. Ritengo non sia una forzatura postulare che la mancanza nel Cursus Conimbricensis del commento alla Retorica di Aristotele possa considerarsi compensata dalla redazione di questo manuale.

Deve essere inoltre ricordato che il regolamento della Ratio studiorum richiedeva che il compendio, in adozione nelle classi di umanità (5), fosse imparato a memoria, facendone in tal modo un classico della cultura gesuitica: tale onore era riconosciuto, per esempio, al catechismo di Pietro Canisio oppure a “giganti” classici, quali i Tristia di Ovidio e le Eclogae di Virgilio. (6)

Non è infine azzardato, in virtù della capillare diffusione del testo, considerarne le indicazioni più ampiamente poetiche, quali connotazioni epocali, tratti distintivi di un modo di intendere e promuovere la retorica tipico della Compagnia di Gesù a cavallo fra Cinque e Seicento.

Nihil mutare sine ratione” ovvero le ragioni di un classicismo cristianizzato

Fin dalla premessa l'accento cade sull’imitazione. Mutuato dalla poetica, tale principio consentiva di far confluire l'insegnamento dell'eloquenza, attraverso l'imitazione dei modelli, in un sistema scolastico in cui il principio di emulazione era il corrispettivo sul piano pedagogico di quello d’imitazione sul piano poetico. Al giovane che doveva essere preparato “melius atque prudentius” si proponeva una formazione nella quale agli antichi era riconosciuto un primato indiscusso, in virtù della loro capacità di educare l'uomo tutto, “animo et cogitatione”. Con orgoglio, Soarez poteva dichiarare che i precettori della Compagnia, consapevoli di questo, sapevano educare i giovani “virtute et literis” (Soarez, 1569, p.A 2).(7)

Si tratta, come è noto, di un'intuizione che era già stata ciceroniana e che il manuale esplicitamente richiamava. Questa idea della lingua non come logos ma come forma tramandata nella quale viene custodito il contenuto di civiltà già ereditato, rendeva possibile raccordare e sintetizzare l'ingente eredità del passato. L’insegnamento ciceroniano poteva essere inserito in una linea di continuità e di sviluppo: in virtù del principio di imitazione, il maestro conimbricense riconduceva nell'alveo di una comune concezione della retorica come “loquens sapientia”, l'eredità greco-romana.

Tuttavia, pur nel rispetto del passato, un rigoroso vaglio culturale non impediva che severi giudizi fossero espressi sulle opere classiche, oltre le quali veniva additato l’orizzonte di valori cristiano. Mentre fin dal titolo si confessava il debito nei confronti di Cicerone, Quintiliano ed Aristotele, il proemio dichiarava la propria (ovvia) consonanza con la tradizione patristica, mettendo in campo tutta la questione del recupero, all’interno di un progetto moderno e cristiano, del patrimonio classico: ai Padri Soarez si rivolgeva riconoscente per aver posto la tecnica pagana a servizio dell'eloquenza cristiana. Proprio su questo terreno si sarebbe giocata la vitalità e la genialità della cultura gesuitica nel rispondere alle sfide della modernità, costruendo un edificio nuovo con i mattoni del vecchio.

Sottoponendo la cultura classica ad una severa ripulitura che permettesse “his tot tantisque deletis maculis” di far risplendere “illa divina et coelestis christianae eloquentiae pulchritudo” (Soarez, 1569, p.6A), l'elenco dei Padri (Basilio, Gregorio Nazanzieno, Giovanni Crisostomo, Ambrogio) comprendeva pensatori che, come Gerolamo e Agostino, avevano capito la missione culturale del latino come sicuro canale di trasmissione della cultura romano-cattolica, allo stesso modo in cui per Cicerone lo era stato della cultura pagana (Soarez, 1569) e avevano intuito la portata ecumenica di tale lingua, quale oggetto e veicolo di una cultura condivisa. Il nesso fra retorica e conoscenza era dunque stato rafforzato e non indebolito dalla posizione assunta da Agostino nel De doctrina christiana e il progetto di un’eloquenza cristiana non poteva più sicuramente essere messo in discussione alla fine del XVI secolo, dopo la lezione patristica e, successivamente, umanistica.

Su ciò Cipriano Soarez non nutriva alcun dubbio: lo dimostra il suo manuale imbevuto di precetti ciceroniani, quintilianei ed aristotelici. Lo sosteneva la stessa autorità di Ignazio che nella lettera del 21 maggio 1547 a Diego Lainez, suo futuro successore alla guida della Compagnia, riconosceva l'utilità di tropoi e figure. Lo conferma l’elogio nella Ratio studiorum di ogni parlato che “nec utilitati solum servit, sed etiam ornatui indulget” (Lukács, 1965-1992, Vol. 5, p.424). (8). Seppur mai fine a se stessa, la devozione nei confronti degli studia humanitatis, figlia anche dell'umanesimo cinquecentesco, era esemplarmente riassunta nella risposta del Soarez ad un malsano desiderio (libido) di contraddire gli antichi: “mihi consilium fuit, de his, quae tot doctissimorum seculorum approbavit consensus, nihil sine ratione mutare” (Soarez, 1569, p.A 3v).

Il testo dunque riconosceva appieno il valore del classicismo inteso come tradizione e “come insieme testuale organizzato in sistema di valori attivi” (Quondam, 1990, p.238).

Il progetto di una retorica “totale

L'impegno classicistico è dimostrato dalla stessa distribuzione della materia retorica: dopo una breve parte definitoria introduttiva e la distinzione dei tre generi, il manuale disponeva la trattazione intorno ai cinque piani tradizionali dell’inventio, della dispositio e dell’elocutio, cui si aggiungevano memoria e actio.

Di ascendenza classica appare anche la rivalutazione dei primi due livelli della retorica, a prova della volontà di salvaguardare il valore pienamente conoscitivo e le capacità argomentative della parola eloquente. Inoltre, a riprova del vivo orientamento anti-nominalistico, il ventaglio della sapienza retorica abbracciava - riunificandole in virtù della molteplicità del vero - l'ars della memoria e della pronuntiatio. La scarsa ampiezza di queste ultime parti e l’estensione del Liber de elocutione non devono insinuare alcun dubbio circa la tenuta dell'intero impianto a livello pedagogico: la volontà di ricalcare le orme degli antichi, il rispetto della complessiva costruzione ciceroniana, indicano - credo - il raggiungimento di un equilibrio e di un'armoniosa sintesi fra diversi apporti culturali fra loro compenetrati, degni di un umanesimo maturo.

All’interno di una retorica di forte presa gnoseologica, alle attività dell’inventio e della dispositio erano riconosciute ampie proprietà argomentative. Quest’ultima, considerata necessaria et perutilis, attribuisce forza strategica alla comunicazione: essa attribuisce compattezza ed efficacia alle argomentazioni, evitando al discorso di fluire disordinatamente, “sine proposito”. Guida del discorso, dunque, ella conduce il piano della narrazione, connettendo secondo un disegno l’inizio e la fine (Soarez, 1569, p.24v).

Ma è soprattutto sulla valenza conoscitiva dell’elocutio che occorre focalizzare l’attenzione, partendo anzitutto dalla similitudine con cui si apre il terzo libro, laddove vien detto che le figure sono il colore del linguaggio: assecondando il gioco metaforico del Soarez, come non osservare che i colori non potrebbero apparire in piena attualità se non fossero colpiti dalla luce? ossia, che la luce con la quale l'elocutio illumina e rischiara il linguaggio possa essere, come l'illuminazione propria dell'intelletto agente nei confronti della specie sensibile, un'azione produttiva di intelligibilità? (9). L'affermazione secondo la quale l'elocutio attribuisce colore al linguaggio ed è “come abito simile alla luce”, se interpretata secondo la terminologia  filosofica neo-scolastica (Soarez negli stessi anni in cui stendeva questo manuale commentava, in collaborazione con il confratello Pietro Fonseca, la Metafisica dello Stagirita), fa intendere che l'elocutio non può essere considerata semplice ornamento ma, ben di più, come attribuzione di un plus di intenzionalità alla parola.

Così pure, nell'affermazione del primato dell'elocutio come maxima vis e autentico elemento distintivo dell'oratore si coglie una sfumatura filosofica importante. È ancora una similitudine ad evidenziare il passaggio: simile ad una spada riposta nel fodero, una parola non “dipinta” renderebbe inutili anche le possibilità conoscitive: “Eloqui autem est omnia quae mente conceperis, promere atque ad audientes proferre. Sine quo supervacua sunt priora et similia gladio condito atque inter vaginam haerenti” (Soarez, 1569, p.39v). La parola eloquente acquisisce una funzione maieutica: il linguaggio “riposto” necessita dell'elocutio la quale, valorizzando la componente sensibile del significante, lo “accende” e lo rende più vivamente rappresentabile e percepibile (10). La parola eloquente è così immessa in un corto-circuito comunicativo che la carica di una fisicità e di una corporeità del tutto sconosciuta alla parola astratta che la filosofia moderna andava teorizzando. Il significativo e successivo paragone con il colore e con la pienezza del sapore (quasi colore quodam et succo), oltre ad indicare la compiutezza del percorso conoscitivo, consegna alla parola la plasticità ed il gusto di un ente pieno e concreto, non dimidiato o depurato dall'analisi geometrica e matematica; e su tale plasticità, non a caso, si sono concentrate le teoriche dell'ut pictura poesis.

La componente elocutiva garantisce che alla parola venga conservata la sua forza emotiva, così come il piano strategico della dispositio e dell'argomentazione garantiscono la portata conoscitiva. Ciò consente di riguadagnare sul piano antropologico quella inseparabilità di docere, delectare e movere, tipica del barocco.

É possibile fin d’ora ipotizzare - anticipando un'idea su cui torneremo - che nel progetto retorico si rispecchiava la stessa unitarietà della persona, irriducibile ad una “sola dimensione”: l'antropologia filosofica aristotelica, unitaria, avversa ad ogni dualismo fra forma e sostanza, comportava una psicologia attenta a descrivere e riconoscere le molteplici interazioni fra intelletto e passione, fra razionalità ed emotività. Le frequenti metafore corporee con le quali si designava la sfera del linguaggio attestano questa omologia fondativa.

Quest'ultima osservazione suggerisce di focalizzare alcuni snodi concettuali depositati in definizioni che, mutuate dai classici e ricontestualizzate, suonano come articoli di base di un credo poetico-retorico.

Oratio est quasi imago rationis quaedam”: l’imago come medium conoscitivo

Il proemio dichiara il nesso strettissimo che lega la ragione e il discorso, la ratio con l'oratio. La lingua greca designava infatti con lo stesso vocabolo (logos) le due realtà, tematizzando il rapporto ontologico intercorrente fra di loro; la lingua latina aveva coniato un termine (oratio) dall'altro (ratio), esplicitando il rapporto genetico e gerarchico dell'una nei confronti dell'altra. Coerente con la tradizione, Soarez definiva l’oratioquasi rationis imago quaedam” (Soarez, 1569, p.A 5r).

