Ales Bello, A. (2003). Il simbolo nell´esperienza sacrale-religiosa: un’analisi fenomenologica. Memorandum, 5, 134-147. Retirado em   /  /  , do World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/alesbello02.htm.

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Il simbolo nell’esperienza sacrale-religiosa: un’analisi fenomenologica

 The symbol in the sacred-religious experience: a phenomenological analysis

Angela Ales Bello

Pontificia Università Lateranense
Italia

 

Riassunto

Il saggio si apre con un resoconto delle analisi sul simbolo condotte da Husserl nell’opera Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung (Husserliana vol. XXIII) dalle quali si ricava la caratteristica del simbolo, da intendersi come rimando ad una realtà non presente e quindi la sua differenza con gli altri vissuti (Erlebnisse) di cui l’essere umano ha coscienza, ad esempio percezione, ricordo, fantasia etc., ciascuno diverso dall’altro qualitativamente. Si procede, poi, all’analisi dell’esperienza religiosa sotto il profilo fenomenologico e si ricava che essa è “presenza” del sacro o del divino. Si approfondisce, allora, la differenza fra “presenza” e “simbolo” notando, attraverso esemplificazioni tratte da esperienze religiose arcaiche e storiche, che la conoscenza simbolica non è esaustiva del sacro e del religioso ed è solo una modalità espressiva di tali esperienze e non ne costituisce l’essenza.

Parole chiave: simbolo; esperienza sacrale-religiosa; fenomenologia husserliana.

Abstract

The essay starts by revisiting the analyses on symbols realized by Husserl in his work Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung (Husserliana vol. XXIII). Through the analyses of this work, which we can affirm that the characteristic of the symbol is that it refers to a non-present reality, which is different of other "lived-through" experiences (Erlebnisse) that the human being has conscience of, as, for instance, perception, remembrance, fantasy - each of which is qualitatively diverse of each other. Then, we proceed to the phenomenological analyses of the religious experiece and we discover that it is “presence” of the sacred or the divine. Further, we deepen the difference between “presence” e “symbol” noting, through examples taken from the archaic and religious experiences, that the symbolic knowledge does not exhausts the sacred and the religious experience. It is only an expressive modality of these experiences and it does not constitute their essence.

Keywords: symbol; sacred-religious experience; Husserlian phenomenology

 

Mi propongo di affrontare il tema del nostro convegno usando il metodo offerto dall’analisi fenomenologica e quindi sottoponendo ad indagine i due momenti centrali della problematica in esame, quello relativo al fenomeno “simbolo” e quello connesso alla serie dei fenomeni che concernono l’esperienza sacrale-religiosa. Con questo ultima espressione intendo da un punto di vista storico-valutativo le religioni arcaiche, che conosciamo indirettamente o attraverso sopravvivenze, e le religioni positive con le loro configurazioni che sono per noi accessibili attraverso documenti e testimonianze.

Il ritorno alle proposte metodologiche offerte dalla fenomenologia presenta, a mio avviso, il vantaggio di penetrare nelle nozioni, nei fatti, negli eventi, in breve nelle “cose”, Sachen, che ci si presentano dal punto di vista esperienziale e culturale per coglierne il senso sia nella loro singolarità sia nella loro connessione. La difficoltà sta nella necessità di ripercorrere analiticamente il cammino già in gran parte delineato dei fenomenologi classici per vagliare di nuovo la validità dei risultati raggiunti sempre in riferimento, non ad opinioni soggettive, ma alle “cose stesse”. E’ necessario, pertanto, l’esercizio di una “pazienza” analitica, perché i risultati saranno tanto più validi, quanto più il procedimento sarà rispettoso delle realtà prese in esame.

Ponendomi nella prospettiva indicata vorrei ripercorrere in primo luogo le analisi di Husserl sul simbolo che accompagnano gran parte della sua ricerca rappresentando un aspetto non secondario, ma spesso trascurato e non proficuamente utilizzato per applicare alcuni risultati della sua indagine al tema dell’esperienza religiosa.

L’analisi della funzione simbolica si trova, infatti, all’inizio della ricerca husserliana già nella Philosophie der Aritmetik del 1890 e si snoda fino agli anni Venti, connessa con l’indagine del vasto territorio delle operazioni presenti nella soggettività umana di cui abbiamo consapevolezza (Erlebnisse). Nella sua prima opera tale funzione è studiata relativamente alla genesi del numero; infatti, tutte le operazioni aritmetiche conducono ad una rappresentazione numerica simbolica che si esprime in un determinato numero.

Per stabilire che cosa sia il simbolo in se stesso e che cosa possa essere considerato simbolico, ad esempio il numero, la parola e altre nozioni che sono ritenute tali, Husserl torna sull’argomento nelle Logische Untersuchungen, in cui si sottolinea la differenza fra il segno puro e semplice e il segno significativo nel quale si esprime intenzionalmente il pensiero simbolico. Non interessa ora ripercorre nei dettagli il cammino husserliano, ma ai fini della presente trattazione i testi più importanti sono quelli relativi alle Lezioni del semestre invernale tenute da Husserl nel 1904-05 e dedicate alle Hauptstücke aus der Phänomenologie und Teorie der Erkenntnis (Parti principali tratte dalla fenomenologia e dalla teoria della conoscenza ora pubblicate nel vol. XXIII della Husserliana dal titolo Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung 1898-1925) (Husserl, 1980). Fra queste “parti principali”, si potrebbe dire “articoli fondamentali”, si trova lo studio della percezione, quello della coscienza immaginativa o raffigurativa che si divide in una forma fantastica e una simbolica e l'analisi del ricordo. Tutto ciò rimanda per una comprensione più approfondita alla questione del tempo, che Husserl (1985) sta parallelamente analizzando in modo autonomo (Zur Phänomenologie des Zeitbewusstseins 1893-1917). Come si può notare l'approccio alla dimensione della coscienza diventa sempre più analitico ed ulteriori atti sono sottoposti ad indagine; ciò consente di esaminare il significato del simbolo risalendo alla sua funzione specifica attraverso il confronto con altre espressioni umane.

In primo luogo è opportuno distinguere due modi “primitivi”di rappresentazione: la percezione e la ripresentazione. Quest'ultima può avvenire attraverso l'analogia e in tal modo la raffigurazione che si ottiene può essere interna o immanente, nel senso che è legata all’oggetto rappresentato, oppure può rimandare all'esterno, in tal modo si ha una rappresentazione simbolica. In questo tipo di rappresentazione si individuano due classi; la prima, che Husserl definisce simbolica nel senso originario e tradizionale della parola, si realizza attraverso raffigurazioni, ad esempio, di tipo geroglifico. In origine anche il linguaggio e la scrittura avevano questo carattere geroglifico, infatti, l'operazione qui implicata era quella di “levigare”, togliere il superfluo per ottenere una sorta di stilizzazione; in seguito si costruirono artificialmente parole, segni algebrici - ritorna qui la riflessione sul simbolismo matematico - che danno alla rappresentazione un carattere “segnico” senza legami con le cose rappresentate con le quali, anzi, non hanno nulla a che fare internamente, e questa è la seconda classe della rappresentazione simbolica.

