Mi propongo
di affrontare il tema del nostro convegno usando il metodo offerto
dall’analisi fenomenologica e quindi sottoponendo ad indagine i due
momenti centrali della problematica in esame, quello relativo al fenomeno
“simbolo” e quello connesso alla serie dei fenomeni che concernono
l’esperienza sacrale-religiosa. Con questo ultima espressione intendo da
un punto di vista storico-valutativo le religioni arcaiche, che conosciamo
indirettamente o attraverso sopravvivenze, e le religioni positive con le
loro configurazioni che sono per noi accessibili attraverso documenti e
testimonianze.
Il ritorno
alle proposte metodologiche offerte dalla fenomenologia presenta, a mio
avviso, il vantaggio di penetrare nelle nozioni, nei fatti, negli eventi,
in breve nelle “cose”, Sachen, che ci si presentano dal punto di
vista esperienziale e culturale per coglierne il senso sia nella loro
singolarità sia nella loro connessione. La difficoltà sta nella necessità
di ripercorrere analiticamente il cammino già in gran parte delineato dei
fenomenologi classici per vagliare di nuovo la validità dei risultati
raggiunti sempre in riferimento, non ad opinioni soggettive, ma alle “cose
stesse”. E’ necessario, pertanto, l’esercizio di una “pazienza” analitica,
perché i risultati saranno tanto più validi, quanto più il procedimento
sarà rispettoso delle realtà prese in esame.
Ponendomi
nella prospettiva indicata vorrei ripercorrere in primo luogo le analisi
di Husserl sul simbolo che accompagnano gran parte della sua ricerca
rappresentando un aspetto non secondario, ma spesso trascurato e non
proficuamente utilizzato per applicare alcuni risultati della sua indagine
al tema dell’esperienza religiosa.
L’analisi
della funzione simbolica si trova, infatti, all’inizio della ricerca
husserliana già nella Philosophie der Aritmetik del 1890 e si snoda
fino agli anni Venti, connessa con l’indagine del vasto territorio delle
operazioni presenti nella soggettività umana di cui abbiamo consapevolezza
(Erlebnisse). Nella sua prima opera tale funzione è studiata
relativamente alla genesi del numero; infatti, tutte le operazioni
aritmetiche conducono ad una rappresentazione numerica simbolica che si
esprime in un determinato numero.
Per stabilire
che cosa sia il simbolo in se stesso e che cosa possa essere considerato
simbolico, ad esempio il numero, la parola e altre nozioni che sono
ritenute tali, Husserl torna sull’argomento nelle Logische
Untersuchungen, in cui si sottolinea la differenza fra il segno puro e
semplice e il segno significativo nel quale si esprime intenzionalmente il
pensiero simbolico. Non interessa ora ripercorre nei dettagli il cammino
husserliano, ma ai fini della presente trattazione i testi più importanti
sono quelli relativi alle Lezioni del semestre invernale tenute da Husserl
nel 1904-05 e dedicate alle Hauptstücke aus der Phänomenologie und
Teorie der Erkenntnis (Parti principali tratte dalla fenomenologia e
dalla teoria della conoscenza ora pubblicate nel vol. XXIII della
Husserliana dal titolo Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung 1898-1925)
(Husserl, 1980). Fra queste “parti principali”, si potrebbe dire “articoli
fondamentali”, si trova lo studio della percezione, quello della coscienza
immaginativa o raffigurativa che si divide in una forma fantastica e una
simbolica e l'analisi del ricordo. Tutto ciò rimanda per una comprensione
più approfondita alla questione del tempo, che Husserl (1985) sta
parallelamente analizzando in modo autonomo (Zur Phänomenologie des
Zeitbewusstseins 1893-1917). Come si può notare l'approccio alla
dimensione della coscienza diventa sempre più analitico ed ulteriori atti
sono sottoposti ad indagine; ciò consente di esaminare il significato del
simbolo risalendo alla sua funzione specifica attraverso il confronto con
altre espressioni umane.
In primo
luogo è opportuno distinguere due modi “primitivi”di rappresentazione: la
percezione e la ripresentazione. Quest'ultima può avvenire attraverso
l'analogia e in tal modo la raffigurazione che si ottiene può essere
interna o immanente, nel senso che è legata all’oggetto rappresentato,
oppure può rimandare all'esterno, in tal modo si ha una rappresentazione
simbolica. In questo tipo di rappresentazione si individuano due classi;
la prima, che Husserl definisce simbolica nel senso originario e
tradizionale della parola, si realizza attraverso raffigurazioni, ad
esempio, di tipo geroglifico. In origine anche il linguaggio e la
scrittura avevano questo carattere geroglifico, infatti, l'operazione qui
implicata era quella di “levigare”, togliere il superfluo per ottenere una
sorta di stilizzazione; in seguito si costruirono artificialmente parole,
segni algebrici - ritorna qui la riflessione sul simbolismo matematico -
che danno alla rappresentazione un carattere “segnico” senza legami con le
cose rappresentate con le quali, anzi, non hanno nulla a che fare
internamente, e questa è la seconda classe della rappresentazione
simbolica.
Tutto ciò
riconduce alla coscienza immaginativa che si articola nella raffigurazione
interna o esterna, quest'ultima simbolica, e nella fantasia. Alla
fantasia, in verità, è dedicata la parte più cospicua dell'analisi
condotta da Husserl (1980) nel testo che si sta esaminando e negli altri
testi contenuti nel volume XXIII della Husserliana. Ed è proprio il
confronto con la fantasia e con il ricordo che consente di circoscrive in
modo sempre più preciso la funzione simbolica. Poiché quest'ultima fa
parte di una raffigurazione (Bild), se essa consiste in un oggetto
in senso fisico che è qualcosa di finto (Fiktum), appare come una
cosa fisica, ma non è la cosa originaria che è percepita in modo diretto.
Questa finzione, o meglio la coscienza producente la finzione, si
compenetra con la coscienza della ri-presentazione, in tal modo nasce la
coscienza immaginativa
(1) e con essa un nuovo contrasto fra ciò che è oggetto di finzione
(Fiktum) e ciò che è immaginato (Imaginatum).
