Botturi, F. (2003). Caduta e storia: note sul “peccato originale” in G.B. Vico. Memornadum, 5, 18-35. Retirado em   /  /    , do World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/botturi01.htm.

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Caduta e storia:

note sul “peccato originale” in G.B. Vico

 

Fall and history: notes about the “original sin” in G.B. Vico

 

Francesco Botturi

Università Cattolica del Sacro Cuore

Italia
 

Riassunto

Il presente articolo analizza un aspetto del pensiero di Giambattista Vico che ha avuto finora poco rilievo nella letteratura critica: il tema del peccato originale come luogo strategico dei complessi rapporti tra “storia sacra” e “storia profana” cioè tra i due regimi possibili della storia umana dal punto di vista religioso cristiano. Viene proposta l´analisi di alcuni temi trattati da Vico: il rapporto tra storia sacra e profana; la natura del peccato originale; il nesso tra peccato e provvidenza storica. Il peccato originale é concepito come principio e limite invalicabile della realizzazione storica dell’uomo. Il pensiero vichiano della storia si definisce proprio in rapporto al principio del peccato originale: é caratterizzato dall’idea della provvidenza, cioè da una struttura antropologico-metafisica che è normativa condizione di possibilità dell’attuarsi di un certo ordine civile nella vicenda umana, in opposizione alla tendenza alla dissoluzione catastrofica dei rapporti e alla metamorfosi ferina dell’umano.

Parole chiave: Giambattista Vico; senso della storia e teologia; peccato originale;filosofia della storia; storia sacra e storia profana.

Abstract

The present article analyzes one aspect of the thought of Giambattista Vico which, up to the present, has received little attention from the critical literature: the theme of the original sin as a strategical place of the complex relationships between “sacred history” e “profane history”, that is, between the two possible regimen of human history from the Christian religious point of view. We propose an analysis of some themes studied by Vico: the relationship between sacred and religious history, the nature of original sin, the nexus between sin and historical providence. The original sin is conceived as the beginning and the insurmountable limit of man´s historical fulfillment. Vico´s thought on history is defined exactly in relationship with the principle of original sin: it is characterized by the idea of providence, that is, by an anthropological-metaphysical structure which is a normative condition of the possibility of an actualization of a certain civil order in the human vicissitudes, in opposition to the tendency of catastrophic dissolution of the relationships and to the ferine metamorphosis of the human being.

Keywords: Giambattista Vico; sense of history and theology; original sin; philosophy of history; sacred and profane history.

 

Sguardo d’insieme
 

Il tema del peccato originale si colloca nel testo vichiano come luogo strategico dei complessi rapporti tra “storia sacra” e “storia profana”, cioè tra i due regimi possibili della storia umana dal punto di vista religioso cristiano. Si tratta ovviamente di un intreccio di questioni di rilevante significato per la filosofia della storia vichiana, che non ha avuto finora grande rilievo nella letteratura secondaria (1), così come – si potrebbe subito notare – manca a tutt’oggi uno studio approfondito del rapporto della scrittura vichiana con la Sacra Scrittura (soprattutto i libri sapienziali dell’Antico Testamento). Probabilmente ciò dipende dal pregiudizio di origine crociana secondo cui la religiosità vichiana fosse convinzione privata, ma estrinseca e contraddittoria rispetto alla sua effettiva Denkform filosofica. Pregiudizio a cui si contrappose in modo apologetico poco fecondo, da parte di autori come Chiocchetti, Vismara, Amerio, l’idea di un cattolicesimo vichiano sicuramente ortodosso e aproblematico. Questa polarizzazione interpretativa tra l’affermazione e la negazione della cattolicità del pensiero vichiano non ha certamente giovato alla sua effettiva comprensione, bloccata dalla preoccupazione preventiva per la sua collocazione confessionale. Per Croce (1911/1965) e Nicolini (1949) ogni dissonanza anche dalla sola tradizione teologica del tempo costituiva indice di un cripto-pensiero immanentistico se non ateo; mentre per gli interpreti cattolici o “clericali”, come venivano apostrofati, qualsiasi discrepanza non era comunque in grado di scalfire l’ortodossia cattolica di Vico, spesso misurata addirittura sulla sua presunta fedeltà alla filosofia tomistico-scolastica.

 

Il risultato storico e teorico di questo pseudodibattito interpretativo è stato appunto quello di togliere rilievo ai temi in senso stretto teologici della filosofia vichiana, tra cui quello del rapporto tra storia sacra e storia profana. Esemplificativamente si ricordi l’affermazione crociana secondo cui la storia sacra non sarebbe in Vico altro che oggetto di «scrupolo religioso» inessenziale al percorso effettivo del suo pensiero oppure la sentenza di F. Nicolini, per il quale l’insistita separatezza del popolo ebraico, nella rappresentazione della storia universale da parte di Vico, non può aver che «valore di mera cautela» di eliminare ciò che potesse interferire con i problemi di ortodossia del tempo e potesse perciò attirare più del dovuto l’attenzione dell’occhiuta Inquisizione ecclesiastica. D’altra parte, che questa «eccettuazione» dell’ebraismo e, in realtà, anche del cristianesimo, sentisse di zolfo è affermato dal Nicolini con il ricorso - tipico della sua strategia dimostrativa - a fonti “laiche” o “eretiche” che attestano la stessa (presunta) posizione; in questo caso si tratta di F. Bacone e di Th. Hobbes (2). Questa neutralizzazione del problema teologico finisce, però, per essere condivisa anche dalla  parte avversaria, come si può osservare in un autore come A. Del Noce, che peraltro ha un’attenzione nuova per la componente religiosa del pensiero vichiano. Secondo Del Noce infatti «se Vico non ha parlato, se non occasionalmente, della storia ebraica e della religione cristiana, è perché data l’impostazione della sua ricerca, non doveva farlo». La sua indagine riguarda le vie naturali della Provvidenza nella storia profana e ciò implica coerentemente che manchi il riferimento al soprannaturale; in analogia con quanto aveva fatto Malebranche nello studio della regolazione provvidenziale della comunicazione del movimento. In conclusione, afferma Del Noce (1964/1990), si deve dire che «interpretata in senso teologico la sua [di Vico] ricerca è quella, di carattere e di intonazione nettamente antigiansenisti [ma si potrebbe aggiungere anche antimolinisti], di ciò che l’uomo può fare nello stato di natura lapsa» (pp.498-499) (3). Ora, se la conclusione delnociana è esatta - come si vedrà -, resta però sospeso l’interrogativo sul valore della distinzione-separazione di storia sacra e storia profana, che in Vico ha una funzione strutturale e quindi svolge un ruolo capitale nell’organizzazione interna della “Scienza nuova”. Connessa è poi la domanda decisiva sull’unità della storia umana, nevralgica sia dal punto di vista filosofico sia da quello teologico; del resto, non è lo stesso Vico che insiste sulla distinzione, ma anche sulla “perpetuità”, la continuità di storia degli ebrei e di storia dei gentili?