Dovendo definire poi il nesso fra ratio ed oratio, l’autore ricorre di nuovo alla simbologia della luce. L’imago si presenta come il nesso analogico che correla concetto e parola, ultimo anello della catena conoscitiva fra res e verba. L'oratio consegna e porta alla luce il verbum mentis (11). Ma il verbum mentis umano non può fare a meno, una volta proferito, di un veicolo sensibile. L’imago è il medium del quale non possono fare a meno la mente e la parola umane. Ne deriva la valorizzazione dei processi analogico-immaginativi.

Rimane da sciogliere un ultimo punto e capire perché nella definizione si insinui un quasi.

Ebbene, la nozione di somiglianza fra res e verba implica che la conoscenza dell'uomo non possa mai adeguare pienamente la realtà. Del resto, il famoso versetto paolino Videmus nunc per speculum in aenigmate (I Cor 13,12) non si riferisce proprio all'immagine per indicare un'inadeguatezza della conoscenza? L'imago dunque si presenta come nesso che imita l'essere ma, al contempo, lo vela e non lo dice pienamente. È questa la stessa ambivalenza della parola che può essere al tempo stesso strumento del vero, quanto del falso.

Prova di tale inadeguatezza è pure il procedere ordinato attraverso livelli successivi dal sensibile verso l'intellezione; l’intelligere multipliciter giustifica e spiega il principio fondativo della lingua: la verità intesa come adaequatio intellectus ad rem, riconosce la molteplicità dei punti di vista. La processualità del conoscere umano a partire dal sensibile, secondo una linea di sviluppo e di gradualità, fonda e rende necessaria la varietas. Il principio ciceroniano della linguisticità come copia verborum, inquadrato e collocato all'interno dei fondamenti aristotelico-tomistici riaffermati dalla neoscolastica gesuitica, si rivela una necessità antropologica.

L’oratio restituisce le res attraverso una species admirabilis o, meglio, è la species stessa che si rende manifesta, visibile ed ammirabile, attraverso uno strumento sensibile: il concetto riguadagna fisicità, senza perdere l'apertura universale.

La parola così incarnata penetra negli animi e rimbalza sul piano morale, diventando parola etica:

Quid enim admirabilius esse potest, [...] per tenuissimos aurium meatus singulari opere artificioque perfectos in alienos animos introire, atque in eis tam perfecte tam insigniter imprimere speciem suam ut moerentes consoletur, torpentes excitet, afflictos erigat, inani laetita elatos cohibeat et in quemvis denique motum auditorem impellat? (Soarez, 1569, p.A 5r-5v).

Con un passaggio di chiara matrice ciceroniana, Soarez disvela la funzione morale della parola e la aggancia ad una saggezza civile e morale.

La parola eloquente per questo suo immettersi nel mondo della moralità, arricchisce la parola teoretica. L'elocutio aggiunge alla purezza e all’astrattezza del verbo la coloritura affettiva ed emotiva che riconsegna la realtà nella sua molteplicità; è tale potenzialità che la sensibilità secentesca ha valorizzato, fino a farne un suo specifico apporto. La parola eloquente arricchisce della componente ‘patetica’ la discorsività razionale.

Actio est quaedam eloquentia corporis”: verso la scena

L'unità di res et verba trova coronamento nel principio retorico dell'actio, definita come “eloquentia corporis”.

Secondo l’insegnamento di Cicerone e di Quintiliano, è nell’actio che i contenuti e l’espressione linguistica si congiungono nella concretezza della comunicazione che, nel suo porsi attualmente, travalica i semplici codici linguistici (12). Voce e gesto sono considerati due canali di comunicazione di grande potere fascinatore, “per quos duos sensus omnis ad animum penetrat affectus, prius de voce, deinde de gestu” (Soarez, 1569, p.74v); alla voce in modo particolare è riconosciuta la massima capacità di movere.

Ora, pensando alla contiguità fra l’insegnamento della retorica nei collegi e la pratica drammatica di cui era imbevuta la vita scolastica nella scansione ordinaria (recitationes et declamationes) e, con maggiore evidenza, negli allestimenti spettacolari, pare impossibile non vedere qui contenuta in nuce la futura teoria dell’actio scenica.

Ricordiamo, per contrasto, la definizione del ramista Iohann Heinrich Alsted per il quale “actio est apta elocutionis enuntiatio”; in essa si nota la significativa riduzione in direzione meramente linguistica dell’espressione del Soarez, vale a dire dei classici romani.

Sono a confronto infatti due orizzonti retorici diversi fra loro: secondo il gesuita, anche il linguaggio del corpo, come la parola, è perfettibile attraverso precetti ed esercizi. Anzi, nel farsi eloquente, anch’esso entra nella sfera della cultura, dell’espressione codificata e sociale, dimostrando l’insufficienza di una concezione del linguaggio come mero atto linguistico. Si pensi del resto al coevo processo di retorizzazione operato dai manuali cinquecenteschi italiani di “civil conversazione” o alla secentesca “arte de’ cenni”: nella codificazione del comportamento sociale del cittadino ideale si dettano regole di convenienza, di decoro, di ricerca dell’aptum che conducono, attraverso la creazione di una maschera esteriore, ad una vera teatralizzazione dell’io, in totale sintonia col modello oratorio ciceroniano. L’affinità fra comportamento ed elocutio era fondata nella sottostante continuità fra interiorità e gestualità.

Fosse essa pensata in termini di dissimulazione o di trasparenza, una retorica del comportamento implicava comunque l’idea di una stretta unità antropologica fra anima e corpo, grazie alla quale l’educazione di una dimensione coinvolge per trascinamento anche l’altra.

Memoria est eloquentiae thesaurus”: la funzione rammemorativa dell’immagine

La citazione del celebre episodio di Simonide di Ceo conduce il lettore alla nozione classica della memoria ereditata da Cicerone e Quintiliano, basata sulla distribuzione in locis delle immagini (13). Definita come “memoria artificiosa”, essa è ricondotta sul terreno più specifico della mnemotecnica, della quale Soarez espone le regole principali. Si trattava di fissare dei luoghi immaginari, raffigurarsi col pensiero ciò che si vuole ricordare, collocandolo in questi luoghi. Così l’ordine dei luoghi avrebbe conservato l’ordine delle cose e l’immagine delle cose indicato le cose stesse.

La nozione di ordine fa sì che la memoria non sia intesa come mero ricettacolo o magazzino ma sia riconosciuta, sulla scorta della filosofia aristotelico-tomista, come facoltà attiva, dotata di una funzione ordinatrice. Essa “non enim rerum modo, sed etiam verborum ordinem praestat” (Soarez, 1569, p.73r) e agisce dunque in sintonia con la generale intenzionalità della mente umana. Inoltre, il suo strutturarsi per luoghi ed immagini “fit ut ordinem rerum locorum ordo conservet, res autem ipsas rerum effigies notent” (Idem, p.73v). La corrispondenza fra i tre ordini (res, loci, effigies) consegna l’idea della memoria come forza ricompositiva e sintetica, capace di ricollocare le parti nel tutto, di condurre ad unità il molteplice.

Ancora una volta è l’immagine ad attribuire forza coesiva alla memoria in forza della sua capacità rammemoratrice: “imago enim cuiusque admonebit, ut quamlibet multa sint quorum meminisse oporteat, sint singula connexa quodam choro” (Idem). La rete delle immagini connette quodam choro, attraverso un gioco ecolalico di richiami; le singole immagini “ordiscono” un tessuto di rinvii e di nessi. Anzi, non è la singola immagine a significare di per sé; a significare è il nesso stesso, il tutto che nel gioco del rinvio affiora. Se a questo si aggiunge la consueta raccomandazione di collocare le immagini in edifici spaziosi e vasti e ad intervalli regolari (modicis intervallis), è difficile non vedere offerta una chiave di lettura per l’interpretazione delle dinamiche di significazione degli apparati festivi.

Le poche pagine riservate dal Soarez alla trattazione della “memoria artificiosa” non devono dunque indurre nell’errore di sottovalutare questo capitolo della retorica, quasi si trattasse di un’appendice. Esso, anzi, ci porta nel cuore di un’interpretazione della mente umana come immenso e quasi inesauribile thesaurus, tanto capace di contenere, purché ordinatamente collocate, le inesauribili res, quanto di connetterle secondo la mobile forza dell’immaginazione.

Interazioni

D'altro canto la totale rispondenza del nostro manuale alla cultura gesuitica più autorevole può essere dimostrata da un confronto, anche rapido, con altre voci a lui contemporanee.

Si pensi, ad esempio, alla Bibliotheca selecta di Antonio Possevino, dove la concezione della retorica e, più in generale, degli studia humanitatis è finalizzata ad una solida formazione umana che raccorda sapienza e pietà e dove al testo del Soarez è attribuita significativamente una funzione normativa. (14)

Si ricordi anche il volume degli eruditi Progynnasmatum latinitatis del gesuita boemo Jacobus Pontanus (1616) dove la pratica scenica è indicata, con affermazione alquanto nobilitante, come esercizio di padronanza per apparire uomini liberi. Una severa pedagogia mirava ad educare tutto l'uomo, anima e corpo, nella conoscenza e nella volontà, forgiandone l’identità:

Videmus praeterea parentes admodum desiderare, ut filii doceantur bene gestum agere, moderari manus, vultum, corpus totum, ac vocem etiam inflectere, atque variare, et in his omnibus posthabito pudore subrustico liberi esse, nihil metuere. Hoc nusquam commodius maioreque cum eorum et aliorum voluptate sit quam in theatro. (Idem, p.474).

Spostando lo sguardo verso la letteratura pedagogica dell'ordine, a ciò che Francesco Sacchini avrebbe affermato agli inizi del secolo successivo, è significativo, ad esempio, l'ampio paragone della costruzione dell'uomo e della sua cultura con l'edificazione di una casa: il gesuita difendeva lo studio della grammatica come cura del fundamentum senza il quale l'ornamento non solo sarebbe vano ma persino dannoso, perché possibile insidia alla stabilità dell'intero edificio (Cf. Sacchinus, 1625, pp.15-17). La similitudine dice esplicitamente della formazione come costruzione del sé attraverso la gradualità, il lavoro, la valorizzazione e l'affinamento del “materiale da costruzione” che la natura fornisce. Non a caso anche Soarez ribadiva, sulla scia di Quintiliano, che l'arte retorica si costruiva “ex natura, arte et exercitatione” (Soarez, 1569, pp.3v-4v): non si tratta di una specularità con l’edificazione morale che partendo dalla disposizione naturale costituita dal temperamento costruisce l'habitus attraverso gli atti?

D'altro canto, così ambizioni progetti pedagogici sulla e attraverso l'eloquenza non potevano che essere fondati in una concezione teologica dell'uomo come colui che porta impresse in sé tracce divine. L'eloquenza può essere elemento civilizzatore, suggerisce Caussin (1651), perché è simulacro, nell'ambito del linguaggio, di ciò che l'anima è per il corpo e Dio per l'universo: concezione animistica e teofanica della parola, dove la struttura analogica dell'essere si serve di simulacri/imagines/species per comunicarsi. (15)

Ora, muovendoci verso la conclusione, vorremmo rilevare il più generale e fondativo progetto antropologico da cui essa trae vitalità.