Tutto ciò riconduce alla coscienza immaginativa che si articola nella raffigurazione interna o esterna, quest'ultima simbolica, e nella fantasia. Alla fantasia, in verità, è dedicata la parte più cospicua dell'analisi condotta da Husserl (1980) nel testo che si sta esaminando e negli altri testi contenuti nel volume XXIII della Husserliana. Ed è proprio il confronto con la fantasia e con il ricordo che consente di circoscrive in modo sempre più preciso la funzione simbolica. Poiché quest'ultima fa parte di una raffigurazione (Bild), se essa consiste in un oggetto in senso fisico che è qualcosa di finto (Fiktum), appare come una cosa fisica, ma non è la cosa originaria che è percepita in modo diretto. Questa finzione, o meglio la coscienza producente la finzione, si compenetra con la coscienza della ri-presentazione, in tal modo nasce la coscienza immaginativa (1) e con essa un nuovo contrasto fra ciò che è oggetto di finzione (Fiktum) e ciò che è immaginato (Imaginatum).

Alla fantasia manca l'oggetto finto; l'immagine di fantasia non è una raffigurazione relativa a qualcosa di reale e presente, infatti non c'è nessun riferimento ad una percezione. Se c'è una sorta di raffigurazione essa non è rivolta all'esterno o se lo è, l'aspetto importante è quello della raffigurazione interna. L'oggetto raffigurato come oggetto fisico pone la questione della maggiore o minore conformità con la cosa reale - e qui Husserl porta esempi tratti dalle tecniche artistiche di tipo raffigurativo, il quadro ad olio, l'incisione, il disegno ad inchiostro di china o il calco di gesso - sottolineando che si ha una percezione sia nel caso dell'originale sia in quello della copia, anzi che, da questo punto di vista, essi sono sullo stesso piano, ma che, contemporaneamente, la copia contiene sempre un negativo, nel senso che “non” è l'originale; al contrario, se si esamina la fantasia, i suoi oggetti non solo non cadono nell'ambito della percezione, ma appartengono ad un mondo totalmente diverso, del tutto separato da quello attualmente presente. Se pensiamo di togliere il carattere di raffigurazione agli oggetti raffiguranti e il loro non essere gli oggetti raffigurati, rimane l'oggetto di percezione; ma se compiamo la stessa operazione con gli oggetti della fantasia, non ci rimane certo alcunché di percepito.

E' possibile, allora, distinguere l'immaginazione in senso proprio e l'immaginazione nel senso della semplice fantasia. Nel primo caso un oggetto appare come raffigurazione di un altro, quindi l'oggetto presente come ri-presentazione di quello non presente, sia esso fisico o meno. Tutto ciò è chiaro nella funzione segnica o simbolica: “Il simbolo appare in se stesso, ma è portatore di una connessione con qualcosa d'altro che in esso è segnalato” (Husserl, 1980, p. 82). Tuttavia è opportuno distinguere la funzione raffigurativa da quella simbolica in quanto la prima è raffigurante internamente, mentre il simbolo esternamente. La raffigurazione, però, non è l'originale. Nel caso dell'immaginazione, intesa come fantasia, il ruolo dell'oggetto è del tutto diverso. Non si tratta di un oggetto che il soggetto guarda come membro di un campo di oggetti percepibili, sia esternamente raffigurato dal soggetto sia simbolizzato attraverso una somiglianza sempre più lontana. Nella fantasia non c'è rimando a ciò che non è presente, ma l'oggetto è proprio della fantasia. Ad esempio posso formarmi una raffigurazione fantastica dell'imperatore Cesare, é chiaro che se la analizzo mi rendo conto che non si tratta né di una rappresentazione “propria”, nel senso che Cesare è presente in carne ed ossa, né di una raffigurazione di lui come non presente e neppure di un ricordo. Infatti non lo “percepisco”, né lo ho percepito e lo ricordo, né lo ho percepito e lo raffiguro, neppure so che la raffigurazione mi rimanda ad un possibile percepire (cf. Idem, p. 153).

Questa sottile analisi delle differenze fra i vissuti - percezione, ricordo, raffigurazione, fantasia - consente di individuare attraverso una serie di esclusioni reciproche il significato proprio del simbolo. Nei testi ai quali ci si riferisce l'analisi riguarda in particolare la dimensione estetica. L'esame del quadro di Tiziano “Amor sacro e amor profano” dà lo spunto per individuare un pluralità di approcci. Una riproduzione in formato ridotto di quel quadro, che probabilmente Husserl aveva davanti a sé, gli consente di riprendere il tema della raffigurazione e quindi del rimando a ciò che assomiglia; qui si sviluppa il tema della somiglianza che è alla base della rappresentazione simbolica come nel caso delle parole onomatopeiche, caso in cui si è consapevoli della somiglianza. Tuttavia ci si può immergere nel quadro cercandone il significato in questo caso la coscienza raffigurativa non coglie il quadro ma ciò che è simbolizzato; si può cogliere, pertanto, una nuova intenzione, quella relativa al soggetto stesso che è autore del quadro. Nei momenti di concordanza di interesse si ha una “rappresentazione” del soggetto stesso, in modo tale che viviamo, sperimentiamo concordanze; si attua, così, un processo di somiglianza per cui cogliamo ciò che intendeva il pittore stesso, come se fossimo Tiziano. Questo non esclude la tensione fra la funzione di rimando del quadro che ri-presenta un oggetto e la profonda unità di esperienza che si attua con il soggetto autore del quadro, per cui la coscienza va verso l'interno e poi di nuovo verso l'esterno; si può comprendere meglio tutto ciò usando il riferimento alla funzione simbolica nella quale si realizza un rimando fra il simbolo e ciò che inteso dal simbolo, anzi quest'ultimo può attrarre l'attenzione di per sé, prescindendo dal rapporto simbolico (cf. Idem, pp. 153-156).