 

Non è possibile, dunque, avviare un discorso sul peccato originale nell’opera vichiana senza porsi qualche interrogativo sulla posizione, sicuramente complessa e peculiare, di Vico nei confronti del problema esegetico, per il quale egli ebbe sicuramente un’attenzione specifica. Si può ricordare in proposito la preoccupazione vichiana – espressa in una nota lettera al p. De Vitry (20 gennaio 1726) - per l’inadeguatezza degli studi biblico-linguistici da parte cattolica a confronto con quelli del campo protestante, che emerge nel contesto della sua sconfortata considerazione sulla trascuratezza contemporanea degli studi umanistici: «Gli studi severi delle due lingue greca e latina si consumarono così dagli scrittori del Cinque come da’ critici del Seicento. Un ragionevol riposo della Chiesa cattolica sopra l’antichità e perpetuità che più che le altre vanta la version vulgata della Bibbia, ha fatto che la gloria delle lingue orientali passasse a’ protestanti» (Vico, 1726/1929, p. 206) (4).

La questione estremamente delicata era allora - com’è noto e come risultava di vitale interesse per Vico - quella della cronologia biblica, suscitata dal confronto con le antichissime civiltà dell’oriente che ponevano in discussione la credibilità della periodizzazione biblica tradizionalmente calcolata secondo la lettera della Scrittura. La migliore conoscenza storica delle antiche civiltà rendeva ormai insufficiente o contraddittoria la cronologia tradizionale. Questa, ad esempio, poneva tra Adamo ed Abramo non più di millenovecentoquarantotto anni: troppo poco per accogliere lo svolgimento di grandi epopee storiche, come quelle degli assiri, dei caldei, degli egizi, dei persiani, dei cinesi, ma anche degli antichissimi popoli del Nuovo Mondo da cui provenivano i messicani e i peruviani. Il tentativo di I. De la Peyrère di fornire una spiegazione con la  “teoria dei preadamiti” costituì un evento di vaste conseguenze per le polemiche che suscitò e per la diffusione che ebbe. La tesi dell’erudito di Bruxelles consisteva nell’attribuzione ad Adamo della paternità del solo popolo ebraico. Questo rendeva possibile pensare che popoli che dimostravano una più grande antichità avessero un’origine precedente e quindi indipendente. Venivano così affermati ad un colpo preadamitismo e poligenismo, dottrine più che sufficienti per sollecitarne la diffusione da parte libertina e per sollevare reazioni violente e persecutorie da parte tanto cattolica quanto protestante. Le conseguenze, infatti, che venivano annesse a tali dottrine non potevano essere accettate dalle autorità religiose cristiane, dal momento che non solo era tolto alla Scrittura il suo valore di documento storico universale, negandole il suo ruolo di pietra di paragone e di «testo parametrico» di tutta la storia umana, ma, molto più, erano messe in discussione le strutture portanti della tradizione dogmatica cristiana (Cfr. Zoli, 1991) (5). I popoli pagani, infatti, non provenendo da Adamo, non rientravano nel racconto biblico e in ciò che esso affermava della sorte di Adamo stesso; erano cioè affrancati dal peccato originale e erano attori di una storia diversa da quella della Scrittura ed esterna alla sua logica provvidenzialistica. Il peccato originale era relativizzato e in particolare veniva scalzata l’idea dell’unità ed unicità della “historia salutis” per tutti gli uomini, a favore di una concezione naturalistica della religiosità, cioè di una comune e vaga religiosità quale prospettiva sintetica secondo cui guardare alla storia dei popoli in sostituzione dello sguardo teologico ebraico-cristiano consegnato nella Scrittura.

 

Vico risente con evidenza del dibattito e delle sue difficoltà, come dimostra il suo tentativo di mantenere il dualismo storico fondamentale tra popolo eletto e il resto dell’umanità e il pluralismo delle cronologie delle diverse civiltà, ma insieme di proteggere il senso unitario della storia umana (6). Dal punto di vista cronologico, infatti, Vico fa coincidere l’inizio della storia umana con quello del racconto biblico, con la motivazione, spesso ripetuta, che la storia sacra è la più “antica” e la più “certa”, essendo l’unica dotata di un racconto così continuo e dettagliato. Dal punto di vista del contenuto, invece, la strategia vichiana sta, da una parte, nel separare le due provvidenze (quella soprannaturale dei popolo ebraico e quella naturale per gli altri popoli), presupponendole comunque complementari, e, dall’altra, nell’unificare la storia dei differenti popoli e civiltà non cronologicamente, ma secondo i ritmi (i “corsi”) e i princìpi condivisi della “storia universale eterna”.

 

Vi è dunque un certo letteralismo che resta insuperato nell’esegesi vichiana, che lo accomuna a quella della teologia del tempo. In questo senso la posizione del Vico è avversaria dell’interpretazione di tipo libertino e di quella spinoziana, che preparano quella allegorizzante post-illuministica di un Kant, per il quale il peccato originale è immagine dell’uscita dell’umanità dalla condizione infantile, o di un Hegel, per il quale la caduta è una formulazione ancora mitologica della teoretica dialettica dello spirito. D’altra parte, però, Vico con la sua “logica poetica” e con il ribaltamento della concezione tradizionale del mito semantizzato come “vera narratio” pone oggettivamente le basi per una rilettura della Scrittura in chiave poetico-mitologici. Come è facile intravedere, quando teorizza nel Diritto universale che l’antichità della lingua ebraica è dimostrata dal fatto che «ferme omnis poetica est, parabolis ac similitudinibus referta» (Vico, 1721/1974, p.472) (7). Questa tesi resta ferma anche nelle diverse edizioni della Scienza nuova. Nella redazione del 1725 (Vico, 1971) vengono proposti «nuovi princìpi di poesia», secondo il quali «si ritruova la poesia essere stata la lingua prima comune di tutte le antiche nazioni, anche dell’ebrea» (p. 258). Anche questa infatti nasce da una condizione originaria primitiva, cioè di «povertà di parlari» (p. 261), e quindi è «tutta poetica, sicché vince di sublimità quella del medesimo Omero» (p. 297). Addirittura Vico giunge ad attribuire al testo biblico - appoggiandosi in questo all’autorità di san Gerolamo che ne parla a proposito del libro di Giobbe - il verso eroico, tipico della più antica poesia (8).