Alla fantasia
manca l'oggetto finto; l'immagine di fantasia non è una raffigurazione
relativa a qualcosa di reale e presente, infatti non c'è nessun
riferimento ad una percezione. Se c'è una sorta di raffigurazione essa non
è rivolta all'esterno o se lo è, l'aspetto importante è quello della
raffigurazione interna. L'oggetto raffigurato come oggetto fisico pone la
questione della maggiore o minore conformità con la cosa reale - e qui
Husserl porta esempi tratti dalle tecniche artistiche di tipo
raffigurativo, il quadro ad olio, l'incisione, il disegno ad inchiostro di
china o il calco di gesso - sottolineando che si ha una percezione sia nel
caso dell'originale sia in quello della copia, anzi che, da questo punto
di vista, essi sono sullo stesso piano, ma che, contemporaneamente, la
copia contiene sempre un negativo, nel senso che “non” è l'originale; al
contrario, se si esamina la fantasia, i suoi oggetti non solo non cadono
nell'ambito della percezione, ma appartengono ad un mondo totalmente
diverso, del tutto separato da quello attualmente presente. Se pensiamo di
togliere il carattere di raffigurazione agli oggetti raffiguranti e il
loro non essere gli oggetti raffigurati, rimane l'oggetto di percezione;
ma se compiamo la stessa operazione con gli oggetti della fantasia, non ci
rimane certo alcunché di percepito.
E' possibile,
allora, distinguere l'immaginazione in senso proprio e l'immaginazione nel
senso della semplice fantasia. Nel primo caso un oggetto appare come
raffigurazione di un altro, quindi l'oggetto presente come
ri-presentazione di quello non presente, sia esso fisico o meno. Tutto ciò
è chiaro nella funzione segnica o simbolica: “Il simbolo appare in se
stesso, ma è portatore di una connessione con qualcosa d'altro che in esso
è segnalato” (Husserl, 1980, p. 82). Tuttavia è opportuno distinguere la
funzione raffigurativa da quella simbolica in quanto la prima è
raffigurante internamente, mentre il simbolo esternamente. La
raffigurazione, però, non è l'originale. Nel caso dell'immaginazione,
intesa come fantasia, il ruolo dell'oggetto è del tutto diverso. Non si
tratta di un oggetto che il soggetto guarda come membro di un campo di
oggetti percepibili, sia esternamente raffigurato dal soggetto sia
simbolizzato attraverso una somiglianza sempre più lontana. Nella fantasia
non c'è rimando a ciò che non è presente, ma l'oggetto è proprio della
fantasia. Ad esempio posso formarmi una raffigurazione fantastica
dell'imperatore Cesare, é chiaro che se la analizzo mi rendo conto che non
si tratta né di una rappresentazione “propria”, nel senso che Cesare è
presente in carne ed ossa, né di una raffigurazione di lui come non
presente e neppure di un ricordo. Infatti non lo “percepisco”, né lo ho
percepito e lo ricordo, né lo ho percepito e lo raffiguro, neppure so che
la raffigurazione mi rimanda ad un possibile percepire (cf. Idem, p. 153).
Questa
sottile analisi delle differenze fra i vissuti - percezione, ricordo,
raffigurazione, fantasia - consente di individuare attraverso una serie di
esclusioni reciproche il significato proprio del simbolo. Nei testi ai
quali ci si riferisce l'analisi riguarda in particolare la dimensione
estetica. L'esame del quadro di Tiziano “Amor sacro e amor profano” dà lo
spunto per individuare un pluralità di approcci. Una riproduzione in
formato ridotto di quel quadro, che probabilmente Husserl aveva davanti a
sé, gli consente di riprendere il tema della raffigurazione e quindi del
rimando a ciò che assomiglia; qui si sviluppa il tema della somiglianza
che è alla base della rappresentazione simbolica come nel caso delle
parole onomatopeiche, caso in cui si è consapevoli della somiglianza.
Tuttavia ci si può immergere nel quadro cercandone il significato in
questo caso la coscienza raffigurativa non coglie il quadro ma ciò che è
simbolizzato; si può cogliere, pertanto, una nuova intenzione, quella
relativa al soggetto stesso che è autore del quadro. Nei momenti di
concordanza di interesse si ha una “rappresentazione” del soggetto stesso,
in modo tale che viviamo, sperimentiamo concordanze; si attua, così, un
processo di somiglianza per cui cogliamo ciò che intendeva il pittore
stesso, come se fossimo Tiziano. Questo non esclude la tensione fra la
funzione di rimando del quadro che ri-presenta un oggetto e la profonda
unità di esperienza che si attua con il soggetto autore del quadro, per
cui la coscienza va verso l'interno e poi di nuovo verso l'esterno; si può
comprendere meglio tutto ciò usando il riferimento alla funzione simbolica
nella quale si realizza un rimando fra il simbolo e ciò che inteso dal
simbolo, anzi quest'ultimo può attrarre l'attenzione di per sé,
prescindendo dal rapporto simbolico (cf. Idem, pp. 153-156).
Si può
notare, allora, che ci sono gradi diversi di “somiglianza” che riguardano
la coscienza raffigurativa, quella simbolica o quella segnica, come
sottolinea Husserl nell'Appendice dedicata a Stufen der Ähnlichkeit,
beim Bild-, Symbol- Zeitbewusstsein (cf. Idem, pp. 149 e segg.), ma
anche distinzioni. In tal modo la funzione simbolica è individuata
attraverso un'analisi che la mette in correlazione e la distingue da altre
funzioni e operazioni della coscienza che nel procedere concreto sono
spesso intrecciate, compresenti o simili; ci si rende conto, perciò, delle
difficoltà nello svolgimento del compito analitico e della pazienza
richiesta al ricercatore nel seguire i sottili intrecci della vita della
coscienza.
Realtà e
simbolo
Dall'analisi
precedente si ricava un risultato generale che emerge come filo
conduttore; esso consiste in una prima, fondamentale individuazione
del significato della coscienza percettiva che si trova davanti
a ciò che è percepito “in carne ed ossa” e che quindi è riempita
in modo originario, l’originarietà della percezione consiste proprio
in questa possibilità di accedere a ciò che è reale (wirklich).
E' sufficiente una breve, concisa affermazione di Husserl per
intendere ciò: «Gemalte Farben sind nicht ganz so wie wirkliche»
(Idem, p.49): I colori dipinti sono affatto come quelli reali.
Ed è chiara anche la coscienza di questa distinzione che, come
tutte le distinzioni essenziali, è colta intuitivamente. Ciò non
esclude che in particolari condizioni ci si possa ingannare, l'errore
è sempre tenuto presente ed è a sua volta oggetto di analisi;
per citare un rimando significativo, ciò è esaminato da Husserl
(1966)
nella
Prima Parte delle sue Analysen zur passiven Synthesis (1918-1926),
Husserliana vol. XI, in cui tratta delle modalità conoscitive
(Modalisierung)
(2).