Si può notare, allora, che ci sono gradi diversi di “somiglianza” che riguardano la coscienza raffigurativa, quella simbolica o quella segnica, come sottolinea Husserl nell'Appendice dedicata a Stufen der Ähnlichkeit, beim Bild-, Symbol- Zeitbewusstsein (cf. Idem, pp. 149 e segg.), ma anche distinzioni. In tal modo la funzione simbolica è individuata attraverso un'analisi che la mette in correlazione e la distingue da altre funzioni e operazioni della coscienza che nel procedere concreto sono spesso intrecciate, compresenti o simili; ci si rende conto, perciò, delle difficoltà nello svolgimento del compito analitico e della pazienza richiesta al ricercatore nel seguire i sottili intrecci della vita della coscienza.

Realtà e simbolo

Dall'analisi precedente si ricava un risultato generale che emerge come filo conduttore; esso consiste in una prima, fondamentale individuazione del significato della coscienza percettiva che si trova davanti a ciò che è percepito “in carne ed ossa” e che quindi è riempita in modo originario, l’originarietà della percezione consiste proprio in questa possibilità di accedere a ciò che è reale (wirklich). E' sufficiente una breve, concisa affermazione di Husserl per intendere ciò: «Gemalte Farben sind nicht ganz so wie wirkliche» (Idem, p.49): I colori dipinti sono affatto come quelli reali. Ed è chiara anche la coscienza di questa distinzione che, come tutte le distinzioni essenziali, è colta intuitivamente. Ciò non esclude che in particolari condizioni ci si possa ingannare, l'errore è sempre tenuto presente ed è a sua volta oggetto di analisi; per citare un rimando significativo, ciò è esaminato da Husserl (1966) nella Prima Parte delle sue Analysen zur passiven Synthesis (1918-1926), Husserliana vol. XI, in cui tratta delle modalità conoscitive (Modalisierung) (2).

Se la percezione gioca un ruolo fondamentale per la vita della coscienza, quest'ultima manifesta un’ampiezza e una ricchezza di funzioni che è sorprendente. Si è cercato di dare un saggio di questo processo analitico e si sono indicati alcuni risultati che hanno consentito di individuare l'altra funzione importante della coscienza che è quella della ri-presentazione, perché se la coscienza percettiva coglie ciò che presente, altre funzioni hanno un andamento ri-produttivo; tuttavia non possono essere poste sullo stesso piano, infatti la raffigurazione è una riproduzione che muove da ciò che è percepito anche se lo propone secondo gradi diversi di “somiglianza”, mentre la fantasia, pur essendo una ripresentazione, ha una funzione riproduttiva di modificazione tale che genera un mondo diverso, “altro” rispetto al mondo reale. La funzione simbolica differisce da entrambe in quanto non raffigura semplicemente, ma intende qualche cosa d'altro, essendo legata in modo più vicino o più lontano a ciò che è inteso, ma non generando un mondo alternativo. La raffigurazione, il simbolo, la fantasia hanno una loro originarietà come atti della coscienza, ma non sono certamente originari nel senso della percezione, ciò che manca ad essi è, appunto, il riferimento alla realtà, cioè non sono wirklich.

Il primato accordato al momento percettivo non può essere inteso come un residuo empiristico. Ciò che bisogna sottolineare in ogni caso è che, lungi dal rinchiudersi nell'ambito coscienziale, l'essere umano è in primo luogo aperto al mondo reale, al contatto percettivo con le cose attraverso la sua corporeità che è riconosciuta nella sua funzione di presenza nel mondo fisico e di tramite fra esso e il mondo dell'interiorità. È necessario sottolineare, tuttavia, che il “mondo per noi” non si riduce al semplice mondo percepito; al contrario se la percezione rappresenta un'apertura, il mondo è costituito dall'insieme delle esperienze sedimentate, elaborate, e quindi raffigurate e ricordate, ma anche progettate come possibili, per cui il mondo per noi è il mondo che ci portiamo dentro come un bagaglio enorme e dilatabile sempre, ulteriormente nel contatto e nel rapporto con le cose e soprattutto gli altri soggetti.

La varietà e pluralità degli atti ci consente di individuare le venature di questo mondo che in ultima analisi è un mondo culturale, ma mai solipsistico, anche se la dimensione interiore con le sue modalità strutturali e con le sue caratteristiche particolari e insostituibili costituisce un unicum irripetibile.

Su questo sfondo la funzione simbolica si affianca alle altre svolgendo il suo ruolo specifico, possedendo pari valore e dignità, ma non tutto passa attraverso il simbolo, anche se è possibile simbolizzare. Ciò che la coscienza vuole cogliere in verità è il significato di ogni “cosa”, sia questa da intendersi anche come operazione stessa della coscienza, e quindi si vuole individuare il significato del simbolo in quanto simbolo. E il significato si coglie come evidenza e non in un rimando simbolico.

 
Analisi fenomenologica dell’esperienza religiosa

Tenendo presente l’indagine sulla funzione simbolica, sinteticamente proposta, si tratta ora di stabilire quale sia la sua presenza nell’ambito dell’esperienza sacrale-religiosa, ma per fare questo è necessario sottoporre alla stessa analisi anche tale esperienza. Ci si può domandare, rimanendo sul terreno individuato dalla fenomenologia, quello dei vissuti, quale sia la specificità dei vissuti religiosi. In realtà, pur parlando molte volte i fenomenologi classici dell’esperienza religiosa, una vera e propria ricognizione fenomenologica in questo ambito non appare nei loro scritti, ma è ora che si proceda a svolgere tale compito.

Si può prendere spunto da una domanda che si pone la fenomenologa Edith Stein e dalla risposta ella dà; tale domanda riguarda che cosa sia la sensibilità artistica e la risposta è così formulata: “E’ la potenza di valutare qualcosa circa il suo grado di bellezza e di godere di esso” (Stein, 1931 / 2003, p.210). Se ci si pone la stessa domanda riguardo alla “sensibilità” religiosa si nota che si tratta sempre di una “potenza di valutare” riferita a quell’esigenza di “riempimento” di un’apertura costitutiva dell’essere umano verso qualche cosa che lo trascende, che viene incontro, per usare l’espressione di van der Leeuw (1933 / 1992) (3), e che soddisfa tale apertura e che consente, quindi, il godimento. Si tratta, per usare ancora il linguaggio della Stein, di una naturale disposizione della persona, potenzialmente presente in essa fin dall’inizio della sua esistenza e tutto ciò si riflette nella dimensione dei suoi vissuti. Ma di quest’ultimo punto si parlerà in seguito. Qui è bene insistere sulla fondamentale apertura, costitutiva dell’essere umano.