L’attribuzione della lingua poetica agli antichi ebrei non è senza problemi, dal momento che essa va armonizzata con l’altro assunto tradizionale, tratto dal racconto biblico di Gen. 2, 19-20, secondo cui la «lingua santa di Adamo» fu concessa da Dio stesso (onomathesia) e fu «imposizione de’ nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna» e non fu invece «un parlare fantastico per sostanze animate», come fu il caso di tutte le altre lingue storiche (Vico, 1744 / 1971, p.485) (9). A questa difficoltà si potrebbe rispondere che anche l’ebreo rimasto fedele alla religione dei padri, dopo il peccato originale ha dovuto reimparare il linguaggio. Vico infatti dice che la differenza con gli altri popoli fu piuttosto che, nonostante la poeticità immaginosa del linguaggio, quello ebraico non cedette mai all’idolatria delle sue immagini e quindi al politeismo: «non si trova però nella lingua santa né pure una volta la divinità moltiplicata» (Vico, 1725 / 1971, p.261) (10).

Un’ulteriore difficoltà si pone però se si ammette che anche l’ebreo delle origini ha dovuto reimparare il liguaggio, perché ciò significa che anch’egli ha dovuto subire il ciclo storico, il «corso uniforme delle nazioni», smentendo così la separatezza della storia ebraica mantenuta da Dio all’interno di un regime provvidenziale speciale. E se si considera poi che il linguaggio poetico delle origini è tipicamente connesso con uno stato della mente ancora fortemente condizionata dal primeggiare dei sensi e delle passioni in seguito alla caduta dell’uomo nello stato ferino, ne verrebbe una grave smentita della condizione privilegiata del popolo eletto (Capistro, 1987-88). Si potrebbe, ancora una volta, controbattere che primitivismo linguistico e condizione ferina non hanno un nesso di necessità e che Vico intende dire che per il peccato originale l’ebreo perde la lingua di Adamo e deve reinventare la sua lingua per via di elaborazione fantastica ingegnosa (infatti, «Adamo, illuminato dal vero Dio, ritruovò tosto una favella eroica articolata») [Vico, 1725 / 1971, p.308] (11), ma non per questo precipita nel gigantismo e poi nell’idolatria (diversamente da Caino) e che  quindi pur essendoci nella sua forma mentale un’evoluzione, questa tuttavia non segue il “corso” dei popoli pagani. Ma è chiaro che questo abbozzo di risposta non toglie la difficoltà di fondo di una posizione che da un lato insiste sulla separatezza ebraica, ma  dall’altro istituisce parallelismi e convergenze.

Che ruolo gioca in questo contesto la figura del “peccato originale” per la costruzione del discorso vichiano? La sua trattazione più ampia si trova nel Diritto universale, dove essa ha chiaramente una funzione cardine per la rappresentazione della stessa storia profana dell’uomo, che vale la pena precisare subito. Il peccato originale, infatti, fa la sua apparizione nel testo vichiano come principio e limite invalicabile della realizzazione storica dell’uomo: principio, in quanto la storia profana è storia comunque postparadisiaca e postdiluviana; limite invalicabile, in quanto la vicenda storica postlapsaria è in grado (provvidenzialmente) di restaurare la condizione umana in quanto tale, di recuperarne socialmente l’humanitas e di conservarla, ma non è in grado di redimerla definitivamente e personalmente dal male.

 

In tal modo, a prezzo di uno schema fondamentalmente dualistico, ma consono allo schema bipolare di natura e soprannatura propria della teologia controriformistica (De Lubac, 1991), Vico tiene unita la storia umana e insieme la bipartisce, suddividendo – per così dire – il lavoro tra l’opera specializzata della storia sacra e quella comune della storia profana, coll’intento di neutralizzare in questo modo sia la versione pessimistica libertina del naturalismo rinascimentale, sia quella ottimistica  autoredentiva (in parte condivisa forse dallo stesso Vico al tempo delle Orazioni inaugurali). Il peccato originale è per Vico quella clausola storica a motivo della quale l’uomo non ha più, ormai strutturalmente, la capacità di realizzare la sua esistenza in stabile equilibrio con se stessa; al contrario l’esistere storico dell’uomo, continuamente minacciato di regressione “bestiale”, deve guadagnare se stessa sul sfondo oscuro della sempre possibile “barbarie”. Per questo il progetto vichiano della “Scienza nuova” è essenzialmente puntato contro il pessimismo libertino (ispiratore anche delle diverse forme di utilitarismo sociale), che concepisce la natura umana dominata in ultima istanza dal primato della forza. Ma è anche essenzialmente polemico con ogni ottimismo sociale su base atea, come è il progetto bayliano della “società degli atei”. Prescindere dal legame religioso con il “primo vero”, infatti, significa ingannarsi sulla reale condizione storica dell’uomo, cioè sul suo ormai strutturale bisogno di lasciarsi attrarre dalla luce “metafisica” per non sprofondare nelle tenebre della difformità.

 

Il peccato originale costituisce così la ferita nella condizione umana prodotta dal distacco volontario dell’uomo dal suo stato di comunicazione creaturale con Dio. Ad esso segue, secondo la complessiva ricostruzione vichiana, un tempo di indefinibile durata, che costituisce il periodo della storia oscura o “antidiluviana”, in cui già fa la sua prima apparizione il fenomeno del gigantismo. Qui Vico ha l’evidente problema di includere il racconto del Genesi, che parla di «giganti» nati dall’unione dei «figli di Dio» e delle «figlie degli uomini», «eroi dell’antichità» e «uomini famosi», ma anche malvagi, perché «ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male»; così che Dio pentito di aver fatto l’uomo sulla terra, manda il diluvio che tutto travolge salvo Noé e la sua famiglia (Cfr. Gen., 6, 4-5). Nella discendenza di Noé Vico colloca la divisione tra la linea di Sem, da cui verrà il popolo ebraico e le linee di Cam e Jafet in cui sono i ceppi dei popoli pagani. Mentre la progenie di Sem si mantiene fedele alla tradizione religiosa dei padri ed è privilegiata da Dio, quella di Cam e di Jafet subisce la prova del secondo gigantismo, quello postdiluviano, perché, dispersa sulla terra devastata dal diluvio, genera «uomini di vasti corpi e di forze sformate» (Vico, 1725 / 1971, p.209) (12). La e-normità del gigante è la rappresentazione icastica della condizione umana ex-lege, fuoriuscita cioè dalla misura normativa dell’essere uomini, da quell’humanitas la cui restaurazione e il cui mantenimento costituisce la posta in gioco della “storia universale profana”, essendo sempre possibile anche all’uomo civilizzato la caduta nel gigantismo morale e spirituale nella forma della “barbarie della riflessione” (13).