Se la
percezione gioca un ruolo fondamentale per la vita della coscienza,
quest'ultima manifesta un’ampiezza e una ricchezza di funzioni che è
sorprendente. Si è cercato di dare un saggio di questo processo analitico
e si sono indicati alcuni risultati che hanno consentito di individuare
l'altra funzione importante della coscienza che è quella della
ri-presentazione, perché se la coscienza percettiva coglie ciò che
presente, altre funzioni hanno un andamento ri-produttivo; tuttavia non
possono essere poste sullo stesso piano, infatti la raffigurazione è una
riproduzione che muove da ciò che è percepito anche se lo propone secondo
gradi diversi di “somiglianza”, mentre la fantasia, pur essendo una
ripresentazione, ha una funzione riproduttiva di modificazione tale che
genera un mondo diverso, “altro” rispetto al mondo reale. La funzione
simbolica differisce da entrambe in quanto non raffigura semplicemente, ma
intende qualche cosa d'altro, essendo legata in modo più vicino o più
lontano a ciò che è inteso, ma non generando un mondo alternativo. La
raffigurazione, il simbolo, la fantasia hanno una loro originarietà come
atti della coscienza, ma non sono certamente originari nel senso della
percezione, ciò che manca ad essi è, appunto, il riferimento alla realtà,
cioè non sono wirklich.
Il primato
accordato al momento percettivo non può essere inteso come un residuo
empiristico. Ciò che bisogna sottolineare in ogni caso è che, lungi dal
rinchiudersi nell'ambito coscienziale, l'essere umano è in primo luogo
aperto al mondo reale, al contatto percettivo con le cose attraverso la
sua corporeità che è riconosciuta nella sua funzione di presenza nel mondo
fisico e di tramite fra esso e il mondo dell'interiorità. È necessario
sottolineare, tuttavia, che il “mondo per noi” non si riduce al semplice
mondo percepito; al contrario se la percezione rappresenta un'apertura, il
mondo è costituito dall'insieme delle esperienze sedimentate, elaborate, e
quindi raffigurate e ricordate, ma anche progettate come possibili, per
cui il mondo per noi è il mondo che ci portiamo dentro come un bagaglio
enorme e dilatabile sempre, ulteriormente nel contatto e nel rapporto con
le cose e soprattutto gli altri soggetti.
La varietà e
pluralità degli atti ci consente di individuare le venature di questo
mondo che in ultima analisi è un mondo culturale, ma mai solipsistico,
anche se la dimensione interiore con le sue modalità strutturali e con le
sue caratteristiche particolari e insostituibili costituisce un unicum
irripetibile.
Su questo
sfondo la funzione simbolica si affianca alle altre svolgendo il suo ruolo
specifico, possedendo pari valore e dignità, ma non tutto passa attraverso
il simbolo, anche se è possibile simbolizzare. Ciò che la coscienza vuole
cogliere in verità è il significato di ogni “cosa”, sia questa da
intendersi anche come operazione stessa della coscienza, e quindi si vuole
individuare il significato del simbolo in quanto simbolo. E il significato
si coglie come evidenza e non in un rimando simbolico.
Analisi fenomenologica dell’esperienza religiosa
Tenendo presente l’indagine sulla funzione simbolica, sinteticamente
proposta, si tratta ora di stabilire quale sia la sua presenza nell’ambito
dell’esperienza sacrale-religiosa, ma per fare questo è necessario
sottoporre alla stessa analisi anche tale esperienza. Ci si può domandare,
rimanendo sul terreno individuato dalla fenomenologia, quello dei vissuti,
quale sia la specificità dei vissuti religiosi. In realtà, pur parlando
molte volte i fenomenologi classici dell’esperienza religiosa, una vera e
propria ricognizione fenomenologica in questo ambito non appare nei loro
scritti, ma è ora che si proceda a svolgere tale compito.
Si
può prendere spunto da una domanda che si pone la fenomenologa
Edith Stein e dalla risposta ella dà; tale domanda riguarda che
cosa sia la sensibilità artistica e la risposta è così formulata:
“E’ la potenza di valutare qualcosa circa il suo grado di bellezza
e di godere di esso” (Stein, 1931 / 2003, p.210). Se ci si pone
la stessa domanda riguardo alla “sensibilità” religiosa si nota
che si tratta sempre di una “potenza di valutare” riferita a quell’esigenza
di “riempimento” di un’apertura costitutiva dell’essere umano
verso qualche cosa che lo trascende, che viene incontro, per usare
l’espressione di van der Leeuw (1933 / 1992)
(3),
e che soddisfa tale apertura e che consente, quindi, il godimento.
Si tratta, per usare ancora il linguaggio della Stein, di una
naturale disposizione della persona, potenzialmente presente in
essa fin dall’inizio della sua esistenza e tutto ciò si riflette
nella dimensione dei suoi vissuti. Ma di quest’ultimo punto si
parlerà in seguito. Qui è bene insistere sulla fondamentale apertura,
costitutiva dell’essere umano.
Perché
tale apertura non sia solo un presupposto ma sia giustificata,
si possono percorrere vie diverse, vie di carattere filosofico,
come quella di Agostino e Anselmo, vie descrittive in senso fenomenologico,
vie proprie di un’indagine psicologica, tutte confluenti e non
alternative. Una pensatrice che ha avuto il merito di indicarle
e di percorrerle è stata Edith Stein; ella ci sollecita ad individuare
nel primo caso “un pensiero originario” della divinità, presa
nel senso più ampio presente in noi (4),
nel secondo caso un nucleo, come centro o radice della persona
(5),
nel terzo un’esigenza o desiderio di riempimento di una mancanza,
di un’insufficienza, che è forse la spia più forte e immediata
della presenza del pensiero originario. Lungi dall’essere disprezzabile
la via psicologica è, al contrario dell’utilizzazione che ne fanno
i sostenitori dell’ateismo – si pensi a Feuerbach o a Freud –,
una fonte corroborante le altre, perché la domanda che può essere
rivolta a chi sostiene che l’esperienza del sacro e del divino
sia frutto del desiderio umano riguarda proprio la ricerca della
ragione ultima della nascita nell’essere umano di tale esigenza
o di tale desiderio e qui risuona validamente la parola agostiniana,
secondo la quale non cercheremmo e quindi non desidereremmo, se
già non sapessimo, benché oscuramente, ciò che cerchiamo.
Rispetto a
queste tre vie vorrei indagare in questa sede la via descrittiva in senso
fenomenologico. Uso le indicazioni dei fenomenologi classici, come ho già
fatto, ma vorrei, anche, integrarle e ampliarle.