Perché tale apertura non sia solo un presupposto ma sia giustificata, si possono percorrere vie diverse, vie di carattere filosofico, come quella di Agostino e Anselmo, vie descrittive in senso fenomenologico, vie proprie di un’indagine psicologica, tutte confluenti e non alternative. Una pensatrice che ha avuto il merito di indicarle e di percorrerle è stata Edith Stein; ella ci sollecita ad individuare nel primo caso “un pensiero originario” della divinità, presa nel senso più ampio presente in noi (4), nel secondo caso un nucleo, come centro o radice della persona (5), nel terzo un’esigenza o desiderio di riempimento di una mancanza, di un’insufficienza, che è forse la spia più forte e immediata della presenza del pensiero originario. Lungi dall’essere disprezzabile la via psicologica è, al contrario dell’utilizzazione che ne fanno i sostenitori dell’ateismo – si pensi a Feuerbach o a Freud –, una fonte corroborante le altre, perché la domanda che può essere rivolta a chi sostiene che l’esperienza del sacro e del divino sia frutto del desiderio umano riguarda proprio la ricerca della ragione ultima della nascita nell’essere umano di tale esigenza o di tale desiderio e qui risuona validamente la parola agostiniana, secondo la quale non cercheremmo e quindi non desidereremmo, se già non sapessimo, benché oscuramente, ciò che cerchiamo.

Rispetto a queste tre vie vorrei indagare in questa sede la via descrittiva in senso fenomenologico. Uso le indicazioni dei fenomenologi classici, come ho già fatto, ma vorrei, anche, integrarle e ampliarle.

Per incamminarci su questa via è necessario osservare che si debbono utilizzare i risultati dell’analisi fenomenologica nel campo dell’antropologia. Che cosa è l’essere umano? A questa domanda la fenomenologia classica risponde seguendo Paolo di Tarso: carne, anima, spirito, ma il modo in cui conferma l’interpretazione paolina – senza citarla esplicitamente, l’accostamento è mio e riconosco che solo una supposizione - è estremamente importante, la via scelta è, infatti, quella che movendo dalla riduzione eidetica e da quella trascendentale, entra nella sfera dei vissuti e li esamina non relativamente ai loro contenuti, ma alla loro struttura. Tali vissuti, ad esempio la percezione, il ricordo, l’immaginazione, come si è già indicato, ma anche il desiderare, il tendere, prendere posizione spontaneamente il valutare, il pensare il volere, rimandano a sfere che sono denominabili come corpo, psiche e spirito (6). Ma proprio l’ingresso attraverso i vissuti consente di cogliere la differenza fra profondità e superficie e lo scavo nella profondità conduce a quella che la Stein definisce l’anima dell’anima, oppure, insieme a Husserl, il Kern, il nucleo, il luogo più profondo in cui avviene l’orientamento verso altro da sé, e l’apertura verso l’Altro. E tale orientamento utilizza tutta la dimensione dei vissuti per procedere verso il riempimento atteso, desiderato, pensato e valutato.

Il nucleo e la presenza

Il nucleo è il luogo ultimo di disvelamento dell’impronta del sacro-divino, tuttavia l’essere umano, preso nella complessità  dei suoi momenti costitutivi, è impegnato globalmente in tale esperienza, anzi essa comincia proprio dalla sfera hyletica.

Per comprendere la funzione di tale sfera è opportuno ricordare che nell’analisi dei vissuti Husserl pone in evidenza la duplicità fra il momento noetico intenzionale e quello hyletico o materiale. Seguendo tale filo conduttore tento sinteticamente di riproporre un itinerario che si potrebbe definire gnoseologico, ma che si intreccia fortemente con quello antropologico nel doppio senso dell’antropologia filosofica e dell’antropologia culturale.

La duplicità di noesis e hyle si rintraccia in base all’analisi del corpo vivente il quale non ha soltanto localizzazioni relative alle sensazioni sensoriali che esercitano una funzione costitutiva per gli oggetti che appaiono nello spazio, ma anche relative a sensazioni di gruppi completamente diversi, cioè ai sentimenti sensoriali, alle sensazioni di piacere e di dolore, di benessere corporeo o di disagio derivante da un’indisposizione corporea. Siamo nella sfera della passività esaminata nella prospettiva delle sintesi passive, nel momento in cui soggetto e oggetto non sono ancora distinti e i dati hyletici sensoriali non egologici sono strettamente legati ai dati egologici.

Dal punto di vista che si può definire largamente gnoseologico, si inizia dall’unità associativa attraverso la quale si delinea l’omogeneità e la differenza per passare alla sfera dell’affezione, campo dei dati hyletici sensoriali, ad esempio del colore e della ruvidezza; la recettività che si esercita a questo punto suscita sentimenti sensoriali e si apre la via alle operazioni più consapevoli nelle quali agisce il momento noetico, cioè l’apprensione, la comprensione e l’appercezione. Tutto ciò consente il doppio movimento del conoscere e del valutare e la conseguente distinzione fra soggetto e oggetto la quale, poi, può essere più o meno fortemente tematizzata (7).

Applicando i risultati delle analisi ora condotte alla dimensione del sacro si costata che la via della sacralità è quella in cui soggetto e oggetto, conoscenza e valutazione non sono distinte fino in fondo ed è su questa base che si delineano le differenze culturali fra visione arcaica-sacrale e visione religiosa propria delle religioni storiche. Ciò non significa che nella prima il momento noetico non sia presente, ma che non agisce autonomamente, anzi è guidato dalla hyleticità, in altri termini il momento conoscitivo e quello valutativo sono sempre presenti, ma fortemente legati e attratti dalla sfera hyletica. Particolarmente importanti sono i sentimenti sensoriali che svolgono per gli atti del sentimento e per gli atti valutativi lo stesso ruolo che le sensazioni primarie hanno per gli Erlebnisse intenzionali nella sfera della costituzione degli oggetti spaziali-cosali perché le sensazioni della tensione e del rilassamento dell’energia, le sensazioni dell’inibizione interna, della paralisi e della liberazione e così via sono sensazioni localizzate con le quali si connettono le funzioni intenzionali del sentimento e della valutazione, fondamentali per il riconoscimento della “Potenza” sperimentata attraverso la forza manifestativa e attrattiva propria della hyle. Lo stato di piacere, il senso di benessere possono essere il fondamento della gioia come il malessere, l’inibizione interna possono essere alla base della paura, del terrore.

Penetrando nella dinamica interna dell’esperienza religiosa si può rintracciare come agisca la forza attrattiva nell’ambito religioso e in modo sorprendente si chiarisce la struttura di quel terreno, apparentemente misterioso ed inesplorato costituito dalla sacralità arcaica. Si pensi alla forza attrattiva esercitata da un luogo straordinario, ad esempio da una sorgente, da un alto monte, da un albero isolato e peculiare per la sua forma, da una grotta e così via, come manifestazioni del sacro riconosciuto come tale perché ad essi si lega lo stato di benessere che procura la gioia. Ma nello stesso tempo tutto ciò può essere fonte di paura, di timore, e presentarsi come il luminoso o il tremendum di cui parla Rudolf Otto.