 

Il racconto del diluvio e la vicenda dei giganti diventano così in Vico la conseguenza storicamente costituente e sempre rilevante del peccato originale, che ne è il presupposto (14). Diluvio e gigantismo, infatti, costituiscono il principio ermeneutico della ripartizione tra storia sacra e storia profana e delle loro caratteristiche. Entrambe sono storie “certe”, ma l’una nel regime speciale di una conservazione dell’humanitas, che non passa per lo smarrimento del gigantismo, e che è da subito destinata alla grazia soprannaturale della rivelazione; l’altra è invece storia “universale delle nazioni”, storia “eroica”, “poetica” e “favolosa”, in cui l’humanitas è compromessa, ma non definitivamente perduta, perché non è una vicenda abbandonata da Dio, ma appunto è “storia”, cioè accadere in cui si realizza la signoria benefica della Provvidenza sulla vita dell’uomo, nella forma inevidente della “storia ideale eterna”. La Provvidenza storica naturale, infatti, garantisce comunque la presenza di Dio nella condizione umana della caduta e con ciò istituisce la possibilità che la vicenda umana sia storica.

 

Di qui viene il carattere né reazionario, né utopico del pensiero vichiano della storia. Non reazionario, perché non c’è mai stata un’effettiva età dell’oro e, quindi, non c’è restaurazione possibile di una condizione felice pregressa; mentre la situazione paradisiaca non può certamente essere restituita dall’iniziativa umana. Ma neppure utopico, perché la catastrofe del peccato originale impedisce di pensare che l’umanità possa mai giungere all’instaurazione di un regime storico esente dalla possibilità di ricadere al di fuori dell’humanitas. Il pensiero vichiano della storia, proprio in rapporto al principio del peccato originale, è caratterizzato piuttosto dall’idea della provvidenza, cioè da una struttura antropologico-metafisica che è normativa condizione di possibilità dell’attuarsi di un certo ordine civile nella vicenda umana postlapsaria ed extragiudaica in opposizione alla tendenza alla dissoluzione catastrofica dei rapporti e alla metamorfosi ferina dell’umano. Per questo uno dei significati sintetici della “Scienza nuova” è d’essere “teologia civile”, cioè comprensione della relazione teologico-metafisica che garantisce l’esistenza della civitas tra gli uomini. E per questo, ancora, la “Scienza nuova” non è scienza progettuale (volta all’indietro o in avanti), ma è «una nuova arte critica, che ne serva di fiaccola da distinguere il vero nella storia oscura e favolosa» e «un’arte come diagnostica», che, conoscendo le strutture fondamentali dell’antropologia storica, «ne dà il fine principale di questa scienza di conoscere i segni indubitati dello stato delle nazioni» (Vico, 1725 / 1971, p. 304) (15), cioè in sintesi arte ermeneutica dello stato e del grado di attuazione della costituzione storica dell’uomo.

 

Tentiamo, a questo punto, di ripercorre partitamente i grandi temi in oggetto: il rapporto tra storia sacra e quella profana; la natura del peccato originale; il nesso tra peccato e provvidenza storica.

 

Storia sacra e storia profana
 

La storia del popolo ebraico, che si identifica con la storia sacra nel regime dell’Antico Testamento, ha quattro caratteristiche che la contraddistinguono e la differenziano in rapporto alla storia profana: l’antichità, la continuità della sua tradizione narrativa, l’elevatezza morale della sua legislazione religioso-politica e la verosimiglianza della forma politica delle origini. Il racconto biblico delle origini - dice la Scienza nuova prima – presenta caratteri di antichità esemplare, essendo «più antica» di quella più antica, cioè di quella mitica o «favolosa de’ greci», che a sua volta è la più certa tra le tradizioni antiche, risultando «tronche, come le lor piramidi, [le cose] degli egizi» e «affatto oscure [quelle] dell’Oriente» (Vico, 1725 / 1971, p.179) (16). In secondo luogo – dice più avanti - «non si ritruovano nella sagra storia» «sozzi corrompimenti delle prime tradizioni de’ fatti» (pp.271-272) (17), così che essa presenta una documentazione e propone una logica degli avvenimenti che non ha paragone con altri racconti d’origine. Il suo narratore, Mosé (secondo la tradizionale idea esegetica che lo vede autore dell’intero Pentateuco), è cronologicamente precedente (di ben milletrecento anni) la fonte pagana antica più accreditata, quella omerica, e «narra, con frase più poetica che non è quella di Omero» (Vico, 1744 / 1971, pp.423-424) (18). Inoltre - ed è il terzo carattere rilevante - la Scrittura lega il racconto delle origini ad una dottrina teologica e morale così alta da essere confrontabile solo con le più nobili voci della filosofia greca, la metafisica di Platone e la morale di Socrate. In tal modo - mira a dire Vico - la tradizione ebraica testimonia «una perpetuità di civil discipline» cioè una continuità di elevati ordini etici, civili e politici che ne fanno un caso unico nella storia dell’umanità. Infine, Vico fa notare che la storia biblica presenta forti motivi di ragionevolezza politica, che ne attestato l’autenticità, in quanto «più spiegatamente che non fanno tutte le [storie] gentilesche, ne narra sul principio del mondo uno stato di natura, o sia il tempo delle famiglie, le quali i padri reggevano sotto il governo di Dio [...]» (Vico, 1744 / 1971, p.438) (19). Per questi suoi caratteri il racconto biblico delle origini costituisce per Vico la tradizione narrativa capace di aprire una via interpretativa della storia di tutta l’umanità, «il primo comun principio dell’umanità» (Vico, 1725 / 1971, p.179) (20) (21).