Per
incamminarci su questa via è necessario osservare che si debbono
utilizzare i risultati dell’analisi fenomenologica nel campo dell’antropologia.
Che cosa è l’essere umano? A questa domanda la fenomenologia classica
risponde seguendo Paolo di Tarso: carne, anima, spirito, ma il
modo in cui conferma l’interpretazione paolina – senza citarla
esplicitamente, l’accostamento è mio e riconosco che solo una
supposizione - è estremamente importante, la via scelta è, infatti,
quella che movendo dalla riduzione eidetica e da quella trascendentale,
entra nella sfera dei vissuti e li esamina non relativamente ai
loro contenuti, ma alla loro struttura. Tali vissuti, ad esempio
la percezione, il ricordo, l’immaginazione, come si è già indicato,
ma anche il desiderare, il tendere, prendere posizione spontaneamente
il valutare, il pensare il volere, rimandano a sfere che sono
denominabili come corpo, psiche e spirito
(6).
Ma
proprio l’ingresso attraverso i vissuti consente di cogliere la
differenza fra profondità e superficie e lo scavo nella profondità
conduce a quella che la Stein definisce l’anima dell’anima, oppure,
insieme a Husserl, il Kern, il nucleo, il luogo più profondo
in cui avviene l’orientamento verso altro da sé, e l’apertura
verso l’Altro. E tale orientamento utilizza tutta la dimensione
dei vissuti per procedere verso il riempimento atteso, desiderato,
pensato e valutato.
Il nucleo e la presenza
Il nucleo è il luogo ultimo di disvelamento
dell’impronta del sacro-divino, tuttavia l’essere umano, preso nella
complessità dei suoi momenti costitutivi, è impegnato globalmente in tale
esperienza, anzi essa comincia proprio dalla sfera hyletica.
Per comprendere la funzione di tale sfera è
opportuno ricordare che nell’analisi dei vissuti Husserl pone in evidenza
la duplicità fra il momento noetico intenzionale e quello hyletico o
materiale. Seguendo tale filo conduttore tento sinteticamente di
riproporre un itinerario che si potrebbe definire gnoseologico, ma che si
intreccia fortemente con quello antropologico nel doppio senso
dell’antropologia filosofica e dell’antropologia culturale.
La duplicità di noesis e hyle si
rintraccia in base all’analisi del corpo vivente il quale non ha soltanto
localizzazioni relative alle sensazioni sensoriali che esercitano una
funzione costitutiva per gli oggetti che appaiono nello spazio, ma anche
relative a sensazioni di gruppi completamente diversi, cioè ai sentimenti
sensoriali, alle sensazioni di piacere e di dolore, di benessere corporeo
o di disagio derivante da un’indisposizione corporea. Siamo nella sfera
della passività esaminata nella prospettiva delle sintesi passive, nel
momento in cui soggetto e oggetto non sono ancora distinti e i dati
hyletici sensoriali non egologici sono strettamente legati ai dati
egologici.
Dal punto di vista che si può definire largamente
gnoseologico, si inizia dall’unità associativa attraverso la quale
si delinea l’omogeneità e la differenza per passare alla sfera
dell’affezione, campo dei dati hyletici sensoriali, ad esempio
del colore e della ruvidezza; la recettività che si esercita a
questo punto suscita sentimenti sensoriali e si apre la via alle
operazioni più consapevoli nelle quali agisce il momento noetico,
cioè l’apprensione, la comprensione e l’appercezione. Tutto ciò
consente il doppio movimento del conoscere e del valutare e la
conseguente distinzione fra soggetto e oggetto la quale, poi,
può essere più o meno fortemente tematizzata
(7).
Applicando i risultati delle analisi ora condotte
alla dimensione del sacro si costata che la via della sacralità è quella
in cui soggetto e oggetto, conoscenza e valutazione non sono distinte fino
in fondo ed è su questa base che si delineano le differenze culturali fra
visione arcaica-sacrale e visione religiosa propria delle religioni
storiche. Ciò non significa che nella prima il momento noetico non sia
presente, ma che non agisce autonomamente, anzi è guidato dalla
hyleticità, in altri termini il momento conoscitivo e quello valutativo
sono sempre presenti, ma fortemente legati e attratti dalla sfera
hyletica. Particolarmente importanti sono i sentimenti sensoriali che
svolgono per gli atti del sentimento e per gli atti valutativi lo stesso
ruolo che le sensazioni primarie hanno per gli Erlebnisse
intenzionali nella sfera della costituzione degli oggetti spaziali-cosali
perché le sensazioni della tensione e del rilassamento dell’energia, le
sensazioni dell’inibizione interna, della paralisi e della liberazione e
così via sono sensazioni localizzate con le quali si connettono le
funzioni intenzionali del sentimento e della valutazione, fondamentali per
il riconoscimento della “Potenza” sperimentata attraverso la forza
manifestativa e attrattiva propria della hyle. Lo stato di piacere, il
senso di benessere possono essere il fondamento della gioia come il
malessere, l’inibizione interna possono essere alla base della paura, del
terrore.
Penetrando
nella dinamica interna dell’esperienza religiosa si può rintracciare come
agisca la forza attrattiva nell’ambito religioso e in modo sorprendente si
chiarisce la struttura di quel terreno, apparentemente misterioso ed
inesplorato costituito dalla sacralità arcaica. Si pensi alla forza
attrattiva esercitata da un luogo straordinario, ad esempio da una
sorgente, da un alto monte, da un albero isolato e peculiare per la sua
forma, da una grotta e così via, come manifestazioni del sacro
riconosciuto come tale perché ad essi si lega lo stato di benessere che
procura la gioia. Ma nello stesso tempo tutto ciò può essere fonte di
paura, di timore, e presentarsi come il luminoso o il tremendum di
cui parla Rudolf Otto.
Nella fenomenologia classica un esempio proposto da
Edith Stein può esser di sostegno e conferma di ciò che è stato
qui ricavato. Ella si riferisce ad un blocco di granito. Si tratta
certo, secondo il punto di vista prevalente nella nostra cultura,
di una formazione materiale, tuttavia, in essa si rivela un senso,
essa è piena di senso, perché tale formazione è costituita
secondo un principio strutturale proprio “ne sono parte essenziale
il suo peso specifico, la sua consistenza, la sua durezza; anche
la massa, il fatto che “si presenti” in blocchi enormi” e tutto
ciò “richiama la nostra attenzione in modo singolare”, infatti
“questa irremovibile consistenza e questa massa - continua la
Stein – non sono solo qualcosa che cade sotto i nostri sensi e
che la ragione costata come una realtà. I sensi e la ragione
sono colpiti interiormente; in essi si rivela a noi qualcosa;
in questa realtà leggiamo qualcosa” (Stein, 1932-33 / 2000, p.