Nella fenomenologia classica un esempio proposto da Edith Stein può esser di sostegno e conferma di ciò che è stato qui ricavato. Ella si riferisce ad un blocco di granito. Si tratta certo, secondo il punto di vista prevalente nella nostra cultura, di una formazione materiale, tuttavia, in essa si rivela un senso, essa è piena di senso, perché tale formazione è costituita secondo un principio strutturale proprio “ne sono parte essenziale il suo peso specifico, la sua consistenza, la sua durezza; anche la massa, il fatto che “si presenti” in blocchi enormi” e tutto ciò “richiama la nostra attenzione in modo singolare”, infatti “questa irremovibile consistenza e questa massa - continua la Stein – non sono solo qualcosa che cade sotto i nostri sensi e che la ragione costata come una realtà. I sensi e  la ragione sono colpiti interiormente; in essi si rivela a noi qualcosa; in questa realtà leggiamo qualcosa” (Stein, 1932-33 / 2000, p. 166). Il qualcosa che è individuato non è soltanto un senso simbolico, che pure può essere presente secondo l’esplicita ammissione della Stein, ma una presenza che si giustifica attraverso l’analisi dei dati hyletici; il blocco di granito “ci parla di un’imperturbabile stabilità e di una sicura affidabilità come qualità ad esso adeguate” (Idem, p. 167) (8), l’imperturbabilità, la stabilità, l’affidabilità sono risonanze interiori, danno un senso di benessere, di sicurezza che non è lo stesso che può esser suscitato dall’argilla o dalla sabbia che “non si lasciano interpretare allo stesso modo del granito” (Idem, p.167). Si pone qui la questione riguardante il significato del “ci parla”. Si tratta di analizzare le modalità interiori di ricezione di tale linguaggio, che è la manifestazione di un “senso” che rimanda all’Autore del senso di ogni formazione (9).

Riprendendo l’analisi dalla dimensione corporea si ritorna al livello sensoriale, notando che alle sensazioni localizzate si connettono, allora, i sentimenti sensoriali che formano la base della vita del desiderio, della volontà, delle sensazioni di tensione e di rilassamento dell’energia, le sensazioni dell’inibizione interna, della paralisi, della liberazione, e a tutto ciò si aggiungono le funzioni intenzionali, noetiche, ma il momento hyletico sembra trascinare quello noetico, da qui la perentoria affermazione di Husserl: “l’intera coscienza di un uomo è in un certo modo legata al suo corpo proprio attraverso la sua base hyletica” (Husserl, 1913 / 2002, p. 547). Che ciò sia da noi sperimentato è confermato anche dal fatto che non distinguiamo la sensazione localizzata dalla percezione, quando localizziamo la percezione tattile nel dito o il pensiero nella testa, la percezione e il pensiero non sono, infatti, localizzati ma l’attrazione hyletica fa concentrare l’attenzione sul corpo proprio. Si comprende, allora, che il termine hyletica non indica la materia nel senso della nostra tradizione culturale, ma un nuovo territorio mai completamente esplorato che costituisce il “materiale” per la dimensione noetica.

Mi sembra che l’analisi della sfera hyletica possa essere utile strumento per cogliere il significato profondo dell’esperienza sacrale-religiosa, infatti il momento hyletico ha un valore altamente manifestativo anche se non egocentrato e ciò è caratteristico di quelle culture in cui la hyletica trascina la noetica generando una sorta di impersonalità che si contrappone ad una diversa combinazione della noetica e della hyletica nelle culture avanzate in cui la noetica è a sua volta trascinante, come è dimostrato dall’emergenza del momento coscienziale propriamente egocentrato.

Il momento hyletico può essere considerato come un noema sui generis, per cui non si tratta di ricondurre il sacro alla sensibilità e quindi procedere alla riduzione alla sfera soggettiva-sensibile, in primo luogo perché la hyle non è da intendersi in senso empiristico o fisicalistico, in secondo luogo a causa della continua presenza dei momento noetico, costitutivo per l’attribuzione del valore sacrale, attribuito proprio grazie alla forza trascinante-manifestativa della hyletica. Si può affermare che il sacro è una “presenza” il cui nucleo noematico è hyletico.

Presenza e simbolo

Per discutere il rapporto presenza e simbolo nell’esperienza sacrale-religiosa, propongo di iniziare da un caso particolare, quello legato alle ricerche relative alla cultura della cosiddetta Dea-madre o Grande-Madre, mi riferisco alle indagini condotte da Marija Gimbutas e da Bernard C. Dietrich sulle religioni arcaiche presenti nell’Europa continentale e nelle regioni del bacino del Mediterraneo su reperti databili fra il 6.500 e il 3.500 a.C. nell’Europa sud-orientale e dal 4500 al 2500 a.C. nell’Europa occidentale, quindi dal Paleolitico all’Età del Bronzo per alcune culture mediterranee come Cipro, Creta, Sardegna, Sicilia e Malta. La Gimbutas considera i reperti come Il linguaggio della Dea (Gimbutas, 1989), si tratta, perciò, si porre il problema del modo in cui tale linguaggio debba essere analizzato. Seguendo l’impostazione prevalente nella scuola di Lovanio sostenuta da Julien Ries, l’autrice sottolinea l’aspetto simbolico di tali reperti le cui strutture rinvenibili in immagini e disegni rimanderebbero a…, avrebbero il significato di…, rappresenterebbero gli attributi della Dea. L’analisi fenomenologica prima proposta consente di superare questa interpretazione che tende a fare di quelle rappresentazioni “simboli”e che è coerente con la nostra mentalità, ma che non appare propria del pensiero arcaico. I reperti dimostrano, infatti, che la scelta delle raffigurazioni, degli oggetti, dei luoghi è guidata non da un rimando simbolico, ma da profonde somiglianze sul piano hyletico che sono testimonianza del “realismo” della mentalità arcaica di quelle popolazioni e non della loro attitudine simbolica. D’altra parte la stessa Gimbutas implicitamente sembra ammettere ciò quando sostiene che il menhir è l’epifania della Dea uccello e quindi non il suo simbolo e quando sostiene che la dea, pur nella varietà delle sue epifanie e funzioni, è una sola ed è immanente più che trascendente e perciò si manifesta fisicamente. La donna-uccello con seni e glutei prominenti è dispensatrice e protettrice di vita e di nutrimento perché suscita un senso di benessere con la sua manifestazione e fornisce, quindi, quella potenza che si cerca per la propria vita, ed è valutata come fornente tale potenza che riempie l’aspirazione profonda verso la potenza. E proprio per questo si manifesta come la “Potenza”, non si tratta di rimando, ma di presenza.