 

Ma anche un altro tratto della narrazione biblica è significativo a tal fine, quello secondo cui essa, parlando delle origini e della loro corruzione, mette in scena anche una certa figura mostruosa dell’umanità, quella dei “giganti”, di cui ci sono consistenti tracce anche nella letteratura pagana. Di giganti parla la Scrittura prima del diluvio, nella discendenza di Caino, e dopo il diluvio (22), in quella di Cam e Jafet, che a seguito dell’«empietà» finirono nella «libertà bestiale» e di qui appunto nel gigantismo «di vasti corpi e di forze sformate», effetto e ulteriore causa della disastrosa perdita della misura interiore. Ma di giganti parlano anche G. Cesare e Tacito a proposito dei «Germani antichi», mentre tracce del ricordo del diluvio e del prevalere del Caos sono presenti nella letteratura greca e in quella latina (Esiodo ed Ovidio). Si apre così – conclude Vico ulteriormente - «l’unica via, finora chiusa, per rinvenire la certa origine della storia universale profana e della sua perpetuità con la Sacra» (Vico, 1725 / 1971, pp.209-210) (23). Ma soprattutto si apre la via per una interpretazione dello statuto della storia umana come sospesa tra due possibilità sempre aperte, rappresentate dai due tipi di nazione che il racconto biblico prospetta dopo il diluvio: «una di non giganti», come la progenie di Noé fedele alla tradizione dei padri ed «un’altra d’idolatri giganti» (p.210).

 

La storia sacra, dunque, nella rappresentazione che ne fa Vico è indispensabile come criterio ermeneutico della stessa storia profana, pur restando nella sua distinzione di principio e separatezza di svolgimento; anzi ha tale funzione criteriologica proprio in forza della sua differenza. La teoria del peccato originale e delle sue conseguenze deformanti (teratologiche, si potrebbe dire in riferimento ai giganti), infatti, rinvia per contrasto ad una normatività relazionale e sociale, che è quella della condizione paradisiaca di comunicazione dell’uomo con Dio e con l’altro uomo, e corrispettivamente offre parametri per comprendere la condizione decaduta e il suo costituirsi in storia. Tali parametri si unificano poi negli elementi costitutivi della “storia ideale eterna”, con il suo ritmo evolutivo e la sua circolarità (24), e in ultima istanza nella Provvidenza, che costituisce la condizione di possibilità dell’esserci storico come tale. Ma di Provvidenza ha senso parlare proprio in rapporto ad una condizione storica compromessa dal peccato originale e perciò aperta alla distruzione o alla costruzione, all’involuzione o all’evoluzione, alla feritas o all’humanitas.

 

Questa funzione strategica del peccato originale nell’ermeneutica storica è ben evidenziata  dalla polemica che in rapporto ad esso viene istituita da Vico nei confronti del giusnaturalismo. Se, infatti, nel primo libro della Scienza nuova sono tracciate con ampiezza le linee del dibattito con Grozio, Selden e Pufendorf, quali rappresentanti tipici del diritto pubblico moderno, nel secondo libro ciò che viene loro attribuito è ricondotto, implicitamente ma chiaramente, ad una inadeguata concezione delle origini e in esse del ruolo del peccato originale. Che cosa imputa Vico al giusnaturalismo moderno? «Tre errori gravissimi»: l’identificazione del diritto delle genti con il diritto naturale dei filosofi; la conseguente trattazione del diritto delle genti solo nella sua forma più evoluta e universalistica, trascurando le sue modalità storiche, evolutive e differenziate; infine, la mancanza di «scienza e necessità» nell’interpretazione delle testimonianze storico-erudite. In comune queste critiche hanno l’idea di un fondamentale intellettualismo, che impedisce di comprendere davvero la logica storica della coscienza etico-giuridica delle nazioni. Esso infatti impedisce di cogliere il nesso tra le condizioni storiche particolari e l’universalità del valore. Per stare alla terminologia vichiana, diventa irrealizzabile la combinazione del diritto naturale «eterno nella sua idea» con i «costumi delle nazioni», la «conservazione privatamente de’ popoli» con la «conservazione di tutto il genere umano», la «scienza e necessità» delle ragioni esplicative, che rinviano a un «ordine eterno», con le «occasioni» e le «guise» e i «tempi» dell’accadere. Ma  queste separazioni impediscono la formulazione di un pensiero non nominale della storia. Così, paradossalmente, il pensiero giusnaturalistico, che vorrebbe essere fautore di un pensiero dell’universale etico, finisce per privilegiare le motivazioni empiristiche e utilitaristiche  dell’agire sociale (25).

 

Questi errori gravidi di grandi conseguenze dipendono da una falsa interpretazione delle origini e della loro decadenza. È significativo, in proposito, che Vico osservi, già nel secondo libro della Scienza nuova prima, che la condizione originaria, ipotizzata dai giusnaturalisti e in particolare da Grozio e da Pufendorf per giustificare l’istituzione della società umana, dia una descrizione dell’uomo che corrisponde a quella dell’uomo decaduto. Grozio pone l’uomo nella condizione della «solitudine e, perché solo, quindi anche debole e bisognoso di tutto» (Vico, 1725 / 1971, p.190) proprio come dopo il peccato originale e dopo il diluvio quanti non restarono fedeli al «vero Dio de’ loro padri Adamo e Noé» (Idem), che finirono nella «libertà bestiale» e «a perdere ogni socievole costume, per questa gran selva della terra dispersi» (Idem). Similmente Pufendorf pensa l’uomo «venuto in questo mondo, ma abbandonato da sé, non già dalla cura ed aiuto di Dio» (Idem). Da parte sua Selden «pose princìpi comuni alle nazioni gentili ed agli ebrei, senza distinguere un popolo assistito da Dio sopra le altre nazioni tutte perdute», non riconoscendo così la specificità della dimensione religiosa della storia profana (26).

 

Ciò che Vico intende dire è che anche i giusnaturalisti razionalisti riconoscono la condizione bisognosa, anzi misera degli inizi (cronologici e assiologici) della storia umana, ma non la riconoscono come condizione decaduta, cioè come conseguenza del peccato originale e, quindi, la naturalizzano, ritenendo che, se essa è la condizione primordiale dell’uomo come tale, essa può essere vissuta e rimediata con le sole risorse umane, senza relazione alla logica prioritaria e alla forza superiore della Provvidenza: «niuno degli tre – conclude infatti Vico –, nello stabilire i suoi princìpi, guardò la provvedenza» (Vico, 1725 / 1971, p.176) (27).