166). Il qualcosa che è individuato non è soltanto un senso simbolico,
che pure può essere presente secondo l’esplicita ammissione della
Stein, ma una presenza che si giustifica attraverso l’analisi
dei dati hyletici; il blocco di granito “ci parla di un’imperturbabile
stabilità e di una sicura affidabilità come qualità ad esso adeguate”
(Idem, p. 167)
(8),
l’imperturbabilità, la stabilità, l’affidabilità sono risonanze
interiori, danno un senso di benessere, di sicurezza che non è
lo stesso che può esser suscitato dall’argilla o dalla sabbia
che “non si lasciano interpretare allo stesso modo del granito”
(Idem, p.167). Si pone qui la questione riguardante il significato
del “ci parla”. Si tratta di analizzare le modalità interiori
di ricezione di tale linguaggio, che è la manifestazione di un
“senso” che rimanda all’Autore del senso di ogni formazione
(9).
Riprendendo l’analisi dalla dimensione corporea si
ritorna al livello sensoriale, notando che alle sensazioni localizzate si
connettono, allora, i sentimenti sensoriali che formano la base della vita
del desiderio, della volontà, delle sensazioni di tensione e di
rilassamento dell’energia, le sensazioni dell’inibizione interna, della
paralisi, della liberazione, e a tutto ciò si aggiungono le funzioni
intenzionali, noetiche, ma il momento hyletico sembra trascinare quello
noetico, da qui la perentoria affermazione di Husserl: “l’intera coscienza
di un uomo è in un certo modo legata al suo corpo proprio attraverso la
sua base hyletica” (Husserl, 1913 / 2002, p. 547). Che ciò sia da noi
sperimentato è confermato anche dal fatto che non distinguiamo la
sensazione localizzata dalla percezione, quando localizziamo la percezione
tattile nel dito o il pensiero nella testa, la percezione e il pensiero
non sono, infatti, localizzati ma l’attrazione hyletica fa concentrare
l’attenzione sul corpo proprio. Si comprende, allora, che il termine
hyletica non indica la materia nel senso della nostra tradizione
culturale, ma un nuovo territorio mai completamente esplorato che
costituisce il “materiale” per la dimensione noetica.
Mi sembra che l’analisi della sfera hyletica possa
essere utile strumento per cogliere il significato profondo
dell’esperienza sacrale-religiosa, infatti il momento hyletico ha un
valore altamente manifestativo anche se non egocentrato e ciò è
caratteristico di quelle culture in cui la hyletica trascina la noetica
generando una sorta di impersonalità che si contrappone ad una diversa
combinazione della noetica e della hyletica nelle culture avanzate in cui
la noetica è a sua volta trascinante, come è dimostrato dall’emergenza del
momento coscienziale propriamente egocentrato.
Il momento hyletico può essere considerato come un
noema sui generis, per cui non si tratta di ricondurre il sacro
alla sensibilità e quindi procedere alla riduzione alla sfera
soggettiva-sensibile, in primo luogo perché la hyle non è da intendersi in
senso empiristico o fisicalistico, in secondo luogo a causa della continua
presenza dei momento noetico, costitutivo per l’attribuzione del valore
sacrale, attribuito proprio grazie alla forza trascinante-manifestativa
della hyletica. Si può affermare che il sacro è una “presenza” il cui
nucleo noematico è hyletico.
Presenza e simbolo
Per discutere il rapporto presenza e simbolo
nell’esperienza sacrale-religiosa, propongo di iniziare da un caso
particolare, quello legato alle ricerche relative alla cultura della
cosiddetta Dea-madre o Grande-Madre, mi riferisco alle indagini condotte
da Marija Gimbutas e da Bernard C. Dietrich sulle religioni arcaiche
presenti nell’Europa continentale e nelle regioni del bacino del
Mediterraneo su reperti databili fra il 6.500 e il 3.500 a.C. nell’Europa
sud-orientale e dal 4500 al 2500 a.C. nell’Europa occidentale, quindi dal
Paleolitico all’Età del Bronzo per alcune culture mediterranee come Cipro,
Creta, Sardegna, Sicilia e Malta. La Gimbutas considera i reperti come
Il linguaggio della Dea (Gimbutas, 1989), si tratta, perciò, si
porre il problema del modo in cui tale linguaggio debba essere analizzato.
Seguendo l’impostazione prevalente nella scuola di Lovanio sostenuta da
Julien Ries, l’autrice sottolinea l’aspetto simbolico di tali reperti le
cui strutture rinvenibili in immagini e disegni rimanderebbero a…,
avrebbero il significato di…, rappresenterebbero gli attributi della Dea.
L’analisi fenomenologica prima proposta consente di superare questa
interpretazione che tende a fare di quelle rappresentazioni “simboli”e che
è coerente con la nostra mentalità, ma che non appare propria del pensiero
arcaico. I reperti dimostrano, infatti, che la scelta delle
raffigurazioni, degli oggetti, dei luoghi è guidata non da un rimando
simbolico, ma da profonde somiglianze sul piano hyletico che sono
testimonianza del “realismo” della mentalità arcaica di quelle popolazioni
e non della loro attitudine simbolica. D’altra parte la stessa Gimbutas
implicitamente sembra ammettere ciò quando sostiene che il menhir è
l’epifania della Dea uccello e quindi non il suo simbolo e quando sostiene
che la dea, pur nella varietà delle sue epifanie e funzioni, è una sola ed
è immanente più che trascendente e perciò si manifesta fisicamente. La
donna-uccello con seni e glutei prominenti è dispensatrice e
protettrice di vita e di nutrimento perché suscita un senso di benessere
con la sua manifestazione e fornisce, quindi, quella potenza che si cerca
per la propria vita, ed è valutata come fornente tale potenza che riempie
l’aspirazione profonda verso la potenza. E proprio per questo si manifesta
come la “Potenza”, non si tratta di rimando, ma di presenza.
Molti esempi si potrebbero addurre per mostrare il
realismo della mentalità arcaica, voglio citare solo un’interessante
osservazione di Dietrich, egli scrive: “La sensazione della presenza
divina, la pratica dell’invocazione diretta erano i tratti principali
della religiosità minoica e micenea. Tutti gli sforzi errano rivolti alla
comunicazione diretta col divino, un concetto che fondamentalmente diverso
dall’esercizio di un culto praticato davanti ad una statua” (Dietrich,
1991, p. 87), questo spiega la mancanza di reperti statuari, come è
costatabile ancora in Omero, infatti la figura seduta di Athena nel tempio
di Troia (Iliade, 6, 302-11) non può essere considerata una statua,
in quanto il poeta dice che ella scuote la testa. In seguito si perse la
consapevolezza di tutto ciò, infatti Aristònico, commentatore omerico,
giudicava ridicola questa descrizione perché riteneva che si trattasse di
una statua.