La reviviscenza del modello classico assume i toni di una provocazione piuttosto che di una quieta accettazione del passato, se si pone in tensione la nozione vasta di ratio, comprensiva di senso, intelletto, memoria ed immaginazione con il contemporaneo depauperamento che il ramismo sul versante retorico e il cartesianesimo su quello gnoseologico-antropologico andavano proponendo. Di fronte ad un'auspicata separazione fra dialettica e retorica, il maestro conimbricense si faceva portavoce di una generazione di intellettuali che ancora credeva nella possibilità di far rientrare il parlare quotidiano nell'ambito della logica: una logica del probabile ma non per questo falsa; una logica del possibile e del verosimile per nulla in contraddizione con la logica necessaria e necessitante del concetto o del sillogismo. Lungi dal temere la presenza di un cartesiano genio maligno, il gesuita prendeva ottimisticamente le mosse dal mondo del sensibile e della communis opinio come orizzonti “naturali” per costruire una ragionevolezza. L'intelligere è dunque un processo complesso, graduale, sfumato, attualizzazione di una vasta gamma di potenzialità, tutte interpellate e coinvolte nella produzione di verba.

In quest'opera di ampio ed illuminato sincretismo, la scolastica non pare in contraddizione con le esigenze umanistiche di una parola civile, forte, impegnata, oltre che nella speculazione, anche nella prassi pedagogica. Pare anzi, semmai, che i postulati neoscolastici dell'unitarietà del soggetto rafforzino ulteriormente il valore umanizzante della concezione retorica ciceroniana. Si pensi alla nozione di actio poc'anzi illustrata e alla convinzione della possibilità di una retorica che si diriga a perfezionare non solo la parola ma anche la corporeità: di fronte alla demonizzazione del sensibile, prossimo e deleterio credo della modernità cartesiana, una piena adesione all'essere e alla parola che lo dice. Presente come species admirabilis nella parola eloquente, nell'emblema, nell'impresa, nel gesto, l'immagine in quanto id quo è l'analogon percettivo in cui l'unità del soggetto si esprime.

Questo però esorbita dal testo del Soarez. Sarà il punto di arrivo del nostro percorso.

Un’antropologia unitaria per un teatro di formazione

La retorica fra conoscenza e moralità

É ora necessario occuparsi della sensibilità, comprenderne a fondo il compito, descrivere il suo rapporto con l’intellectus, focalizzare in modo adeguato l’astrazione, oggetto di frequenti fraintendimenti ed addentrarsi nel non facile terreno della psicologia neo-scolastica, seguendo le questioni De homine, tracciate nelle mappe dei commentatori spagnoli di Tommaso fra Cinque e Seicento. Prendiamo dunque le mosse dalla metafisica tomistica della conoscenza, sulla quale sono state edificate le sintesi gesuitiche dell’età moderna. (16)

Il punto di partenza, il noto adagio della filosofia scolastica - nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu - potrebbe essere parafrasato in termini contemporanei come l’affermazione dell’imprescindibilità del mondo come orizzonte di senso: l’intelletto perviene a sé solo passando attraverso il mondo; l’uomo è - per riprendere la dizione di Karl Rahner (1989) - Geist in Welt. Il pensiero umano è legato alla sensibilità; l’intelligere la comprende, non può prescinderne: come Tommaso aveva già detto, conoscere è avere una visione nei dati sensibili. Questo è uno dei punti chiariti dalla ricerca di padre Lonergan (1984) sulla gnoseologia dell’Aquinate.

Ribadire che l’uomo conosce l’universale solo in particulari addita, tuttavia, non solo lo sforzo astrattivo della mente umana verso il conceptus ma anche il ruolo primario che tutta la sfera infrarazionale occupa nella vita psichica. L’osservazione deve spostarsi a descrivere e comprendere il ruolo dei sensi interni nella produzione del phantasma domandandosi se tali luoghi dell’interiorità siano semplici nessi di congiunzione fra il mondo delle cose ed il concetto oppure, pur nella loro subordinazione gerarchica all’intelletto, non godano di dignità ed autonomia. In che modo, immersi nella corporeità, preparano il pensiero e l’universale, che sono al contrario spiritualia?

La classificazione dei quattro sensi interni già individuati da Tommaso (fantasia, cogitativa, memoria, senso comune) era stata ripresa dalla scuola spagnola e attraverso il filtro di diffusione capillare costituito dal Cursus Conimbricensis era divenuta modello interpretativo ufficiale della Compagnia (17). Fra i quattro sensi interni spetta alla cogitativa un ruolo del tutto particolare. Mentre il senso comune produce la prima unificazione delle informazioni sensibili, la fantasia, pur muovendosi ancora nell’ambito delle res sensatas, inizia il processo di unificazione sulla dispersione spazio-temporale; tuttavia è solo con la cogitativa - potentia più nobile della fantasia e da essa distinta - che si costituisce un “quasi thesaurus specierum”, capace di congiungere, connettere e “dignoscere res non sensatas”  (Commentarii Collegii Conimbricensis […] De anima, 1617, III, 4, q. 1, a. 2).

Con la cogitativa l’insieme delle informazioni sensibili riceve una nuova e più stabile sintesi; essa costituisce l’apice dell’organizzazione dell’attività sensitivo-immaginativa. Inoltre, essa è, secondo la lezione di Tommaso, “ratio particularis” ossia, pur appartenendo all’ambito pre-razionale, si presenta già orientata all’universale. Posta al confine con l’intelletto, essa coglie, senza ancora conoscerlo in quanto tale, l’universale.

Alcune conseguenze possono già essere tratte. Innanzitutto risulta sfatato l’equivoco circa la passività dei sensi: essi, pur non operando discorsivamente, concorrono attivamente all’intellezione (18). L’intelletto agente agisce nei fantasmi, dà un’illuminazione che li imbeve di sé (19). Lo statuto “quasi universale” del fantastico non risulta contraddittorio proprio quando non si interpreta dualisticamente il rapporto sensibilità/intelletto e si presuppone, al contrario, un patrimonio immaginativo non rinchiuso nell’ambito del sensibile, bensì già toccato dalla luce dell’intelligibile. Sensibilità ed intelletto interagiscono al punto che la virtus cogitativa presenta una stretta affinità con lo spirito; si assite a una spiritualizzazione della sensibilità (Cf. Rahner, 1989, pp.255-256).

Tale unità ci conduce al passaggio, delicato ma fondamentale, della conversio ad phantasma. La questione, proposta e studiata da Karl Rahner (1989), è la seguente: il fantasma serve solo per formare il concetto, oppure, esso è indispensabile anche nell’uso di concetti già guadagnati? La questione è centrale per la comprensione del ricorso alla teatralità, all’immagine, al classicismo, quali veicoli sensibili che permettono di riusare i concetti che la nostra mente già possiede. L’immaginazione è una semplice tappa nella formazione del concetto oppure è continuamente necessaria al pensare?

La ricerca di Rahner ha fornito una soluzione che pone sulla nostra strada una chiave di lettura chiarificatrice: la sensibilità è dotata di una sua spiritualità; nel continuum fra sensibilità ed intelletto “la cogitativa è il medium in cui lo spirito e la sensibilità, che da esso ha tratto origine, si uniscono per formare un unico conoscere umano” (Idem, p.256). Il pensiero dell’uomo in questa permanenza in un “corpo non glorioso” necessita continuamente di tornare al sostegno del sensibile e del fantastico per intelligere (20): unde manifestum est, quod ad hoc quod intellectus actu intelligat, non solum accipiendo scientiam de novo, sed etiam utendo scientia iam acquisita, requiritur actus imaginationis et ceterarum virtutum” (Thomas Aquinatis, 1265-74/1891-1906: Summa Theologiae, I, q. 84, a. 7, 3) (Corsivo mio). (21). Il passaggio dal senso all’intelletto non è mai unidirezionale e completato una volta per sempre; il pensare richiede sempre di raccogliere daccapo immagini e simulacri fantastici depositati nella memoria dove le specie riposano, pronte a risvegliarsi alla sollecitazione dell’immaginazione.

Deriva da quanto fin qui detto una precisazione di prospettiva che consente una prima acquisizione.

La necessità della conversio ad phantasma spiega le contraddizioni talvolta inquietanti verso il teatro. Circondato di sospetti, esso è tuttavia continuamente praticato ed insegnato; finalizzato ad educare alla virtù e alla pietà cristiana, non esita a mettere in scena le favole pagane. Vero è, che sedimentati nelle tradizioni mitologiche e nelle favole poetiche vivono elementi di permanenza significativa che rianimano le species depositate nell’intelletto. Verità e valori sovrastorici vengono riportati alla luce dai fantasmi che abitano il palcoscenico. Non solo, il fare teatro permette allo studente, attraverso l’esperienza vissuta dell’animazione della favola fantastica, non vera sul piano dei contenuti ma verissima sul piano psicologico, di riattivare il proprio thesaurus di idee e di valori, attraverso il fantasma poetico.

Anzi, lo sfondamento allegorico assai frequente negli intermedi e nei cori - introducendo, insieme all’effetto chiarificatore apportato dal volgare, interventi orientativi atti a guidare l’interpretazione - conferma che il testo nella sua globalità intendeva agire non solo in chiave allegorica ma, preferibilmente, analogica: attraverso il “quasi universale” orientava verso la misura ideale del vero che nel sensibile traluce “in cortice”. Nella poesia usciva valorizzata la dimensione sensibile del dire poetico. Il cambiamento di giudizio sui fatti e sulla realtà che con la scena si innescava necessitava, per sprigionare tutta la sua forza attrattiva, di essere sollecitato e sostenuto da una parola resa più sapida dalle tecniche della retorica: nei luoghi mentali dove sono raccolte le species intellettive, in quello che - con Origene - potremmo definire il “primus intellectus”, la retorica contribuisce a far risplendere il vero come pulchrum. Il bello è la perfezione del vero. Si ricomprende ora il valore della definizione di elocutio come “luce”, la quale - come abbiamo visto poc’anzi - non costituisce una semplice metafora ma allude alla componente estetica della retorica, che attraverso il colore delle figure crea il bello. Anche il topos dell’ut pictura poesis, celebrato da tutta la cultura del Seicento, valorizzava la vista e la visione come luogo in cui il vero si rende visibile nell’imaginativa e, nel suo manifestarsi, esprime la bellezza.

Ci soccorre un passaggio del Pallavicino - adeguatamente valorizzato da Eraldo Bellini - in cui il gesuita romano, dichiarata la differenza fra vero filosofico e vero poetico, identificava la bellezza con il cernere: “Poësis vero, cuius praecipuum studium est ut admirabilia non tam cogitemus, quam cernamus, consultissime adhibet eam leviculorum expressionem quae fabulam vero simillimam effingat” (Pallavicino citato in Bellini, 1985, p.91, nota 31) (22). D’altra parte la stessa teoria della “prima apprensione” intendeva individuare una “facoltà” che, diversa dallo iudicium e dal discursus (23), attribuisse alla valenza icastico-visiva un indiscusso rilievo conoscitivo.