 

Invece, il riferimento alla Provvidenza indica il nesso tra l’oggetto elementare dell’azione dell’uomo ovvero le «necessità» e le «utilità», i suoi bisogni e i suoi interessi, e la relazione strutturale della mente al «vero eterno», in virtù della quale l’uomo non è del tutto «abbandonato» a se stesso e alla sua indigenza. Che la storia umana sia successiva e dipendente dal peccato d’origine significa infatti che l’uomo reale non si trova nella condizione della pura comunione con il vero e della perfetta comunicazione con i suoi simili, ma che neppure è del tutto abbruttito nella condizione della sua immediatezza sensibile. In termini più precisi l’uomo primordiale vichiano non si trova né nella condizione della “simplicitas” innocente e autosufficiente, benché debole di Grozio, né in quella radicalmente solitaria e ostile di Hobbes. Nella condizione catastrofica del gigantismo l’uomo ha ancora la possibilità di un recupero di umanità, nella misura in cui gli riesce di penetrare con la luce della relazione metafisica la greve materia della sua vita pulsionale, dando inizio con quelle prime configurazioni intelligibili che sono gli “universali fantastici”, i mitemi originari, al mondo umano della comunicazione religiosa, del legame civile e della trasformazione produttiva della terra.

 

In tal modo la centralità antropologica del dogma del peccato originale nella costruzione vichiana è funzionale alla critica dell’impostazione filosofica sia del giusnaturalismo razionalistico, sia dell’utilitarismo materialistico (che secondo Vico funzionano come opposti reversibili). Il peccato originale, infatti, è una categoria antropologica utile per rendere pensabile la connessione di indigenza mentale e di razionalità, di individualità egoistica conflittuale e di socialità comunicativa, di impotenza e di progresso. In questa coesistenza di latenza ed urgenza della ragione è posta per Vico la chiave della condizione storica dell’uomo in cui si svolge il gioco della libertà e della «storia degli ordini che quella [la provvidenza], senza alcun verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del genere umano» (Vico, 1744 / 1971, p.465) (28).

 

La natura del peccato originale
 

Sulla natura del peccato originale Vico non intraprende analisi specifiche; anzi si limita a brevi cenni. Ciononostante è necessario capire la caratterizzazione in essi contenuta per poter intendere dall’interno la funzione che al peccato d’origine è attribuita nell’economia storica delle nazioni.

 

Nel Diritto Universale (Vico, 1721 / 1974) il peccato di Adamo è presentato, secondo una tradizionale visione teologica scolastica, come peccato di superbia, a somiglianza di quello degli angeli, che vollero competere con Dio, «esse ut Deus appetiere», con perfetta coscienza della loro trasgressione. «Ex eodem ferme genere Ada peccavit» (p.403), in quanto, essendo incorrotto, poteva non ascoltare il suggerimento del cattivo desiderio («cupiditas»); cui invece diede retta tramite l’invito del demone cattivo, a preferire non un bene corporale finito, ma «infinitum bonum animi, ipsam Dei sapientiam» (Idem), promettendogli – secondo il racconto genesiaco – la scienza del bene e del male (29). La pretesa di possedere la stessa sapienza divina fa perdere ad Adamo quella che egli realmente possedeva a misura della sua natura creata: «Ada integer mente pura contemplabatur Deum, puro animo diligebat» (Idem, p. 357). Questo era il suo «Dei cultus», costituito da «castitas mentis» e «animi pietas», rivolte a Dio e insieme ai propri simili (30).

 

Il peccato originale ha privato Adamo «aeterni veri cognitione pura» e dalla privazione di questa visione umanamente adeguata del vero venne una innaturale e quindi nefasta divisione della originaria «sapientia integra et vere heroica» in sapienza come «contemplatio» delle cose più alte e sapienza come «prudentia» relativa alle cose civili. Effetto del peccato originale fu così la separazione e la contrapposizione tra ragion speculativa e ragion pratica; cioè un’alterazione dell’organismo della sapienza, che determinò l’involuzione e lo smarrimento sia della verità speculativa sia di quella pratica, come risulta dalla antropologia vichiana dell’uomo decaduto, di cui poi si dirà più in dettaglio (31).

 

Questa rappresentazione tradizionale del peccato originale si specifica nella Scienza nuova nell’idea che l’essenza della colpa consista in un desiderio curioso di conoscere l’avvenire, cosa propria solo della sapienza divina. «Tale curiosità – scrive infatti Vico nella prima pagine della Scienza nuova prima -, per natura vietata, perché cosa propia di un Dio mente infinita ed eterna, diede spinta alla caduta de’ due prìncipi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di sapere l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche, dolori e morte» (Vico, 1725 / 1971, p.172) (32). Questa idea passerà identicamente nella Scienza nuova seconda, che ha come uno dei suoi fondamenti la “degnità” XXIV, che recita: «La religione ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale sursero [invece] tutte le nazioni gentili. Questa Degnità è una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise tra ebrei e genti» (Vico, 1744 / 1971, p. 438) (33).

 

La presunzione di sapienza, che, eguagliandosi alla «mente infinita ed eterna» di Dio, se ne arroga la proprietà della conoscenza del futuro e con essa la capacità di condurre da sé la propria esistenza, precipita l’uomo in una condizione inferiore, in cui non contempla neppure quella parte di sapienza che gli era riservata come creatura intelligente. Restando privo della guida sapiente che gli è indispensabile per condursi nella vita, l’uomo avverte la necessità di ricorrere a fonti di sapienza alternativa, che possano assicurare in qualche modo un’energia superiore ed una conoscenza del necessario e del possibile; in altri termini all’uomo decaduto e non eletto come il popolo ebraico furono indispensabili l’idolatria e la divinazione. L’uomo integro – osserva il De constantia iurisprudentis – contemplava l’«aeternum verum mente pura», mentre «in corruptione homines caelum oculis contemplari coeperunt», perché se nella prima originaria condizione l’uomo «vitae agenda a Deo ipso discebat», nello stato corrotto il genere umano «contemplatione caelum de vita agendis consulebat» (Vico, 1721 / 1974, p. 361). In coerenza con questa concezione la pagina iniziale della Scienza nuova prima recita: «Quindi le false religioni tutte sursero sopra l’idolatria, o sia il culto di deitadi fantasticate sulla falsa credulità d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria [è] nata ad un parto con la divinazione, o sia la vana scienza dell’avvenire e certi avvisi sensibili, creduti esser mandati agli uomini dagli déi» (Vico, 1725 / 1971, p. 172) (34).