Molti esempi si potrebbero addurre per mostrare il realismo della mentalità arcaica, voglio citare solo un’interessante osservazione di Dietrich, egli scrive: “La sensazione della presenza divina, la pratica dell’invocazione diretta erano i tratti principali della religiosità minoica e micenea. Tutti gli sforzi errano rivolti alla comunicazione diretta col divino, un concetto che fondamentalmente diverso dall’esercizio di un culto praticato davanti ad una statua” (Dietrich, 1991, p. 87), questo spiega la mancanza di reperti statuari, come è costatabile ancora in Omero, infatti la figura seduta di Athena nel tempio di Troia (Iliade, 6, 302-11) non può essere considerata una statua, in quanto il poeta dice che ella scuote la testa. In seguito si perse la consapevolezza di tutto ciò, infatti Aristònico, commentatore omerico, giudicava ridicola questa descrizione perché riteneva che si trattasse di una statua.

Un’ulteriore conferma della credenza nell’epifania si ha nell’architettura dei palazzi e dei luoghi di culto della civiltà minoica, in essi si trova uno spazio aperto destinato all’apparizione della divinità, forse rappresentata in qualche caso dalla sacerdotessa, quindi “presenza” della divinità e non “rimando”.

Si può addurre un altro esempio tratto dalla religione egiziana. La studiosa Edda Bresciani (2001) afferma nella sua Introduzione ai Testi religiosi dell’antico Egitto che: “Per gli egiziani un’immagine era ben più che una semplice raffigurazione, era una realtà, una presenza fisica; e il tempio, a sua volta, era un “cielo” sulla terra che conteneva la statua del dio animata dalla magia (heka) – cioè l’energia attiva dell’universo - ed era la sua residenza. Quando al mattino il sacerdote apriva le porte sigillate del tabernacolo, apriva in realtà le porte del cielo in modo da vedere la forma del dio nel cielo terrestre. Una delle ragioni del culto era quindi costituire in terra un luogo di soggiorno attraente per gli dei, fare del tempio una replica del cielo, degna della statua del dio, e prendersene cura perché egli fosse felice di vivere fra gli uomini” (pp. XVIII-XIX).

Nella cultura occidentale la crisi dell’arcaicità e l’inizio del predominio del momento noetico - testimoniata dal commentatore omerico - risale alla nascita della cultura greca classica in parte già dal periodo presocratico. Attraverso tale primato non si elimina certamente la dimensione hyletica, ma la sua funzione sembra diventare secondaria. Tuttavia è proprio nella dimensione religiosa che la sopravvivenza della hyletica si mostra più fortemente. La stessa Gimbutas (1989) studia la sopravvivenza del culto della Dea–Madre e le vede in molti simboli della nostra arte e letteratura. Tutto ciò può valere a livello simbolico, ma cosa ne è della “presenza” del divino nella nostra cultura?

Compiendo uno spostamento enorme in termini temporali, fisso l’attenzione sulla religione cristiana per esaminare il rapporto simbolo-presenza. Ma prima voglio fare riferimento a due eventi presenti ancora oggi nella religione induista. Percorrendo da nord a sud il subcontinente indiano troviamo nelle due estremità riti identici nel significato che sono segni della credenza nella “presenza” della divinità. Nel Nepal ancora oggi la Dea-bambina si affaccia da una finestra di un palazzo di Katmandu essendo l’epifania della Dea; è stata scelta con particolare cura in un villaggio vicino attraverso un rituale crudele e non rappresenta la Dea, ma è la Dea. Nel Tamil-Nadu sulla rive dell’Oceano Indiano dove si trova il tempio della Kania Kumari la Dea appare nella fase della luna crescente rappresentata ogni giorno da bambine e fanciulle da 1 a 16 anni che sono la manifestazione della Dea.

Riguardo al cristianesimo pongo l’attenzione su alcuni passi evangelici.

In primo luogo vorrei commentare l’incontro di Gesù con la donna samaritana perché mi sembra estremamente importante dal punto di vista della storia delle religioni, intesa come  configurazione/espressione dell’esperienza religiosa. Il tema dell’acqua, che coinvolge la sfera psico-fisica: impulso al bere come esigenza fisica, ricerca dello stato di benessere che deriva dal soddisfacimento di questa esigenza importante per la vita, si sposta sul un altro piano, quello che noi definiamo spirituale, in modo da evidenziare la distinzione fra i due piani. Gesù dice: “chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che gli darò, non avrà mai più sete, anzi l’acqua che gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv. 4, 13-14).

Ulteriore distinzione si trova nella discussione, che si potrebbe definire teologica, che si svolge fra Gesù e la donna la quale sollecitata da questo straordinario incontro, intuendo le capacità profetiche presenti nell’uomo che ha davanti, pone, inaspettatamente, la questione della scelta del luogo di culto di Dio, oggetto di divisione fra i Giudei e i Samaritani. La risposta di Gesù sposta la questione sottraendola al predominio del piano hyletico, mette in crisi non solo la scelta del luogo di culto, ma supera la ragione per cui era stato scelto il monte Garizim o Gerusalemme, come luogo di “manifestazione” della divinità. La forza attrattiva che il monte suscita attraverso le sensazioni reazioni straordinarie non ha più senso, si attua uno spostamento sul piano dello spirito, il nucleo, nel quale si manifesta l’apertura verso la presenza, deve essere riempito attraverso il riempimento che viene dalla Verità: “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità; perché Dio cerca tali adoratori” (Gv. 4, 23). Non solo si attua uno spostamento che opera una svolta sul piano della storia delle religioni, ma si evidenzia in termini di analisi fenomenologica lo spostamento sul momento valutativo - noetico legato ad un’esperienza profonda di contatto con la divinità. Tuttavia tale contatto non elimina la sfera hyletica, perché nelle stesse parole di Cristo si conferma il passaggio attraverso la sua persona come fisicamente configurata e quindi oggetto di sensazioni che provocano reazioni e che hanno una forza attrattiva e manifestativa: “ Gli rispose la donna: So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa . Le disse Gesù: Sono io che ti parlo” e qui si apre il grande tema dell’incarnazione nel quale hyletica ha molto da dirci (10).