Ma - occorre chiedersi ancora - come può accadere che la raffigurazione del vero, attraverso la forza attrattiva del bello, mobiliti la volontà? Come si pensava di potere, attraverso la retorica, disciplinare il corpo, ordinare gli affetti affinché questi potessero agire sulla volontà? I testi forniscono ampie ed esaurienti probationes. Seguiamo anzitutto le indicazioni del Cursus Conimbricensis che, per la sua finalità didattica, esponeva con chiarezza i singoli passaggi. Le questioni principali, circa il rapporto fra gli affetti e la volontà e fra l’intelletto e la volontà, possono essere così riassunti. Se è vero, come la stessa auctoritas agostiniana aveva già dimostrato, che “nihil volitum quin cogitum” e dunque la volontà, in quanto atto umano, presuppone una conoscenza (24), è pur vero anche che: “voluntas est potentia immaterialis in animae substantia insidens: appetitus sensitivus est facultas corporea inhaerens in materia; quo fit, ut voluntas reflectatur supra suos actus, quia vult se velle” [Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617, III, 13, q. I, a. 3, 3]. La volontà non può fare a meno di misurarsi con l’appetito sensitivo il quale, è noto, segue la fantasia.

La tesi dimostrata nel primo capoverso dell’articolo in esame afferma appunto che “voluntas rationis ductum sequitur, appetitus sensitivus imaginationem sive phantasiam” (Idem, III, 13, q. I, a. 3, 1). La volontà dunque nel suo seguire l’intelletto deve fare i conti con l’azione di “disturbo” infrapposta dall’appetito sensitivo. L’indisgiungibilità di anima e corpo conduce alla consapevolezza che la sfera pre-razionale degli appetiti e delle passioni può interferire profondamente tanto sulla conoscenza, quanto sul libero arbitrio, come l’esperienza quotidiana dimostra. Eppure, ciò non esclude la possibilità che la volontà agisca sugli appetiti purché tale azione venga intesa come orientamento e disciplinamento, piuttosto che come espunzione. Gli appetiti devono essere trattati più come “cittadini” dell’anima che come “servi”, essere sottomessi politice, piuttosto che despotice (Cf. Idem, III, 13, q. I, a. 3, 5): Con la metafora politica Suárez riconosce sia l’autonomia degli affetti e degli appetiti quanto la possibilità di una strategia di gestione del potenziale psicologico. Quale la via di accesso ad un imperium politicum dell’anima?

Ecco l’importante passaggio:

Ordinarius autem modus, quo voluntas appetitum movet, est per apprehensionem sensus interni: id est, movendo imaginatricem facultatem, v.g. ut de hac, aut illa re cogitet, quam deinde appetitus amplectatur aut fugiat. Quaeri tamen solet, utrum voluntas non hoc dumtaxat modo, sed per immediate interdum appetitum moveat [...]. Verum cum appetitus non feratur in ignotum, dicendum videtur, tunc solum voluntatem immediate et per quandam redundantiam movere appetitum, cum iam in sensu interno existit notitia eiusdem obiecti. (In libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum.... , 1617, IV, q. III, a.3). (Corsivi miei).

Dunque le tracce per rinvenire una via di accesso alla roccaforte dell’affettività riconducono ancora una volta alla cittadella dei sensi interni che si rivelano essere il luogo interiore che permette il guado tanto verso l’intelletto quanto verso la volontà. Su questo punto dobbiamo a Suárez una chiarificazione illuminante: se la volontà sottomette l’appetito politice attraverso la ragione (ossia mostrando le ragioni del bene di un oggetto), tuttavia la ragione può muovere l’appetito solo attraverso il senso interno. E, soprattutto, è ancora nella cogitativa che occorre individuare una potentia particolare: infatti essa a livello speculativo offre il contenuto fantasmatico, a livello pratico, “demonstrando in obiectis maiorem rationem boni vel mali”, diventa la potentia attraverso la quale passa la persuasione. Il filosofo, oltre ad avere indicato il processo che connette voluntas - ratio - cogitativa - appetitus, mostra le radici psicologiche della persuasione e della retorica, che della persuasione è l’arte: operando sui sensi interni la parola eloquente con tutta la forza icastica e l’energia del linguaggio figurale, rendendo bello il proprio vero, suscita l’interesse dell’immaginazione, piacendo interpella l’appetito e sollecita l’assenso e dunque “politice movet regendo, non cogendo” (Suárez, 1621/1856a: De anima..., V, 6, 2). Il francese Jouvency con la chiarezza e la concretezza di un precettore scolastico avrebbe persino individuato nel suo De ratione discendi et docendi del 1691 (Iuventius, 1856), una corrispondenza fra figure retoriche e facoltà psicologiche, mostrando chiaramente che la lode dell’elocutio “illuminata” attecchiva in una consapevole scelta antropologica (25)

Retorica per un “corpus non gloriosum

Unità del soggetto, retorica dell’actio e teatralità

Il progetto di una retorica che attraverso il “governo delle passioni” susciti l’assenso - perché solo l’assenso alla verità e ai valori rispetta la libertà umana - richiede di puntualizzare ulteriormente la concezione antropologica.

La consapevolezza dell’unità del soggetto occhieggia anche fra i passaggi delle più sottili dispute filosofiche. Nel poderoso impianto logico-sistematico dei commentari teologici, nel fitto susseguirsi di quaestiones e disputationes, non andava smarrito il senso profondo della realtà umana come coscienza integrata, sostenuto da un’attenzione finissima alla psicologia, anche a costo di non rispettare il dettato aristotelico-tomistico. Così sentiamo, ad esempio, Gregorio di Valenza concludere la propria densa disquisizione sui rapporti fra intelletto e volontà, con la precisazione che comunque “exercitio et specificatio actus [sunt] reipsa unum et idem” (De Valentia, 1592, col. 206c) (26); oppure Francisco Suárez difendere una radicale riduzione di tutti i sensi interni ad unità, disegnando una mappa del nostro mondo interiore in cui la consapevolezza logica delle distinzioni atte a far comprendere la complessità della nostra vita psichica non elide in alcun modo l’altrettanta viva consapevolezza psicologica, supportata dalla realtà, di un’ininterrotta circolazione fra alto e basso, con continui sconfinamenti e sfrangiamenti di una facoltà nell’altra, zone di penetrazione dell’intelletto nella sensibilità (27). Nella discussione riguardante l’appetito sensitivo, l’argomentazione conclude che quello umano - erroneamente confuso con l’inclinatio o la propensio naturalis degli animali che li condiziona in modo necessitante - è nell’uomo “informato” da una cognizione che lo muove - anche a questo livello “basso” della vita psichica - “vitaliter et intentionaliter” (Suárez, 1621/1856a: De anima, V, 1, 3). Un’autorevole tradizione filosofica antica e patristica ha considerato questi appetiti sensitivi, comunemente chiamati passioni, come elementi di per sé inordinati, perturbatori, indegni di risiedere nel sapiente, e in Cristo accettati solo dopo essere state depotenziati a livello di “propassiones”: qui la critica di Suárez si appunta esplicitamente sullo stoicismo, sullo stesso Cicerone che nelle Tusculanae disputationes appellava le passioni perturbationes, su Seneca e sullo stesso S. Gerolamo (Idem, V, 5, 1). La riabilitazione delle passioni passa attraverso il riconoscimento della loro neutralità; dipendendo la loro bontà o malizia “pro ratione objecti ei circumstantiarum, accedente consensu voluntati”, sono attribuite a Cristo stesso. Ne consegue l’innaturalità di un progetto che non intenda riconoscere che “virtus non destruit naturam, sicut sanitas non destruit humores, vel qualitatem, nec musica sonum, sed temperat” (Suárez, 1599/1856: De actibus, disp.I, sect. 2, n. 2) (Corsivo mio).

Il radicamento fisiologico degli appetiti nel cuore (28), il nodo irresecabile fra la complessione fisica e l’anima (29), non impongono, come potrebbe intendere un’antropologia banalmente psicologistica, una sottomissione necessitante del corporeo allo spirituale ma piuttosto indicano che nel plesso unitario della coscienza, è possibile anche il processo inverso: l’immaginazione, in virtù del suo essere bifronte, tanto muove gli impulsi sensibili (30) quanto li offre alla valutazione della ragione, allo stesso modo in cui nei cieli la sfera superiore attrae nella propria orbita quella inferiore (31). Così per redundantiam il perfezionamento morale rifluisce di nuovo sul sensibile che ne esce armonizzato ed ordinato. In termini contemporanei: l’impossibilità per l’umano nell’attuale condizione ontologica di raggiungere la pienezza conoscitiva e morale a prescindere dalla propria corporeità, comporta il riconoscimento delle passioni come sorgenti di vitalità ed energia psichica. In quel “virtus non destruit naturam [...] sed temperat”, la sfera del corporeo risulta elevata, riscattata dal limite che la segna ma non la condanna. Sullo sfondo: una filosofia religiosa del corpo umano considerato imago del corpo di Cristo che fu Verbo incarnato ossia corpo divino, considerava l’incarnazione non come mortificazione della pienezza del Verbo ma come arricchimento dell’umanità (32). L’ottimismo etico riconosciuto come la cifra caratterizzante dell’antropologia gesuitica (33) - nel quale l’accettazione della debolezza della carne non ne comporta l’annullamento mistico bensì la promozione ascetica attraverso la dimensione psicologica dell’autocontrollo e la misura etica della medietà - spiega la fiducia nella capacità di costruzione della persona attraverso l’esperienza, emotiva ed intellettiva, della scena. Nella scena si insegna ad essere uomini liberi, secondo la lezione di Pontano.

Proprio la nozione dell’unità del soggetto spiega l’investimento pedagogico sul teatro: l’unità psico-fisica dell’uomo consente la transitività fra l’educazione della “parte” intellettiva e di quella sensitiva; l’educazione dell’anima - che a teatro si esprime attraverso la parola e la voce - è inseparabile dall’educazione del corpo - gestualità e danza - e ambedue con la stessa efficacia contribuiscono a formare la persona. Educare il corpo significa educare anche l’anima. Grimaldello psicologico per penetrare nel “castello interiore” è propria la sfera dei sensi interni dove - come si è visto - potenze sensitive ed intellettive convergono: “ipse idem homo est qui percipit se intelligere et sentire” (Thomas Aquinatis, 1265-74/1891-1906: Summa Theologiae, I, q. 76, a. 1).

Poggia su questo progetto la retorica applicata alla teatralità.

Si pensi all’esercizio sulla parola e alla valenza che assume nella rappresentazione teatrale la retorica dell’actio.