Un’ulteriore conferma della credenza nell’epifania
si ha nell’architettura dei palazzi e dei luoghi di culto della civiltà
minoica, in essi si trova uno spazio aperto destinato all’apparizione
della divinità, forse rappresentata in qualche caso dalla sacerdotessa,
quindi “presenza” della divinità e non “rimando”.
Si può addurre un altro esempio tratto dalla
religione egiziana. La studiosa Edda Bresciani (2001) afferma nella sua
Introduzione ai Testi religiosi dell’antico Egitto che: “Per gli
egiziani un’immagine era ben più che una semplice raffigurazione, era una
realtà, una presenza fisica; e il tempio, a sua volta, era un “cielo”
sulla terra che conteneva la statua del dio animata dalla magia (heka)
– cioè l’energia attiva dell’universo - ed era la sua residenza. Quando al
mattino il sacerdote apriva le porte sigillate del tabernacolo, apriva in
realtà le porte del cielo in modo da vedere la forma del dio nel cielo
terrestre. Una delle ragioni del culto era quindi costituire in terra un
luogo di soggiorno attraente per gli dei, fare del tempio una replica del
cielo, degna della statua del dio, e prendersene cura perché egli fosse
felice di vivere fra gli uomini” (pp. XVIII-XIX).
Nella cultura occidentale la crisi dell’arcaicità e
l’inizio del predominio del momento noetico - testimoniata dal
commentatore omerico - risale alla nascita della cultura greca classica in
parte già dal periodo presocratico. Attraverso tale primato non si elimina
certamente la dimensione hyletica, ma la sua funzione sembra diventare
secondaria. Tuttavia è proprio nella dimensione religiosa che la
sopravvivenza della hyletica si mostra più fortemente. La stessa Gimbutas
(1989) studia la sopravvivenza del culto della Dea–Madre e le vede in
molti simboli della nostra arte e letteratura. Tutto ciò può valere a
livello simbolico, ma cosa ne è della “presenza” del divino nella nostra
cultura?
Compiendo uno spostamento enorme in termini
temporali, fisso l’attenzione sulla religione cristiana per esaminare il
rapporto simbolo-presenza. Ma prima voglio fare riferimento a due eventi
presenti ancora oggi nella religione induista. Percorrendo da nord a sud
il subcontinente indiano troviamo nelle due estremità riti identici nel
significato che sono segni della credenza nella “presenza” della divinità.
Nel Nepal ancora oggi la Dea-bambina si affaccia da una finestra di un
palazzo di Katmandu essendo l’epifania della Dea; è stata scelta con
particolare cura in un villaggio vicino attraverso un rituale crudele e
non rappresenta la Dea, ma è la Dea. Nel Tamil-Nadu sulla rive
dell’Oceano Indiano dove si trova il tempio della Kania Kumari la Dea
appare nella fase della luna crescente rappresentata ogni giorno da
bambine e fanciulle da 1 a 16 anni che sono la manifestazione della Dea.
Riguardo al cristianesimo pongo l’attenzione su
alcuni passi evangelici.
In primo luogo vorrei commentare l’incontro di Gesù
con la donna samaritana perché mi sembra estremamente importante dal punto
di vista della storia delle religioni, intesa come
configurazione/espressione dell’esperienza religiosa. Il tema dell’acqua,
che coinvolge la sfera psico-fisica: impulso al bere come esigenza fisica,
ricerca dello stato di benessere che deriva dal soddisfacimento di questa
esigenza importante per la vita, si sposta sul un altro piano, quello che
noi definiamo spirituale, in modo da evidenziare la distinzione fra i due
piani. Gesù dice: “chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi
beve dell’acqua che gli darò, non avrà mai più sete, anzi l’acqua che gli
darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”
(Gv. 4, 13-14).
Ulteriore distinzione si trova nella discussione,
che si potrebbe definire teologica, che si svolge fra Gesù e la
donna la quale sollecitata da questo straordinario incontro, intuendo
le capacità profetiche presenti nell’uomo che ha davanti, pone,
inaspettatamente, la questione della scelta del luogo di culto
di Dio, oggetto di divisione fra i Giudei e i Samaritani. La risposta
di Gesù sposta la questione sottraendola al predominio del piano
hyletico, mette in crisi non solo la scelta del luogo di culto,
ma supera la ragione per cui era stato scelto il monte Garizim
o Gerusalemme, come luogo di “manifestazione” della divinità.
La forza attrattiva che il monte suscita attraverso le sensazioni
reazioni straordinarie non ha più senso, si attua uno spostamento
sul piano dello spirito, il nucleo, nel quale si manifesta l’apertura
verso la presenza, deve essere riempito attraverso il riempimento
che viene dalla Verità: “Dio è spirito, e quelli che lo adorano
devono adorarlo in spirito e verità; perché Dio cerca tali adoratori”
(Gv. 4, 23). Non solo si attua uno spostamento che opera una svolta
sul piano della storia delle religioni, ma si evidenzia in termini
di analisi fenomenologica lo spostamento sul momento valutativo
- noetico legato ad un’esperienza profonda di contatto con la
divinità. Tuttavia tale contatto non elimina la sfera hyletica,
perché nelle stesse parole di Cristo si conferma il passaggio
attraverso la sua persona come fisicamente configurata e quindi
oggetto di sensazioni che provocano reazioni e che hanno una forza
attrattiva e manifestativa: “ Gli rispose la donna: So che deve
venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà ci annunzierà
ogni cosa . Le disse Gesù: Sono io che ti parlo” e qui si apre
il grande tema dell’incarnazione nel quale hyletica ha molto da
dirci (10).
La tensione fra momento hyletico e momento noetico è
rintracciabile proprio nella “presenza” di Cristo, annunzio della
presenza: “Chi vede me vede colui che mi ha mandato” (Gv. 12,45) e
riconoscimento di tale presenza da parte di Pietro: “Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente” (Mt. 16, 16); è vero che ciò non è stato detto né
dalla carne né dal sangue perché la sfera sensibile da sola non può dirlo,
ma la presenza passa anche attraverso tale sfera: “Signore da chi andremo?
Tu hai parole di vita eterna” (Gv. 6, 68), parole che “udite” riempiono
l’apertura profonda verso la Potenza.