La tensione fra momento hyletico e momento noetico è rintracciabile proprio nella “presenza” di Cristo, annunzio della presenza: “Chi vede me vede colui che mi ha mandato” (Gv. 12,45) e riconoscimento di tale presenza da parte di Pietro: “Tu sei il Cristo, il  Figlio del Dio vivente” (Mt. 16, 16); è vero che ciò non è stato detto né dalla carne né dal sangue perché la sfera sensibile da sola non può dirlo, ma la presenza passa anche attraverso tale sfera: “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv. 6, 68), parole che “udite” riempiono l’apertura profonda verso la Potenza.

Ma il luogo in cui la hyletica manifesta tutta la sua forza attrattiva è quello della vita sacramentale. In tale sfera la connessione profonda fra hyletica e noetica si ricostituisce.

Il sacramento è il luogo della manifestazione della divinità, il luogo della sua presenza reale, che passa attraverso la sensazione, la percezione, gli stati d’animo psicofisici, raggiunge per mezzo della valutazione il piano noetico, confermando il riempimento del nucleo a livello spirituale. Presenza reale nella cosa che è recepita come riempiente l’anelito alla presenza reale e tale riempimento opera la trasformazione, altrettanto reale, che è lo stato di grazia coinvolgente tutto l’essere umano nella complessità dei suoi momenti costitutivi.

Che cosa a che fare tutto questo con il simbolo? Nel colloquio con la donna samaritana, in realtà Gesù utilizza anche i simboli, l’acqua del pozzo è simbolo, cioè rimanda all’acqua come sorgente che zampilla per la vita eterna e quest’ultima può essere compresa a sua volta grazie al rimando all’estinzione possibile, prevista, sperata oltre i confini della speranza, della sete fisica: “Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua” (Gv. 4, 15). La funzione simbolica può e deve in qualche caso essere attivata perché la comprensione possa avvenire, perché ci si possa avvicinare a quella realtà che non si coglie immediatamente. In questo senso è chiaro che, oltrepassata la fase dell’arcaicità, la dimensione simbolica viene sempre più frequentemente attivata, ma altra questione è se possa qualificare di per sé l’esperienza religiosa. Che il linguaggio religioso possa servirsi del simbolo una volta avvenuta la scissione fra la realtà, il pensiero e la parola, è legittimo, ma l’esperienza religiosa si caratterizza in quanto esperienza del divino è sempre esperienza di presenza reale. La difficoltà sta nel mantenere in un contesto in cui pensiero, parola e linguaggio si sono separati progressivamente in maniera sempre più forte, come è accaduto nella cultura occidentale, la loro connessione e ciò è dimostrato dallo sganciamento del linguaggio come dimensione autonoma e anzi onnicomprensiva e dalla sostituzione in alcuni casi del simbolo alla realtà.

Rimanendo sul terreno dell’analisi della dimensione sacramentale vorrei richiamare l’attenzione sull’istituzione dell’eucarestia  da parte di Gesù che si innesta sui gesti del rituale giudaico, ma che assume un significato nuovo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo” (…) “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt. 26, 26-28). In questa sede non ci interessa la centralità di questa istituzione per la vita della Chiesa cristiana, ci interessa l’insistenza contenuta nella recente Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II sul tema della “presenza”; nell’Introduzione si legge “…nella sacra eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa (la Chiesa) gioisce di questa presenza con un’intensità unica” e ancora “Perciò lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al Signore presente nel Sacramento dell’Altare”. Nel capitolo primo l’aggettivo “presente” ritorna insistentemente con la chiara affermazione che non si tratta solo di un’evocazione ma di una ri-presentazione. Se si vuole leggere tutto ciò in chiave fenomenologica si può cogliere la differenza a livello di vissuti e a livello di linguaggio fra evocazione, come ricordo, e ri-presentazione, secondo l’intenzione espressa nel documento papale. Ora è vero che anche il ricordo ri-presentifica, ma tale ri-presentificazione non ridà la cosa stessa nella sua presenza, anzi essa si dà in modo depotenziato rispetto alla sua originaria apparizione. Il rivivere pienamente ciò che è ricordato, quindi il renderlo presente di nuovo in carne ed ossa, è possibile solo se l’evento si ripropone ogni volta in se stesso, se non si tratta perciò di un rimando simbolico, ciò implica anche una diversa concezione della temporalità da intendersi non come successione, ma come stratificazione (11). L’evento originario si dà di nuovo nella sua originarietà. Il sacrificio del sangue versato ritorna presente “perpetuandosi sacramentalmente in ogni comunità che lo offre per mano del ministro consacrato” (§ 12). Tutto questo ribadisce una lunga tradizione e in particolare quanto Paolo VI aveva già scritto nella Enciclica Misterium Fidei “…questa specialissima presenza (…) “si dice ‘reale’, non per esclusione, quasi che le altre non siano ‘reali’, ma per antonomasia perché è sostanziale, e in forza di essa Cristo Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (testo citato in Ecclesia de Eucharestia, § 15). Si realizza in tal modo da un lato l’unione intima dei fedeli con Cristo - in termini temporali è già la realizzazione della vita eterna “la si possiede già, come primizia della pienezza futura che riguarderà l’uomo nella sua totalità” (§ 18) - dall’altro investe anche il ministero sacerdotale di una funzione particolare, il sacerdote non offre il sacrificio “a nome di” o “fa le veci di”, ma si identifica con il Sommo ed eterno Sacerdote (§ 29).

Prescindendo dalle conseguenze di tale impostazione sul piano pastorale – funzione eccezionale del sacerdozio ministeriale rispetto al sacerdozio dei fedeli - e sul piano ecumenico – difficoltà di incontro con chi, anche cristiano, crede che l’Eucarestia sia solo un simbolo – ciò che interessa è, appunto, il tema della “presenza reale” che attraverso la fisicità, usando la nostra visione dell’essere umano, entra nell’anima coinvolgendola fino in fondo ed è consacrata da chi manifesta con la sua persona la presenza di Cristo. Si può notare una straordinaria continuità con le prospettive di fondo della mentalità arcaica, nonostante le numerose differenze nel rapporto hyletica - noetica, come è stato indicato sopra.

Si può concludere dicendo che il nucleo autentico dell’esperienza religiosa è la presenza. Ciò non esclude l’importanza della dimensione simbolica come espressione di questa presenza nel linguaggio, anzi si può notare che la funzione simbolica, sempre potenzialmente presente nell’essere umano, assume storicamente un ruolo sempre più preminente. Come dire, infatti, ciò che si sente se non utilizzando immagini aventi in verità un significato simbolico? Come potrebbe essere detta l’esperienza mistica, esperienza somma della  Presenza se non attraverso tale strumento? Ma questo è una altro argomento.