L’educazione alla parola attraverso l’actio scenica comportava la presa di coscienza, da parte dello studente, della possibilità di comunicare, attraverso la voce, i propri adfectus, trasformando il semplice sonus in un elemento vocale pienamente umano. Il commentatore di Coimbra si sofferma con la consueta puntigliosità a descrivere la fisiologia della voce ed il ruolo che polmoni, laringe, muscoli intercostali giocano nell’emissione di una voce armoniosa (Cf. Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617, II, 8, q. 3, a. 1) ma spiega con altrettanta chiarezza - sviluppando la dottrina aristotelica - che affinché il suono diventi voce e la voce si faccia pienamente umana, occorre che sopravvenga una significatio (Idem, a.2), un’intentio che la pongono in presa diretta con un’interiorità. “Cur - chiede il maestro portoghese - audiendo magis quam legendo recreamur, hinc enim editis fabulis in theatro, mira oblectatio, non ita vero, si easdem ex conscriptis libris addiscamus?” (Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617, p.471) (34). Con realismo psicologico si mette in luce che l’ascolto richiede meno fatica (Cf. Idem, ad primum), che “ex sedula vero actione maior percipitur iucunditas” (Idem, ad quintum); con concreta attenzione ai meccanismi recettivi si sottolinea che “in narratione societas etiam datur, quae naturae hominum maxime consentanea est, in lectione solitudo” (Idem, ad quartum) ma si individua la motivazione più cogente nel fatto che la voce “magis afficit sua inflectione” e, soprattutto, si declina secondo i movimenti dell’anima libera che la piega e la fa aderire a sé: “Adde, ceterorum sensuum obiecta nostrae libertati non substare, sicut et vocem” (Idem, sectio III, p.476). Se così è, alla voce è qui assegnato, sulla scia di un’antica tradizione, un valore psicologico: nell’inflessione della voce si specchia il ritmo dell’anima.

Lo stesso può essere detto, per affinità, della gestualità, considerata al pari della voce, lo spazio in cui riecheggiano i “varios sensus animi”.

Riannodiamo alcuni passaggi storici.

Quinta ed ultima parte della retorica classica, la valutazione dell’actio da parte di Cicerone e Quintiliano compariva connotata da una sostanziale duplicità: riconosciuta come ineludibile linguaggio del corpo “actio, quae prae se motum animi fert, omnis movet” (Cicéron, sec. I a.C./1950-1957: De oratore, III 223) (35), era tuttavia investita di una certa diffidenza per il suo possibile risvolto “basso”. Si comprende in tal modo la contrapposizione ciceroniana fra histrio e actor - dove alla connotazione del primo termine faceva da pendant la valutazione positiva del secondo che indica l’attore iniziato alla retorica (Roscio) - e la valutazione negativa del comoedus, contrapposto all’orator, da parte di Quintiliano (sec. I d.C./1975-80) (36). Nel suo passaggio alla cultura cristiana, superate le ambiguità che attraversarono l’epoca medievale, la gestualità fu oggetto da parte della regolarizzazione tridentina di un severo disciplinamento ma anche di una profonda valorizzazione per l’intrinseca capacità di persuasione. A latere, la cultura cinque-secentesca andava elaborando una retorizzazione del linguaggio gestuale che, oltre a riconoscere anche a livello teorico uno spazio di autonomia del gesto rispetto alla parola (37), ne faceva il cuore della pittura, dell’iconologia, della fisiognomica. In questo scenario, la retorica gesuitica saldamente sostenuta dai pilastri di una teologia protesa - come s’è detto - a valorizzare pienamente la natura, disponeva di tutte le armi teoriche per proporre una modellizzazione del corpo attraverso una completa teoria dell’actio e anche di uno strumento pedagogico, quale la Ratio studiorum, atto a calare queste linee teoriche nella concreta prassi pedagogica. Ai poli dei due secoli, due testi emblematici disegnano la traiettoria ideale di una parabola ascendente che dall’ambito della retorica sacra aveva trasportato l’educazione del corpo e del gesto nella quotidianità della vita di collegio. Mentre nelle Vacationes autumnales di padre Louis de Cressoles (1620) la completa semiotizzazione del corpo - che fa del gesto educato e formato il veicolo di una comunicazione consapevole e alta - era ancora finalizzata all’eloquenza sacra, nelle pagine del già citato trattatello di Jouvency (Iuventius, 1691/1856) De ratione discendi et docendi si riconosce ai “saltatores” la capacità di educare una volontà libera e alla “dramatica chorea” lo stesso statuto di poesia (38). La pedagogia gesuitica, alla ricerca di un equilibrio fra le esigenze dell’intelletto e della sensibilità, intendeva forgiare la persona secondo il principio morale della moderazione: ma educare alla moderazione significava - come insegnava poc’anzi Suárez - non solo, in negativo, censurare ma anche promuovere il sostrato umano della comunicazione insegnando a dare un corpo alla parola: la virtù non distrugge la natura ma la corregge.

È ora possibile comprendere la difficoltà di classificare il teatro di collegio. Non semplicemente riassumibile nella sigla del teatro religioso dal quale lo allontanano i temi ampiamente contaminati con la mitologia classica, la predilezione per la tragico-commedia, l’uso del linguaggio della danza; d’altro canto profondamente diverso da un semplice fatto mondano a causa delle modalità di fruizione elitaria nella microsocietà del collegio, della sua spiccata qualificazione festiva, della costruzione drammaturgica corale, esso gode della specificità di essere “teatro di formazione”. Almeno tre erano i livelli di fruizione del testo. Un primo livello letterale, scolastico, faceva del testo una messa in scena delle acquisizioni culturali dello studente: l’apparato citazionale, le abilità psico-motorie della danza e del ballo, il canto, la capacità di parlare in pubblico si incontravano a fornire con lo spettacolo un racconto, un intreccio, una visione. Un secondo livello, encomiastico, epidittico, veicolato dall’allegoria, faceva agire lo spettacolo come logos, come significato afferrabile non intuitivamente ma riflessivamente, come messaggio morale. Infine, ed è il livello peculiare del teatro di collegio, il testo era per gli allievi stessi la tappa conclusiva di un lavoro di gruppo, condotto sotto la guida del chorago (il professore di retorica). A questo livello, la rappresentazione né dilettava, né insegnava ma era il frutto di una costruzione e di una formazione avvenuta. Quasi Bildungsroman, l’esperienza drammaturgica diventava fine a se stessa, si riscattava dal piatto didascalismo. A questo livello, la drammaturgia di collegio fungeva da laboratorio teatrale a pieno titolo dove a contare erano le prove di gruppo, la stesura di un testo drammatico con aggiustamenti del canovaccio sulla e per la scena, la centralità delle tecniche (imparare a memoria un testo, recitarlo, ballare ecc.). Si allestiva anche un laboratorio di comunicazione: proprio la continuità fra anima e corpo, fra anima, voce e gesto, imponeva che si inframmettesse il filtro educativo della retorica allo scopo di aprire l’io all’armonizzazione sociale. In questa prospettiva, la retorica e le rappresentazioni scolastiche si atteggiavano a prassi di autocontrollo e di autoregolamento delle passioni e delle emozioni e - in un’epoca estranea al valore della spontaneità - la dissimulazione assumeva i connotati di un’ascesi intellettuale che poneva il vertice dell’armonizzazione fra vita affettiva e razionalità nella creazione di un’identità sociale.

Questa retorica del comportamento come “ragione prudenziale” richiede ora al nostro discorso un ulteriore e conclusivo approfondimento.

Il compito della perfezione, la virtù della prudenza: per una retorica della creaturalità

Il classico studio di Edgar Bruyne (1946) sull’estetica medievale ha mostrato con esemplare chiarezza come la teoria dell’arte di S.Tommaso ponga al cuore del suo sistema l’idea che l’attività artistica dell’uomo possa essere definita in rapporto all’attività creatrice di Dio (39). Da questa osservazione può avviarsi la nostra riflessione sui testi secenteschi, alla ricerca delle connessioni fra la retorica, la teatralità e la formazione dell’uomo alla virtù, in modo particolare alla prudenza, vertice delle virtù civili.

L’opera d’arte, concepita nell’intelligenza di un artista immerso nell’esperienza e realizzata da una volontà che si applica ad una materia preesistente, assomiglia in qualche modo ad una creazione. Le osservazioni, ad esempio, di Jouvency sulla fictio sottolineano con insistenza il ruolo attivo e creatore che l’immaginazione riveste nell’invenzione (Alberti, 1987).

Il gesuita polacco Sarbiewski, partendo dalla consueta differenza aristotelica fra storia e poesia, dopo aver dilatato al massimo la potenza creatrice del fare poetico come possibilità di dar forma ad una “materia” presente tutta e solo nella mente del poeta, così come tutto era nella mente di Dio prima della creazione, è poi costretto a cedere di fronte al fondamento ontologico: lo stesso poetare è un fatto creaturale; il poeta, simile a Dio ma non Dio, non può supporre materie ed argomenti che non siano già dati. Può plasmarli e riformularli fino ad ottenere forme nuove ma anche la poesia deve avere una sua materia; opera del poeta è “simul quasi per quandam creationem et materiam condere et formam rerum”, secondo un fare in cui l’imitare sfuma in una “quasi” creazione a secondo che il lettore valuti la “res apprehensa et cognita” piuttosto che l’operazione di fusione della forma nella materia (40). L’immaginazione creatrice modella dati sensibili che, nel caso della poesia, debbono essere ricercati non nel mondo naturale ma in quanto altri poeti hanno prodotto: la creta su cui il poeta insuffla la sua creatività non può che essere la tradizione (Alberti, 1987).

Il discorso si sposta così sull’imitazione che, ricondotta nell’orizzonte della finitezza umana, non può essere interpretata come contenimento allo slancio inventivo dell’artista, bensì come nobilitazione del fare poetico: imitare non significa ripetere pedissequamente ma assorbire e metabolizzare un patrimonio straordinario, carico dell’esperienza di uomini, spesso geniali, che hanno già tracciato una via.

Nell’ottimistica prospettiva pedagogica della Ratio studiorum, i classici erano i giganti sulle cui spalle il giovane studente guadagnava una vista più acuta. La ragione profonda del classicismo si annidava - mi pare - su un’antropologia che, pur riconoscendo l’infinita potenzialità conoscitiva umana, la riconduceva realisticamente alla finitezza, affermava la necessità che essa partisse dai dati, ossia dai phantasmata forniti dal proprio mondo culturale: coltivare i classici e studiarli memoriter non era operazione retrospettiva ed anti-moderna. Necessità dell’umana condizione di Geist in Welt, è che l’orizzonte in cui l’uomo è radicato possa e debba essere oltrepassato solo dopo un faticoso attraversamento. Così, la tecnica praticata e teorizzata dell’ “intarsio”, il procedere per citazioni, il centonare dove il gioco dell’attività combinatoria sembra tanto inesauribile quanto scolastico, non erano in realtà altro che proteiformi manifestazioni della medesima idea di “creazione” come riuso, metabolizzazione di fantasmi e di immagini già interiorizzati. La memoria, gigantesco serbatoio di miti, di immagini, di valori, forniva i mattoni necessari all’edificio della drammaturgia, dello spettacolo, degli apparati: personaggi mitologici, al pari dei profeti biblici, erano i “dati” che la retorica eleva e organizza in un corpo simbolico. Questa modalità di invenzione, come ogni processo conoscitivo, fa sì che nel sensibile irrompa la luce dell’intelligibile. Memoria e immaginazione accostano, connettono, suggeriscono nessi e analogie mentre la tecnica della retorica dà al materiale l’unità che lo eleva, per l’intrinseca intenzionalità che lo viene ad inabitare, in qualcosa di ordinato, coeso, finalizzato e nuovo.