Ma il luogo in cui la hyletica manifesta tutta la
sua forza attrattiva è quello della vita sacramentale. In tale sfera la
connessione profonda fra hyletica e noetica si ricostituisce.
Il sacramento è il luogo della manifestazione della
divinità, il luogo della sua presenza reale, che passa attraverso la
sensazione, la percezione, gli stati d’animo psicofisici, raggiunge per
mezzo della valutazione il piano noetico, confermando il riempimento del
nucleo a livello spirituale. Presenza reale nella cosa che è recepita come
riempiente l’anelito alla presenza reale e tale riempimento opera la
trasformazione, altrettanto reale, che è lo stato di grazia coinvolgente
tutto l’essere umano nella complessità dei suoi momenti costitutivi.
Che cosa a che fare tutto questo con il simbolo? Nel
colloquio con la donna samaritana, in realtà Gesù utilizza anche i
simboli, l’acqua del pozzo è simbolo, cioè rimanda all’acqua come sorgente
che zampilla per la vita eterna e quest’ultima può essere compresa a sua
volta grazie al rimando all’estinzione possibile, prevista, sperata oltre
i confini della speranza, della sete fisica: “Signore, gli disse la donna,
dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire
qui ad attingere acqua” (Gv. 4, 15). La funzione simbolica può e deve in
qualche caso essere attivata perché la comprensione possa avvenire, perché
ci si possa avvicinare a quella realtà che non si coglie immediatamente.
In questo senso è chiaro che, oltrepassata la fase dell’arcaicità, la
dimensione simbolica viene sempre più frequentemente attivata, ma altra
questione è se possa qualificare di per sé l’esperienza religiosa. Che il
linguaggio religioso possa servirsi del simbolo una volta avvenuta la
scissione fra la realtà, il pensiero e la parola, è legittimo, ma
l’esperienza religiosa si caratterizza in quanto esperienza del divino è
sempre esperienza di presenza reale. La difficoltà sta nel mantenere in un
contesto in cui pensiero, parola e linguaggio si sono separati
progressivamente in maniera sempre più forte, come è accaduto nella
cultura occidentale, la loro connessione e ciò è dimostrato dallo
sganciamento del linguaggio come dimensione autonoma e anzi
onnicomprensiva e dalla sostituzione in alcuni casi del simbolo alla
realtà.
Rimanendo sul terreno dell’analisi della dimensione
sacramentale vorrei richiamare l’attenzione sull’istituzione dell’eucarestia
da parte di Gesù che si innesta sui gesti del rituale giudaico,
ma che assume un significato nuovo: “Prendete e mangiate; questo
è il mio corpo” (…) “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue
dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt.
26, 26-28). In questa sede non ci interessa la centralità di questa
istituzione per la vita della Chiesa cristiana, ci interessa l’insistenza
contenuta nella recente Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II
sul tema della “presenza”; nell’Introduzione si legge “…nella
sacra eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo
e nel sangue del Signore, essa (la Chiesa) gioisce di questa presenza
con un’intensità unica” e ancora “Perciò lo sguardo della Chiesa
è continuamente rivolto al Signore presente nel Sacramento dell’Altare”.
Nel capitolo primo l’aggettivo “presente” ritorna insistentemente
con la chiara affermazione che non si tratta solo di un’evocazione
ma di una ri-presentazione. Se si vuole leggere tutto ciò in chiave
fenomenologica si può cogliere la differenza a livello di vissuti
e a livello di linguaggio fra evocazione, come ricordo, e ri-presentazione,
secondo l’intenzione espressa nel documento papale. Ora è vero
che anche il ricordo ri-presentifica, ma tale ri-presentificazione
non ridà la cosa stessa nella sua presenza, anzi essa si dà in
modo depotenziato rispetto alla sua originaria apparizione. Il
rivivere pienamente ciò che è ricordato, quindi il renderlo presente
di nuovo in carne ed ossa, è possibile solo se l’evento si ripropone
ogni volta in se stesso, se non si tratta perciò di un rimando
simbolico, ciò implica anche una diversa concezione della temporalità
da intendersi non come successione, ma come stratificazione
(11).
L’evento originario si dà di nuovo nella sua originarietà.
Il sacrificio del sangue versato ritorna presente “perpetuandosi
sacramentalmente in ogni comunità che lo offre per mano del ministro
consacrato” (§ 12). Tutto questo ribadisce una lunga tradizione
e in particolare quanto Paolo VI aveva già scritto nella Enciclica
Misterium Fidei “…questa specialissima presenza (…) “si
dice ‘reale’, non per esclusione, quasi che le altre non siano
‘reali’, ma per antonomasia perché è sostanziale, e in forza di
essa Cristo Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (testo citato
in Ecclesia de Eucharestia, § 15). Si realizza in tal modo
da un lato l’unione intima dei fedeli con Cristo - in termini
temporali è già la realizzazione della vita eterna “la si possiede
già, come primizia della pienezza futura che riguarderà l’uomo
nella sua totalità” (§ 18) - dall’altro investe anche il ministero
sacerdotale di una funzione particolare, il sacerdote non offre
il sacrificio “a nome di” o “fa le veci di”, ma si identifica
con il Sommo ed eterno Sacerdote (§ 29).
Prescindendo dalle conseguenze di tale impostazione
sul piano pastorale – funzione eccezionale del sacerdozio ministeriale
rispetto al sacerdozio dei fedeli - e sul piano ecumenico – difficoltà di
incontro con chi, anche cristiano, crede che l’Eucarestia sia solo un
simbolo – ciò che interessa è, appunto, il tema della “presenza reale” che
attraverso la fisicità, usando la nostra visione dell’essere umano, entra
nell’anima coinvolgendola fino in fondo ed è consacrata da chi manifesta
con la sua persona la presenza di Cristo. Si può notare una straordinaria
continuità con le prospettive di fondo della mentalità arcaica, nonostante
le numerose differenze nel rapporto hyletica - noetica, come è stato
indicato sopra.
Si può concludere dicendo che il nucleo autentico
dell’esperienza religiosa è la presenza. Ciò non esclude l’importanza
della dimensione simbolica come espressione di questa presenza nel
linguaggio, anzi si può notare che la funzione simbolica, sempre
potenzialmente presente nell’essere umano, assume storicamente un ruolo
sempre più preminente. Come dire, infatti, ciò che si sente se non
utilizzando immagini aventi in verità un significato simbolico? Come
potrebbe essere detta l’esperienza mistica, esperienza somma della
Presenza se non attraverso tale strumento? Ma questo è una altro
argomento.