 

La condizione storica decaduta è vissuta perciò necessariamente nell’inganno delle “false religioni” e in un certo senso nella indefinita reiterazione del peccato della “curiosità” originale: le forme idolatriche e divinatorie sono infatti la prosecuzione - la istituzionalizzazione, si potrebbe dire - del peccato originale. Eppure questa situazione porta in sé una  paradossale positività, perché divinazione e idolatria implicano una certa verità, quella di conservare comunque il legame con il divino e di inserirlo nell’azione umana come un ordine trascendente che sottrae la condizione umana alla pulsione distruttiva del bisogno: «sì fatta vana scienza [la divinazione], dalla quale dovette incominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini vi sia libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altramenti loro appartenerebbe» (Vico, 1725 / 1971, p. 172) (35). Non diversamente per la Scienza nuova seconda «la sapienza tra’ gentili» cominciò con la poesia sacra che era una «scienza del bene e del male, la qual poi fu detta divinazione», che «dovett’essere propiamente dapprima la scienza in divinità d’auspìci; la quale [...] fu la sapienza volgare di tutte le nazioni di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza, per la quale, da divinari, la di lui essenza appellossi divinità» (Vico, 1744 / 1971, p. 471) (36).

 

In tal modo la punizione per la colpa dei progenitori non significa – come già s’è detto – puro abbandono da parte di Dio e rottura d’ogni legame con la divinità da parte dell’uomo, perché questo coinciderebbe semplicemente con la distruzione della condizione umana, bensì caduta in una condizione in cui le stesse identificazioni della sapienza divina – come è il caso dell’idolatria e della divinazione – veicolano la possibilità di ritrovare la via del vero, che nel corso del tempo prenderà una duplice forma, quella pratica della coscienza giuridica, pienamente realizzata nella storia del diritto romano, e quella speculativa del sapere metafisico greco. In tal modo ciò che per la sua materia segna la distanza dal vero (idolatria e divinazione), è anche ciò che permette per la sua forma di ripercorrere il cammino all’inverso, almeno fino alla chiara coscienza della dipendenza umana da una sapienza superiore trascendente.

In questo tragitto della coscienza falsa verso la sapienza vera sono contenuti compiutamente il senso antropologico e la legalità metafisica della storia umana. Ciò che infatti il peccato originale ha prodotto è una sorta di latenza del senso del vero metafisico e del vero pratico (giustizia), che è paragonabile alla latenza delle nozioni prime che lo sviluppo cognitivo porta alla luce. Come afferma la Scienza nuova prima, «siccome in noi sono sepolti alcuni semi eterni di vero, che tratto tratto dalla fanciullezza si van coltivando, finché con l’età e con le discipline provengono in ischiaritissime cognizioni di scienze, così nel genere umano per lo peccato furono sepolti i semi eterni del giusto, che tratto tratto dalla fanciullezza del mondo, col più e più spiegarsi la mente umana sopra la sua vera natura, si sono iti spiegando in massime dimostrate di giustizia. Serbata sempre cotal differenza però: che ciò sia proceduto per una via, distinta, nel popolo di Dio e per un’altra, ordinaria, nelle gentili nazioni» (Vico, 1725 / 1971, p. 190) (37).

 

Peccato e Provvidenza
 

La natura umana corrotta porta dunque in sé la sua regola provvidenziale. Il senso della Provvidenza “naturale” non è da cercare in qualche ordinamento esteriore cui l’azione umana sia sottomessa, compromettendone le libertà, ma - per così dire - in un dispositivo interiore, che anche nel caso dell’abrutimento preserva l’uomo dalla rottura definitiva con il “vero eterno”, ponendosi dunque come salvaguardia della libertà nei confronti della sua possibile autodistruzione. La questione della Provvidenza, infatti, fa tutt’uno in Vico con quella della “metafisica delle mente”, come egli chiama nell’opera della maturità la relazione costitutiva della mente al vero. Come illustra la famosa “Dipintura” della Scienza nuova seconda, una luce proveniente dall’alto è la condizione di composizione e di intelligibilità del mondo. È il raggio luminoso della sapienza originaria, da cui ancora l’uomo è illuminato anche dopo il peccato originale, perché senza di essa la sua umanità semplicemente sprofonderebbe in modo irreversibile nelle tenebre dell’inumano.

 

Quel dispositivo ha un nome: il “pudore”. Dio, infatti, che “semplicissimis rationibus agit et regit cuncta” - dice il De constantia iurisprudentis (Vico, 1721 / 1974, p. 405) (38) in assonanza con Malebranche -, prevedendo il peccato del progenitore e la corruzione della “generis humani naturam”, con essa l’ottundimento della ragione a causa della “cupiditas” e il prevalere dei sensi sulla mente, “hominem ita fabricarat ut pudore afficeretur, qui universi iuris naturalis fons est”. Infatti a motivo della perdita dell’originaria semplicità, cioè della “contemplatio veri eterni ex mente pura”, “statim pudor successit” (Vico, 1721 / 1974, p. 361) e i due progenitori si riconobbero nudi (39). Il pudore è insomma la conservazione della relazione al vero eterno nella condizione postlapsaria ovvero, nei termini dell’opera della maturità, il pudore è la forma che la “metafisica della mente” e la sua comunicazione sapienziale assumono dopo la caduta.

 

Dopo il peccato, però, la sapienza non può più essere attinta nella forma della “pura contemplazione”, bensì solo in quella che è concessa ad un uomo nel quale la sensibilità prevale sulla ragione, rendendola impotente a governare l’esistenza. Per questo si può dire che il pudore è una sorta di sapienza dei sensi (esterni ed interni), che opera spontaneamente e permette all’azione umana di non essere il puro risultato di una reattività passiva e distruttiva (40). Il decadimento umano non coincide con la sua totale e irrecuperabile alienazione, perché l’azione umana può ancora essere misurata da una certa presenza della verità nei rapporti degli uomini. Il fatto che nel Diritto Universale ricorra come sintagma fondamentale l’espressione «vis veri», sta appunto ad indicare che, nell’impossibilità di un rapporto dispiegato con il vero, questo fa sentire la sua esigenza e la sua urgenza, cioè il vigore di una presenza latente ma attiva ed efficace nella mente umana.