Ma, l’infinito gioco combinatorio dei possibili su cui la retorica esercita la propria tecnica non sarebbe possibile se non ci fosse la memoria e non avrebbe senso se a reggerlo moralmente non intervenisse la prudenza.

Riflettiamo sul nesso vitale che connette prudenza e memoria, anche alla luce delle vicende dell’antica arte della memoria. Come insegna il testo classico di Francis Yates (1972), nelle sintesi filosofiche sia di Alberto Magno che di Tommaso d’Aquino si operò una saldatura fra il De anima di Aristotele ed alcune fondamentali osservazioni ciceroniane: se dalla teoria psicologica aristotelica i due domenicani ricavavano la necessità della mediazione iconica anche nella rappresentazione dell’invisibile (ad esempio, di vizi e virtù) e della memoria come thesaurus di tutte le species, da Cicerone essi ereditavano la sussunzione della memoria nella prudenza (41). Ne derivarono due conseguenze: eticizzata, la memoria diveniva per Alberto habitus morale, perfettibile attraverso l’esercizio, mentre la prudenza, avendo la memoria come sua parte integrante, aveva anch’essa bisogno delle species sensibili; memoria e prudenza finivano ambedue per necessitare di immagini per esercitarsi. Inoltre, e siamo ad un secondo passaggio, i principi codificati in età classica sull’opportunità di modellare la memoria artificiale con loci ed immagini, a causa dell’equivoco dell’attribuzione a Cicerone della Rhetorica ad Herennium (42), entravano a pieno titolo nelle quaestiones del De bono o della Summa Theologica dedicate alla prudenza. Il seicento gesuitico ereditò in toto le acquisizione medievali: la trattazione della memoria e della prudenza di Galluzzi comprova, dal riscontro sinottico operato con il testo medievale, la sostanziale continuità. Poiché la prudenza si serve della memoria “veluti praesidium” e la memoria non può operare senza immagini sensibili, anzi può essere avvantaggiata dall’applicazione dei “quatuor praecepta” sapientemente insegnati da Tommaso, si può concludere che dall’uso delle imagines agentes ed in modo particolari di immagini in grado di colpire vehementer gli adfectus, trarrà vantaggio anche la prudenza.

Queste note aprono uno spiraglio interpretativo: nella statuaria degli apparati effimeri costruiti nelle città dove le personificazioni allegoriche consentono alla “memoria rerum” di fissarsi nello spirito, nella predilezione per l’immagine metaforica dei testi drammatici, nella predominante visività dei testi a noi noti, si possono intravedere possibili tracce dell’ars memorandi. È certo che la strategia complessiva che governava gli apparati consisteva nella simultanea sollecitazione di rammemorazione ed immaginazione, nella costruzione di un percorso interiore attraverso il graduale, ordinato squadernarsi delle immagini. Nella ratio umana - che nel sensibile ha la propria origo ed al sensibile deve sempre ritornare - memoria e prudenza si nutrivano l’una dell’altra.

Tuttavia, per capire in quale modo la retorica agisse in questo nesso, occorre riflettere sulla connessione fra prudenza e retorica. Molteplici invero sono le tangenze. Medesimo lo statuto gnoseologico: né scienze, né opinioni, producono conoscenza ma non dimostrazioni (43), come la retorica sviluppa ragionamenti che muovono da premesse probabili e costruiscono una ragionevolezza orientata al concreto, così la prudenza è la virtù che, a stretto contatto con le passioni, discerne il bene dal male e orienta la scelta verso il bene concreto (Cf. Gallutius, 1645, p.128). Ambedue orientate all’azione, radicate negli affetti ma rivolte alla loro normalizzazione, condividono il comune destino di agire in quella zona intermedia fra senso ed intelletto che abbiamo visto essere differenza specifica dell’umano. Anche la prudenza utilizza la cogitativa nella sua applicazione nella vita quotidiana, ricevendo come materia del ragionamento la varietà delle azioni possibili o la varietà degli aspetti e dei punti di vista di una medesima azione. La prudenza necessita, per produrre il suo consilium, di vedere chiaramente l’esperienza. Da dove trarrà soccorso se non pescando dalla memoria, dall’immaginazione e dalla cogitativa le species che la retorica trasfonderà in immagini? Retorica e prudenza nella messe degli stimoli sensibili, introducono la luce dell’intelletto sicché, sul terreno comune della visio, esse si raccordano in profondità. Per questo, come Tarquinio Galluzzi afferma facendo propria la lezione di Tommaso e di Aristotele, solo ai prudenti come ai vecchi e al contrario dei bambini, è consentito approdare alla perfezione dell’intelletto; essi, carichi di esperienza, sono giunti alla maturità che richiede tempo ed esercizio e grazie ad essa possono con occhio penetrante giudicare: “nam quia habent ab experientia oculum, cernunt principia” (Idem, p.138). Se così è, si può ipotizzare che il senso profondo della teatralità vada ricercato nella sua capacità di costruire mondi possibili che allenino a capire e affinino lo sguardo a intravedere la ragione dietro il fatto. Verosimilmente, per questo l’interlocutore del dialogo pontaniano affermava che l’actio scenica augetur [...] prudentia et cognitione” (Pontanus, 1616, p.475).

Prudentia e cognitio sono i due volti, morale e intellettuale, che la retorica a teatro coltiva: esercizio di prudenza perché allena alla “ragion pratica”, esercizio alla ricerca del vero che nella storia è calato nella corporeità e offuscato dal segno. Vedere rispecchiata in controluce la storia nelle favole mitologiche, immergersi nel colore e nel sapore della parola eloquente, apprezzare e poi decifrare il senso di un’allegoria, godere del bagliore affascinante degli apparati e poi riflettere, significa, in fondo, riproporre la selva del sensibile per educare, attraverso la “creazione” retorica, lo sguardo a discernere il vero ed il cuore a diventare prudente. Si legga come Galluzzi descrive il modo di osservare del prudente:

Quo circa prudentis viri partes sunt ac munera et antequam aggrediatur aliquid, et postquam est aggressus, diu multumque et simul omnia considerare et discretim etiam singula providenterque prospicere, et quae necessaria visa sunt, apparare, et nunc cunctari, nunc festinare, nunc insistere, nunc cedere, modo incalescere, modo refrigescere, introrsus res ipsa perspicere, ad singula intentum esse, observare tempora, locum, personas, res, negotia, inter seque discernere, vertere, etiam sese perinde ut casus, fortuna, rerum eventa, inopinatique exitus tulerint, ac nunc simulare, nunc dissimulare, dum ne id fiat dolo malo, sollicitari animo, cavere ad passus singulos, ne concidat diligentiam ubique summam retinere, in primisque adhibere delectum, nec a se ipso discedere ecc. (Gallutius, 1645, pp.143-144).

Come non riconoscere nella modalità in cui dispone lo sguardo la prudenza, le stesse modalità di fruizione di uno spettacolo? Ricondotta alla propria Ursprung, la visio teatrale è, dunque, luogo di formazione, raccoglimento e manifestazione della ragione prudenziale - ossia della moralità - e la retorica è “figura” del lavoro ermeneutico richiesto all’uomo per giungere alla comprensione di sé e del mondo.

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 Note

(1) A riprova della sua autorevolezza all'interno della cultura ufficiale dell'Ordine, si leggano le lodi tessute da padre Perpinya nel 1565, in Lukács (1965-1992) vol.2, p.651. Per quanto riguarda la bibliografia critica segnaliamo i seguenti lavori: Flynn, 1956; Battistini, 1981. Di taglio filosofico ed utile ad individuare nel testo i caratteri di una cultura anti-cartesiana, Botturi, 1991, pp.22-47 (su Soarez nota 54).(volta)

(2) Sull’opportunità di smantellare la consueta antinomia fra Scolastica ed Umanesimo si era già espresso nel 1935 Ernst Lewalter in un contributo filosofico di alto profilo - ora tradotto in italiano- nel quale lo studioso documentava la penetrazione della filosofia spagnola nella Germania luterana: Lewalter, 1998. Seppur da un punto di vista antinomico rispetto a quello del Lewalter, anche Walter Ong (1974) sottolinea che gli umanisti, fra i quali lo stesso Erasmo, avevano rifiutato le degenerazioni logicistiche della tarda scolastica medievale ma non la lezione teologica dei grandi maestri: Alberto Magno, Bonaventura e, soprattutto, Tommaso. (Cf. Idem, pp.91-94).(volta)

(3) Per un quadro generale sulla fioritura neoscolastica si vedano Iserloch, Glazik e. Jedin, 1993; Willaert, 1966, pp.226-320 (sulla teologia positiva in modo particolare pp.286-320). Tanto lo storico tedesco quanto il francese insistono sulla novità apportata dalla scuola di Salamanca come rinnovamento radicale della Scolastica medievale in nome della chiarezza, della critica testuale della Scrittura, della rigorosa analisi delle fonti. Si tratta di un'interpretazione di grande rilevanza che sottrae questo immenso lavoro culturale all'accusa, spesso pregiudiziale, di dogmatismo. Ad identici criteri di rigore filologico si ispirava il corso filosofico pubblicato dal 1592 al 1606, per decisione del generale dell'Ordine, dai professori del Colegio des Artes di Coimbra. Il corso, che ebbe un influsso, per il suo tempo, universale (la sua influenza si irradiò nelle colonie portoghesi oltreoceano e in Cina dove portò la logica occidentale) sviluppava una severa critica, esaminava le diverse posizioni storiche, analizzava le fonti con rigore filologico e non ignorava gli autori contemporanei e i risultati dell'“esperienza”. La posizione assunta era in generale critica e moderata, “molto distante dal dogmatismo che una malinformata e settaria critica antiscolastica, con leggerezza attribuì ai Conimbricensi”. (Tavares, Bacelar e Oliveira, 1979, pp.448-449).(volta)

(4) Nei Monumenta Paedagogica Societatis Iesu (Lukács, 1965-1992) è documentata l'adozione del testo nelle principali università europee gesuitiche: esso risulta nel catalogo dei libri in adozione a Gand nel 1574 (Vol. 2, p.156), a Coimbra, Evora e Lisbona nel 1564 (Vol. 3, rispettivamente pp.585-586, 592, 596-597), nelle tedesche Inglostadt nel 1568 (Vol. 3, p.573), Magonza e Spira nel 1576 (Vol. 4, pp.363, 377, 379) e, non ultimo, al prestigioso Collegio Romano nel 1564 (Vol. 2, p.507). (volta)