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Note
(1)
Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung (1898-1925), di E. Husserl
(1980)
è stato
oggetto di analisi da parte di P. Ricoeur (2000) nel suo La memoria, la
storia e l’oblio, Parte prima Della memoria e della reminiscenza.(volta)
(2)
In particolare sotto il profilo dell’Enttäuschung, la delusione
dell’aspettativa, Parte Prima, cap. I, § 5.(volta)
(3)
§
110.(volta)
(4)
Discutendo il modo il cui i filosofi medievali hanno riflettuto
sulla nozione di Dio, E. Stein si sofferma sull’inseparabilità
dell’essere e dell’essenza in Dio sottolineata da Tommaso e osserva
che se questo è vero «…è allora impossibile anche solo pensarlo
senza l’essere: non rimarrebbe nulla se si eliminasse col pensiero
l’essere – nessun quid a mo’ del quale poter pensare il
non-ente. Quid, essenza e essere non sono qui distinguibili.
Se si potesse cogliere con tutta chiarezza questo pensiero, avremmo
qui il fondamento per una “ prova ontologica di Dio” , che sarebbe
ancora più profonda ed evidente del pensiero dell’ens quo nihil
maius cogitari possit, dell’essenza perfetta che si può pensare
da cui prende le mosse sant’Anselmo» (Stein, 1936 / 1999, p. 148).
In realtà ella ritiene che non sarebbe una prova, ma una conclusione
tratta dalla “trasformazione del pensiero originario”; in che
cosa consista il pensiero originario e quale trasformazione possa
subire, mi sembra che si possa ricavare dalle osservazioni che
seguono nelle quali si osserva che anche Tommaso, che pur rifiutava
la prova di Anselmo, non ha contestato il pensiero originario,
quando ha sostenuto che la proposizione Dio esiste è evidente,
poiché, però, non è evidente la coincidenza di essere ed essenza,
ecco la necessità della prova che muova dagli effetti. Il “pensiero
originario” presente nello spirito umano - come afferma anche
Agostino – può essere “trasformato” attraverso una razionalizzazione
e quindi dar luogo ad una dimostrazione, ma rivela in ogni caso
un “paradosso”, quello della tensione che esso vive fra finito
e infinito e su questo sembra alla Stein che «…si fondi
il destino singolare proprio della prova ontologica; che si trovino,
cioè, sempre nuovi difensori e nuovi avversari di essa: chi si
è spinto fino al pensiero dell’Essere divino – dell’Atto primo,
eterno infinito, puro – non può sottrarsi alla necessità
dell’essere che vi è inclusa. Ma quando cerca di coglierlo così
come si cerca di cogliere qualche cosa per via di conoscenza,
esso si allontana da lui e non appare più come fondamento sufficiente
per erigervi l’edificio di una prova» (Idem, p.150). Ella indica
in realtà la presenza in noi dell’infinito che, pur non potendo
essere colto dal finito, fa sì che il finito colga se stesso in
quanto tale.(volta)
(5)
Per cogliere il significato di questo nucleo non servono né le
determinazioni spaziali né quelle temporali, si tratta di ciò
che la persona è in se stessa, di ciò che, nella sua semplicità,
prescinde dal rapporto superficie – profondità e dallo sviluppo
temporale della sua vita. Cfr. Stein (1931 / 2003): Potenza
e Atto, cap.V, 8 e, p.198 e segg.(volta)
(6)
Ho indicato le linee di fondo dell’antropologia filosofica presente
nella descrizione essenziale fenomenologica in Ales Bello, 2000:
Edmund Husserl: riflessioni sull’antropologia.(volta)
(7)
E’
chiaro che qui sono sintetizzate intere serie di analisi che s’ispirano
a numerosi passi delle opere di Husserl, che vanno dalle Idee
per una fenomenologia pura, vol. I e II (Husserl, 1913 / 2002,
1952 / 2002a) alle Analisi della sintesi passiva (Husserl,
1966), a manoscritti in cui il rapporto hyletica-noetica
è ulteriormente affrontato. Rimando per una trattazione più ampia,
impossibile in questa sede, a Ales Bello, 2001 (Teologia filosofica
e hyletica fenomenologica: intersoggettività e impersonalità)
e 2002 (Teologia negativa, mistica, hyletica fenomenologica:
a proposito di Edith Stein).(volta)
(8)
“Si tratta, da un lato, di un senso simbolico che troviamo
in una formazione: esso ci parla di un’imperturbabile stabilità
e di una sicura affidabilità come qualità ad essa adeguate” (Stein,
1932-33 / 2000, pp.160-161).(volta)
(9)
La Stein scrive che tale senso lascia “…presagire la presenza
di uno spirito personale che sta dietro al mondo visibile ed ha
conferito ad ogni formazione il suo senso; ha dato ad essa una
forma a seconda della posizione che occupava nella struttura del
tutto”. Si tratta “…della presenza di Colui che ha scritto questo
‘grande libro della natura’ e che per mezzo di esso parla allo
spirito umano […] intervenendo nel contesto della vita.”
(Stein, 1932-33 / 2000, p. 167).(volta)
(10)
Ho compiuto l’analisi fenomenologica dell’incarnazione in Ales
Bello (1999): L’incarnazione della prospettiva della hyletica
fenomenologica.(volta)
(11)
A proposito della doppia modalità del vivere il tempo, quello
lineare e quello ciclico-ripetitivo che implica una stratificazione
rimando al mio articolo Ales Bello, 1996: Archeologia fenomenologica
del tempo e dello spazio e al mio libro in corso di stampa
L’universo nelle coscienza – Introduzione a Edmund Husserl, Edith
Stein , Hedwig Conrad-Martius, Pisa: ETS, in cui analizzo
l’operazione della Wiederholung, studiata da Husserl in
Teleologia e temporalità.(volta)
Nota
al riguardo dell´autrice
Angela Ales
Bello
è professore ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea presso la
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma,
Italia. Dirige il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche. È direttore
della rivista “Aquinas” e fa parte del comitato di redazione di numerose
riviste italiane e straniere fra cui “Per la filosofia”, “Segni e
Comprensione”, “Analecta Husserliana”, “Phenomenological Inquiry”;
collabora con “Recherches Husserliennes” e “Studien zur
interkulturellen Philosophie”. Contatto: Pontificia Università
Lateranense, Facoltà di Filosofia, Piazza San Giovanni in Laterano n.4,
Città del Vaticano (00120).
Data de recebimento: 07/05/2003
Data de aceite: 03/10/2003
Memorandum, 5, out/2003
Belo
Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP.
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/alesbello02.htm