Riferimenti bibliografici

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Ales Bello, A. (2002). Teologia negativa, mística, hilética fenomenológica: a propósito de Edith Stein. Memorandum, 3, 98-111. Downloaded at 31/ 10/ 2002, from World Wide Web http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos03/alesbello01.htm.

Bresciani E. (a cura di). Testi religiosi dell’antico Egitto. Milano: Arnoldo Mondatori, 2001.

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Note

(1) Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung (1898-1925), di E. Husserl (1980) è stato oggetto di analisi da parte di P. Ricoeur (2000) nel suo La memoria, la storia e l’oblio, Parte prima Della memoria e della reminiscenza.(volta)

(2) In particolare sotto il profilo dell’Enttäuschung, la delusione dell’aspettativa, Parte Prima, cap. I, § 5.(volta)

(3) § 110.(volta)

(4) Discutendo il modo il cui i filosofi medievali hanno riflettuto sulla nozione di Dio, E. Stein si sofferma sull’inseparabilità dell’essere e dell’essenza in Dio sottolineata da Tommaso e osserva che se questo è vero «…è allora impossibile anche solo pensarlo senza l’essere: non rimarrebbe nulla se si eliminasse col pensiero l’essere – nessun quid a mo’ del quale poter pensare il non-ente. Quid, essenza e essere non sono qui distinguibili. Se si potesse cogliere con tutta chiarezza questo pensiero, avremmo qui il fondamento per una “ prova ontologica di Dio” , che sarebbe ancora più profonda ed evidente del pensiero dell’ens quo nihil maius cogitari possit, dell’essenza perfetta che si può pensare da cui prende le mosse sant’Anselmo» (Stein, 1936 / 1999, p. 148). In realtà ella ritiene che non sarebbe una prova, ma una conclusione tratta dalla “trasformazione del pensiero originario”; in che cosa consista il pensiero originario e quale trasformazione possa subire, mi sembra che si possa ricavare dalle osservazioni che seguono nelle quali si osserva che anche Tommaso, che pur rifiutava la prova di Anselmo, non ha contestato il pensiero originario, quando ha sostenuto che la proposizione Dio esiste è evidente, poiché, però, non è evidente la coincidenza di essere ed essenza, ecco la necessità della prova che muova dagli effetti. Il “pensiero originario” presente nello spirito umano - come afferma anche Agostino – può essere “trasformato” attraverso una razionalizzazione e quindi dar luogo ad una dimostrazione, ma rivela in ogni caso un “paradosso”, quello della tensione che esso vive fra finito e infinito e su questo  sembra alla Stein che «…si fondi il destino singolare proprio della prova ontologica; che si trovino, cioè, sempre nuovi difensori e nuovi avversari di essa: chi si è spinto fino al pensiero dell’Essere divino – dell’Atto primo, eterno infinito, puro – non può sottrarsi alla necessità dell’essere che vi è inclusa. Ma quando cerca di coglierlo così come si cerca di cogliere qualche cosa per via di conoscenza, esso si allontana da lui e non appare più come fondamento sufficiente  per erigervi l’edificio di una prova» (Idem, p.150). Ella indica in realtà la presenza in noi dell’infinito che, pur non potendo essere colto dal finito, fa sì che il finito colga se stesso in quanto tale.(volta)

(5) Per cogliere il significato di questo nucleo non servono né le determinazioni spaziali né quelle temporali, si tratta di ciò che la persona è in se stessa, di ciò che, nella sua semplicità, prescinde dal rapporto superficie – profondità e dallo sviluppo temporale della sua vita. Cfr. Stein (1931 / 2003): Potenza e Atto, cap.V, 8 e, p.198 e segg.(volta)

(6) Ho indicato le linee di fondo dell’antropologia filosofica presente nella descrizione essenziale fenomenologica in Ales Bello, 2000: Edmund Husserl: riflessioni sull’antropologia.(volta)

(7) E’ chiaro che qui sono sintetizzate intere serie di analisi che s’ispirano a numerosi passi delle opere di Husserl, che vanno dalle Idee per una fenomenologia pura, vol. I e II (Husserl, 1913 / 2002, 1952 / 2002a) alle Analisi della sintesi passiva (Husserl, 1966), a manoscritti in cui il rapporto hyletica-noetica è ulteriormente affrontato. Rimando per una trattazione più ampia, impossibile in questa sede, a Ales Bello, 2001 (Teologia filosofica e hyletica fenomenologica: intersoggettività e impersonalità) e 2002 (Teologia negativa, mistica, hyletica fenomenologica: a proposito di Edith Stein).(volta)

(8) “Si tratta, da un lato, di un senso simbolico che troviamo in una formazione: esso ci parla di un’imperturbabile stabilità e di una sicura affidabilità come qualità ad essa adeguate” (Stein, 1932-33 / 2000, pp.160-161).(volta)

(9) La Stein scrive che tale senso lascia “…presagire la presenza di uno spirito personale che sta dietro al mondo visibile ed ha conferito ad ogni formazione il suo senso; ha dato ad essa una forma a seconda della posizione che occupava nella struttura del tutto”. Si tratta “…della presenza di Colui che ha scritto questo ‘grande libro della natura’ e che per mezzo di esso parla allo spirito umano […]  intervenendo nel contesto della vita.” (Stein, 1932-33 / 2000, p. 167).(volta)

(10) Ho compiuto l’analisi fenomenologica dell’incarnazione in Ales Bello (1999): L’incarnazione della prospettiva della hyletica fenomenologica.(volta)

(11) A proposito della doppia modalità del vivere il tempo, quello lineare e quello ciclico-ripetitivo che implica una stratificazione rimando al mio articolo Ales Bello, 1996: Archeologia fenomenologica del tempo e dello spazio e al mio libro in corso di stampa L’universo nelle coscienza – Introduzione a Edmund Husserl, Edith Stein , Hedwig Conrad-Martius, Pisa: ETS, in cui analizzo l’operazione della Wiederholung, studiata da Husserl in Teleologia e temporalità.(volta)

 Nota al riguardo dell´autrice

Angela Ales Bello è professore ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma, Italia. Dirige il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche. È direttore della rivista “Aquinas” e fa parte del comitato di redazione di numerose riviste italiane e straniere fra cui “Per la filosofia”, “Segni e Comprensione”, “Analecta Husserliana”, “Phenomenological Inquiry”; collabora con “Recherches Husserliennes” e “Studien zur interkulturellen Philosophie”. Contatto: Pontificia Università Lateranense, Facoltà di Filosofia, Piazza San Giovanni in Laterano n.4, Città del Vaticano (00120).

Data de recebimento: 07/05/2003
Data de aceite: 03/10/2003 

Memorandum, 5, out/2003
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP.
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/alesbello02.htm

 

 

 

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