(5) Cf Lukács, 1965-1992, Vol 2, p.211, 244; Vol. 5, p.430.(volta)

(6) Cf. Lukács, 1965-1992, Vol. 2, p.759. Si veda anche la p.642 dove Soarez compare elencato da Padre Perpinya fra gli autori necessari allo studio dell'eloquenza.(volta)

(7) Traggo le citazioni dall’edizione cinquecentesca: Soarez, 1569. (Essendo le pagine del proemio non numerate, ho continuato la numerazione in lettere della dedica Christiano lectori).(volta)

(8) La citazione è tratta dalla redazione definitiva della Ratio del 1599.(volta)

(9) Soarez, 1569, p.40v: Il topos dell'ornato come colore della parola ritorna a più riprese e rinvia alla dottrina scolastica della conoscenza. La possibilità di istituire l'analogia fra intelletto agente ed elocutio mi pare suggerita proprio dalla ripetuta metafora della luce con la quale, come è noto, la teoria aristotelica indicava il ruolo di tale intelletto. Come si ricorderà, Aristotele nella necessità di spiegare il passaggio dalla potenza all'atto dell'intelletto, aveva distinto fra un intelletto possibile ed uno attivo. Aristotele (1966) (De anima, III, 5, 430 a 10 segg.) scriveva che “vi è dunque un intelletto che è tale perché diviene tutto, e un altro che è tale perché realizza tutto, ed è un abito simile alla luce (oion to phos): anche la luce, infatti, fa divenire colori in atto i colori in potenza”. Dal momento, poi, che presso i pensatori cristiani la dottrina aristotelico-araba dell'intelletto agente si congiunse con la teoria agostiniana dell'illuminazione, si vede come la luce fosse qualcosa di più di una semplice immagine metaforica ed assumesse invero il carattere di una nozione gnoseologica.(volta)

(10) Si ponga attenzione sulla differenza fra locutio ed elocutio, perché nello spazio semantico e metaforico di quell' “e” si situa il regno retorico. Tommaso scriveva: “Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri manifestare” (Thomas Aquinatis, 1265-74/1891-1906: Summa Theologiae, I, q. 107, art. 1.). I vocaboli sono, etimologicamente, voci che portano all'esterno il conceptum mentis, ma lo veicolano sempre - essendo l'intelletto umano non separato - attraverso un medium in quo. La similitudine della parola (il verbum mentis) con la spada chiusa in un fodero e, dunque, inutilizzata e/o inutilizzabile, dice della necessità dell'eloquenza. Serve infine precisare che il salto dal piano della locuzione a quello dell'elocuzione corrisponde al passaggio fra il piano della natura e quello dell'arte: “Hoc itaque maxime docetur, hoc nullus sine arte assequi potest” (Soarez, 1569, p.39v).(volta)

(11) Giova a questo punto ricordare che l'intelligenza umana, secondo la scolastica cristiana, conosceva un duplice piano: la species sensibilis e la species intelligibilis che a loro volta erano distinguibili in due ulteriori gradi: species impressa ed espressa. Il passaggio dalla res al verbum avveniva secondo questo schema: res - specie sensibile impressa (= sensibile in quanto presente al soggetto senziente) - specie sensibile espressa (= fantasma o imago = riproduzione rappresentativa dell'oggetto) - specie intelligibile impressa (= similitudine intelligibile dell'oggetto dovuta all'azione dell'intelletto agente) - specie intelligibile espressa (= conceptum, verbum mentis). Tutto può essere riassunto affermando che “vocabula significans tum res tum conceptus; sed hos immediate, illas mediate”; oppure che “vocabula dicuntur suppositiva rerum [...] sed manifestativa conceptuum”. (Remer, 1933, p.18). Il rapporto di immediatezza suggerito dalla metafora della luce sollecita a interpretare l’oratio come “manifestativa conceptuum”. Al di là dell'apparente astrattezza, in questa catena di passaggi sono contenuti alcune implicazioni cariche di suggestioni per il nostro lavoro: 1) la connaturalità della nozione di imago come nesso onto-gnoseologico fra res ed anima, dovuta alla fondamentale funzione mediatrice e speculare della species rispetto alla realtà; 2) il valore oggettivo del conoscere dal momento che le specie sono intenzionali, ossia vi è fra specie intelligibile espressa e specie sensibile impressa un’in-tentio, una gravitazione per cui il pensiero resta in riferimento alla realtà extra animam; 3) la necessità per il verbum mentis umano di incarnarni di nuovo, per essere comunicabile, in un id quo sensibile: voce, gesto, disegno, musica.(volta)

(12) Cfr. De oratore, I 18 e 213; II 184; III 213 e segg (Cicéron, sec. I a.C./1950-1957); Institutio oratoria, III 3, 1; XI 3, 1 (Quintilien, sec. I d.C./1975-80).(volta)

(13) Il celebre episodio narra che Simonide di Ceo seppe riconoscere i corpi dei commensali uccisi durante un banchetto dal crollo del tetto, grazie alla sua memoria che aveva “fotografato” i singoli ospiti secondo il posto occupato a tavola. L'episodio, addotto come prova dell'utilità per la memoria di collocare le immagini mentali in luoghi (loci) secondo un ordine, si trova in De oratore (Cicéron, sec. I a.C./1950-1957, II, 351-358), in Institutio oratoria (Quintilien, sec. I d.C./1975-80, XI 2, 11-22) ed è stato poi ripreso negli Ad Herennium libri quatuor. In verità, in questa parte del suo manuale, Soarez non cita mai come fonte esplicita quest’ultimo testo, sebbene ne presupponga delle nozioni.(volta)

(14) Antonio Possevino, voce fra le più autorevoli nella progettazione di un cursus ideale per l'uomo di cultura del suo tempo, propose un'eloquenza ampiamente ispirata alla lezione dei Padri e propugnò il trionfo di una poesia cristiana che detronizzasse le fabulae pagane: “Cano inquam, non Troiam, non Argonautas, non aprinum caput, non celebrem Herculem, non quomodo aptissima compage terra cum mari cohaereat, non gemmarum splendorem, non caelestium orbium cursum, non furiosos amores, non eximiam iuvenum, lyram prioribus digitis molliter pulsantium, formam. Verum Deum illum magnum, Trinitatisque lumen cano, magnosque Angelorum hymnos, quibus propius stantes certatim mecum celebrant, cano etiam mundi concentum, et quidem praesentis vitae concentum longe prestantiorem, quem omnibus rebus ad unum finem properantibus avide expecto. Cano insuper immortalem christiani passionum gloriam, quibus me humanam formam caelesti admiscens Divinitate affecit” (Possevinus, 1593, p.262). In verità la nascita di questo Parnaso cristiano non poteva non assimilare la sapienza classica. Da qui la difesa degli antichi (Cf. Idem, p.263) così come di non pochi moderni, quali Antonio Minturno, Giovambattista Giraldi, Giovambattista Pigna, Ludovico Castelvetro (Cf. Idem). Sono presenti i più significativi autori cinquecenteschi, pur nella diversità delle poetiche sostenute e teorizzate, a segnalare una valutazione molto attenta della modernità.(volta)

(15) Scrive il gesuita francese: “Animus simulachrum Dei est; Deus animus est, eloquentia divina est. Quod est Deus in mundo, animus in corpore, hoc eloquentia in vita civili” (Caussin,1651, p.3).(volta)

(16) È stato Rahner (1989) ad indicare la necessità di usare tale espressione per indicare le quaestiones 84-86 che trattano della “cognitio corporalium” (Idem, p.20) proprio perché esse conducono al cuore della concezione tomista del conoscere umano.(volta)

(17) Lascio al teologo Gregorio di Valenza il compito di fornire, con la precisione che caratterizza tutto il suo lavoro esegetico, le definizione dei quattro sensi interni: “Sensus communis obiectum est quidquid per aliquem ex quinque sensibus est sensibile, atque etiam ipsae sensationes sive operationes sensuum exteriorum et differentia illarum, atque obiectorum earumdem [...]. Phantasiae sive Imaginativae obiectum materialiter quidem est idem quod sensus communis, sed sub alia quadam ratione, nempe ut unum quodque obiectum sensibile imprimit in anima speciem sui quae perdurare quoque et conservari possit. Est enim phantasiae munus conservare et retinere species illas intentionales eorum sensibilium, quae per sensum communem percipiuntur [...]. Aestimativae obiectum est, res sensibilis, ut natura sua conveniens aut nocens est animali sentienti: ut cum ovis per hanc potentiam apprehendit lupum ut perniciosum sibi, gramen autem ut sibi conducibile. Quae potentia in homine vocatur etiam cogitativa, quia ut est subordinata intellectui, habet quoque vim quandam raciocinandi circa particularia, et ex eis in particulari concludendi quid sit conveniens aut noxium [...]. Memoriae obiectum materialiter quidem est idem quod aestimativae sed ut est durabiliter seu diu perceptibile. Itaque species intentionales rerum quoque convenientium aut noxiarum haec potentia conservat cum peculiari quadam facilitate et firmitate, et percipit quoque ipsam rationem praeteriti in particulari. Atque in homine quidem appellatur haec potentia quoque reminiscentia, quoniam propter coniunctionem quam habet in eadem anima cum intellectu, praedita est vi quadam conferendi inter se particularia, et ex eis colligendi atque memorandi praeterita”. (De Valentia, 1591, coll. 1367b-1368b). Riprendono pienamente la suddivisione tomista i Commentarii Collegii Conimbricensis e Societate Iesu in tres libros De anima [...]. (1617): III, 3, q. 1, a. 1. Su una posizione del tutto diversa si pone Francisco Suárez (1621/1856a) che in un serrato capitolo dedicato a discutere An sit tantum sensus interior, an plures nega la distinzione fra potenze. L’acuta disanima - non riproducibile per la meticolosità delle osservazioni che la sostengono - giunge a questa conclusione: “Probabilius videtur sensum interiorem unum tantum esse realiter. Hoc ex dictis ita concluditur: sensus communis, et phantasia in unam coincidunt potentiam, aestimativa item, ac memoria inter se, cogitativa autem reminiscentia et imaginatio non ponunt in numero, ut supra est observatum, solumque significant diversas perfectiones eiusdem sensus in homine”. (Idem, III, 30, 16).(volta)

(18) Suárez, 1621/1856a: II, 6, q. 2, in particolare a. 3.(volta)

(19) Una lunga disquisizione sui rapporti fra intelletto agente e fantasma alla luce delle teorie scolastiche conduce all’adesione alla lezione tommasiana. “Placet igitur nobis ea sententia quae a recentioribus philosophis celebratur, aientibus illuminationem phantasmatum non esse obiectivam, ut Caietanus ait, nec radicalem tantum, ut Capreolus et Ferrariensis arbitrantur, sed effectivam: non quasi intellectus agens aliquid luminis phantasmatibus imprimat; sed quia tamquam externa lux radii sui consortio active elevat phantasmata ad producendam speciem intelligibilem” (Suárez, 1621/1856a, III, 5, q. 2, a. 2) (Corsivo mio). Il teologo Giovanni Capreolo (1380-1444), Thomas de Vio detto Caietanus (1468-1534) e il Ferrarese (Francesco de’ Silvestri, 1474-1528), domenicani, appartengono alla storia del tomismo e delle sue vicissitudini teoriche. Per una ricognizione delle questioni dibattute dagli autori citati è tuttora valido Giacon (1944): La seconda scolastica:i grandi commentatori di S. Tommaso.(volta)

(20) “Nostra assertio haec esto. Anima coniuncta corpori non glorioso, saltem, dum communes sive ordinarias intellectiones administrat, necessario speculatur phantasmata” (Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617, III, 8, q. 8, a. 2).(volta)

(21) Il commento esegetico di Rahner (1989) è alle pp.11-55.(volta)

(22) Il passo di Pallavicino è del De bono.(volta)

(23) Pallavicino nell’elaborazione della teoria della “prima apprensione” riprendeva concetti vulgati dalla scolastica e mutuati da Tommaso (Summa Theologiae, I, q. 85, a. 5).(volta)

(24) Cf. Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima (1617): III, 13, q. I, a. 3, 1. La citazione agostiniana è tratta da De trinitate, X, I.(volta)

(25) “In figuris aliae memoriam auditoris adiuvant, ut distributio, subiecto, etc.; aliae mentem docendo illustrant; aliae voluntatem permovent; quaedam sensus ipsos veluti feriunt, verbi gratia hypotyposis oculos, aures anaphora etc.”: Iuventius, (1692/1856, p.12). (Corsivi miei.).(volta)

(26) Secondo la dottrina tomista l’intelletto influisce sulla volontà quoad specificationem (ossia indicandole l’oggetto su cui dirigersi) mentre la volontà agisce sull’intelletto quoad exercitium (ossia la volontà spinge l’intelletto a giudicare e scegliere i mezzi conformi al fine dell’azione, consentendo alla volontà di dar luogo alla volizione concreta che si determina nell’azione). Il teologo specifica che realiter sono una cosa sola, intendendo affermare che esse confluiscono nella profondità dell’anima, che è una: “Observandum est, cum divus Thomas asserit, intellectum movere voluntatem quoad specificationem, voluntatem vero intellectum quoad exercitium, non esse hoc ita intelligendum, quasi intellectus nullo modo re ipsa moveat voluntatem ad exercitium actuum, nec voluntas intellectum ad specificationem actuum. Cum enim exercitium et specificatio actus sint re ipsa unum et idem, necesse est, ut quod ad unum movet, consequenter saltem moveat etiam ad alterum”. (De Valentia, 1592, col. 206c).(volta)

(27) Dedicato a smantellare la distinzione ontologica fra i sensi interni è il caput XXX (An sit tantum sensus interior, an plures) del terzo libro del De anima (Suárez, 1621/1856a).(volta)

(28) “Ultimo licet ex dictis colligere organum potentiae appetentis. Qui nampe in duas dividunt, concupiscibilem in hepate, irascibilem vero in corde locant. [...] Experientia etiam hoc videtur confirmari: cum enim irascimur, cor incalescit, cum delectamur, incalescunt praecordia, in quibus hepar numeratur. [...] Cor est primum principium et instrumentum motus, autem recte igitur appetitus sensitivus in corde locatur...” (Suárez, 1621/1856a, V, 4, 9).(volta)

(29) Riportiamo un passaggio del commentario dei filosofi di Coimbra: “Omnis, inquit [Aristoteles], operatio, ad quem corporis temperamentum operatur, non solius animae est, sed etiam corporis; atque passiones ita sese habent, non ergo solius animae sunt sed animae et corporis communes. Assumptiones confirmat, quia quosdam videmus levi de causa irasci, ut cholericos, quibus mox circa cor sanguis effervescit; alios ad iram commoveri, etiam gravi oblata occasione, ut eos qui phlegmate abundant. Item, quosdam vel minima causa timoris, expavescere, ut melancholicos; alios non item, ut quibus sanguinea complexio est. Hoc autem ex eo pervenit, quia in actionibus magnam sibi partem vendicat corporis affectio”. (Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617: Explanatio I, 1).(volta)

(30) “Denique imaginatio appetitum etiam movet, excitatus autem commovet humorem, illius passioni cooperantem: his ergo modis ex imaginatione provenit realis effectus, seu casus in corpore...” (Suárez, 1621/1856a, III, 31, 9).(volta)

(31) “In potentiis invicem ordinatis et connexis, vehemens motus superioris in inferiorem redundat. Unde Aristoteles [...] ait appetitum superiorem impellere inferiorem, sicuti in coelesti mundo sphaera superior inferiorem rapit”. (In libros Ethicorum…,1617, disp. IV, q. 3, a. 3).(volta)

(32) “Ideoque quemadmodum naturam nostram et essentiam accepit, ut intellectum, memoriam, voluntatem, sensum, appetitum, operationesque humanas atque affectiones, quas passiones vocant, ut Augustinus docet. Passiones autem, seu melius, motus naturales, divino, non naturali modo habuit. In eo namque rationem minime praeveniebant, sed sequebantur, tum ut se verum hominem ostenderet, tum ut Deo in illis placeret; tum denique ut exemplum nobis bene illis utendi praeberet”. L’incarnazione di Cristo fu “convenientissima et maxime accomodata”. Salmeron (1612, pp.201 e 207).(volta)

(33) Si veda l’ormai classico De Guibert (1953): La spiritualité de la Compagnie de Jésus: esquisse historique, pp.532-537.(volta)

(34) Tractatio aliquot problematum ad quinque sensus spectantium [...] in Commentarii Collegii Conimbricensis [...] De anima, 1617, sectio II.(volta)

(35) Sulla valorizzazione dell’actio si veda anche: Cicéron, sec. I a.C./1950-1957 (De oratore, III, 213-220) e Cicéron, sec. I a.C/1966 (Brutus, 142). Con l’andamento sistematico che gli è proprio, Quintiliano (Quintilien, sec. I d.C./1975-80) fornisce un ricco repertorio di gesti (Institutio oratoria, XI 3) e riconosce che senza gesto ogni parola è lettera morta (Idem, XI 3, 1-9).(volta)

(36) Si veda ad esempio la contrapposizione ciceroniana fra il gesto dello scaenicus o tratto “ab scaena et histrionibus” con quello di colui che si esercita con le armi e la palestra. Il termine actor compare, al contrario, riferito all’oratore Taurisco (Cf. Cicéron, sec. I a.C./1950-1957: De oratore, 221-222). Compare la valutazione negativa del comoedus nell’Institutio oratoria, (Quintilien, sec. I d.C./1975-80: I 12, 14 - “non comoedum in pronuntiando nec saltatorem in gestu facio”) e la contrapposizione fra orator e comoedus in Idem, XI 3, 181 (“Non enim comoedum esse, sed oratorem volo”) (volta)

(37) Si veda l’opera di Giovanni Bonifacio (1616): L’arte de’ cenni con la quale formandosi favella visibile si tratta della muta eloquenza, che non è altro che un facondo silenzio [...]. Pur non essendo un trattato di retorica ma un repertorio letterario di oltre 600 cenni, ossia un vasto vocabolario dei gesti, il lavoro merita di essere ricordato perché sorretto dalla convinzione che la comunicazione gestuale non dovesse essere considerata secondaria a quella verbale e che anzi fosse caratterizzata da sincerità, antichità, naturalezza, universalità. In genere considerata bassa e plebea, l’actio è in verità di origine divina: “quest’arte di parlare in silenzio è stata da Dio formata e data a noi per manifestare le nostre volontà” (Idem, p.10). Il rapporto fra esterno ed interno è pensato in termini di denotazione (è assente tutta la problematica della dissimulazione). Il testo intende semplicemente descrivere e repertoriare, ma, nonostante questo limite, è sintomo di un diffuso interesse nei confronti dell’eloquenza muta.(volta)

(38) “Datur libenter locus saltatoribus quia voluptatem afferunt homine liberali dignam, nec inutilem iuventuti exercitationem habent. Adde quod dramatica eiusmodi chorea muta quaedam est poesis, erudito corporis motu exprimens quos actores carmine persequuntur”: Iuventius, (1691/1856, p.42).(volta)

(39) Si veda Bruyne (1946), pp.278-346, in particolare p.316.(volta)

(40) Cf. Alberti, 1987, pp.74-78. Mathias Casimirus Sarbievius (1595-1640) dopo gli studi condotti a Roma, dove ricevette da Urbano VIII il lauro poetico, visse in Polonia dove fu predicatore di palazzo a Varsavia; nel 1636 fu insignito del titolo di dottore in teologia. Fu soprannominato Horatius sarmaticus; le sue raccolte di versi (Lyricorum libri tres e l’Epodon liber unus) godettero di grande fortuna. Meno note le opere teoriche che circolarono manoscritte (Cf. Alberti, 1987, pp.9-10).(volta)

(41) La connessione fra l’arte della memoria e la virtù della prudenza è operata da Cicerone nel De inventione: “Prudenza è la conoscenza di ciò che è buono, di ciò che è cattivo e di ciò che non è né buono né cattivo. Le sue parti sono memoria, intelligenza, preveggenza (memoria, intelligentia, providentia). Memoria è la facoltà per cui ricorda ciò che è accaduto. Intelligenza è la facoltà con cui accerta ciò che è. Preveggenza è la facoltà per cui si vede che qualcosa sta per accadere avanti che accada”. (Cit. in Yates, 1972, p.21).(volta)

(42) L’equivoco derivò dal fatto che l’attribuzione della retorica Ad Herennium (dove sono date le regole della memoria artificiale) a Cicerone (che nel De Inventione aveva fatto della memoria una parte della prudenza) aveva fatto sì che la pratica della memoria fosse considerata esercizio della virtù della prudenza (Cf. Yates, 1972, p.21).(volta)

(43) “Prudentia non est scientia, nec intellectus: sed convenit illi aliquo modo cum intellectu. Hic enim in principiis versatur, quorum non est demonstratio; illa autem versatur in extremis, hoc est in singularibus, quorum non est demonstratio, sed sensus non quidem externus sed intimus ille”. (Gallutius, 1645, p.104).(volta)

Nota sull’autrice

Giovanna Zanlonghi insegna Drammaturgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia. Da tempo conduce ricerche sul teatro gesuitico a Milano in età moderna, con particolare attenzione alle problematiche antropologiche e teoriche. Attualmente coordina una ricerca sulla drammaturgia e la teatralità milanese nell’età dei Lumi.
E-mail: giovanna.zanlonghi@unicatt.it

 Data de recebimento: 10/02/2003
Data de aceite: 23/03/2003

 Memorandum 4, abr/2003
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP.

http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos04/zanlonghi01.htm

 

 

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