 

Il pudore è definito da Vico in termini di pena inflitta da Dio all’uomo peccatore, come «erroris seu malefacti conscientia, quae nihil aliud est nisi veri ignorati pudor» (Vico, 1721 / 1974, p. 405) (41). Questa definizione non intende dire solo che dopo il peccato originale l’uomo ha coscienza, per quanto vaga, di una sua condizione di colpevole ignoranza del vero, ma che questo senso di inadeguatezza è anche condizione di possibilità dell’istituzione di qualsiasi relazione, perché non permette all’uomo di operare con piena e quindi ottusa adeguatezza a se stesso. Se l’uomo, infatti, non avvertisse il disagio della sua inadeguatezza, continuerebbe a inseguire la sua brama di soddisfazione immediata, la sua e-norme e spropositata ricerca di autoaffermazione, che lo rende de-forme e simile ad una bestia solitaria e feroce. Il senso del pudore, invece, introduce l’avvertenza di una norma ed una proporzione ignorate dall’immediatezza pulsionale, facendone sentire la mancanza colpevole. Ma è questa avvertenza che rende possibile un’autentica iniziativa, perché, distaccando dall’immediatezza della passione, apre lo spazio per la mediazione dell’azione. Il senso del pudore, infatti, segna il passaggio dalla confusione alla relazione con il mondo. La rappresentazione icastica di questo sarà data nella Scienza nuova con la celeberrima immagine del bestione che per il timore del tuono e del fulmine leva in alto lo sguardo, sospende la sua esistenza randagia e selvaggia, consumata nell’attrattiva senza remore del cibo e del sesso, e diventa capace di relazione con gli dèi, gli uomini e le cose; inizia cioè ad avere mondo (42).

 

Il pudore è così la nozione centrale dell’antropologia vichiana, perché costituisce la stessa forma umana dell’azione. Lo stesso Vico lo afferma, quando scrive che pudore e libertà sono i due princìpi costitutivi della «humanitas», ma aggiunge che nel complesso antropologico il pudore ha funzione di «forma» rispetto ad una «materia» rappresentata dalla stessa libertà: «forma pudor, materies humanitatis libertas» (Vico, 1721 / 1974, p. 403). Il pudore è così il principio attivo e formatore che sollecita e indirizza la libertà (43) e in tal modo la riscatta dalla sua servitù ad una sensibilità ottenebrata e passionale. Si può comprendere allora perché - come già si citava - il pudore sia considerato da Vico come «universi iuris naturalis fons». In quanto presiede all’apertura della «humanitas» come tale, ne è principio formatore e condizione di mantenimento e di crescita, esso costituisce la dimensione antropologica trascendentale, la condizione prima di possibilità dell’agire umano in quanto umano e perciò la misura assiologica dell’agire stesso: in forza del pudore l’uomo decaduto è storicamente capace in senso proprio di azione e di relazione, in quanto diventa capace di giustizia.

 

La coscienza assiologica del pudore sta dunque a capo dell’intera antropologia storica. Esso anima e orienta l’intera gamma dell’agire umano con l’introdurvi un principio di mediazione oggettiva, che distanzia l’attività umana dalla pura re-azione e le dà la forma autentica dell’azione (che è per Vico sempre anche relazione e comunicazione). Questa idea è contenuta nella tesi generale secondo cui, l’uomo essendo stato privato della «cognitio veri ex mente pura», «substitutum est vero certum» (Vico, 1721 / 1974, p. 361) (44). Alla chiara visione mentale del vero subentra il certo (anzitutto sensibile) delle oggettivazioni pratiche, il cui statuto epistemologico sta appunto in una disposizione delle cose e dei rapporti in virtù di un senso che trascende l’immediatezza della reazione individuale.

 

In questa prospettiva la prima oggettivazione del pudore è la religione. Alla perdita della «pietas» originaria subentrò la «religio, quae est numinis metus; et ideo metus est quia nos admonet numen laesisse» (Vico, 1721 / 1974, p. 405) (45). Attraverso la mediazione delle forme religiose (miti, riti, cerimonie, formule, oggetti e tutto l’apparato della sacralità) viene espressa ed elaborata la consapevolezza del legame e insieme della distanza dalla divinità, avvertita come imponente  e minacciosa. Il pudore genera infatti forme mediatrici che nascono dall’avvertenza di una relazione e insieme di una distanza colpevole.

 

Ma come il pudore è a fondamento della relazione religiosa, così è al principio anche della relazione tra gli umani, che dal peccato sono resi estranei e avversari gli uni degli altri. Il pudore rende possibili le relazioni e gli scambi tra gli uomini, introducendovi la dimensione morale, cioè la coscienza di una misura che non è a disposizione dei singoli e che come tale ne sovrasta gli interessi. Il pudore avverte il valore del «commune hominum iudicium»; «ex pudore – infatti - est sensus communis reverentia», il pudore ispira il rispetto del comune giudizio degli uomini e fa avvertire come pena l’ «infamia» per la trasgressione.

 

A partire di qui, cioè da una sensibilità morale ancora esteriormente determinata ma non per questo inautentica, prendono forma gli abbozzi delle virtù morali come la «temperantia» e la «iustitia», attraverso i costumi rispettivamente della «frugalitas», della «probitas» e della «promissi fides», della «dicti veritas» e della «alieni abstinentia» (Vico, 1721 / 1974, p. 405) (46). Su questa base diventa possibile una trattazione comune dell’utile, cioè la possibilità di fare permute e scambi in natura e di istituire e accettare arbitrati in merito alla valutazione delle utilità in gioco, quali giudizi secondo il criterio della «bona fides» (Idem, p. 419), che «pudore plurimum constant» (Idem, p. 407) (47). Il pudore insomma introduce quella dimensione fiduciale nei rapporti, che precede l’stituzione e la rende possibile.

 

Infine, il pudore detta anche la regola dei costumi sessuali sottratti alla spontaneità ferina: intimiditi dall’aspetto del cielo creduto un dio, «a pudore tandem in statu exlegi admoniti, […] promiscuam venerem ferarum ritu abhorruere» (Idem, p. 407)e con l’auspicio di qualche segno celeste «certas sibi uxores in omne vitae consortium destinarunt» (Idem). Questa fu la condizione fondamentale del passaggio dalla condizione di «ignavi errones», vagabondi in cerca di cibo all’istituzione del «certis sedibus […] consedere et occupatas terras colere» (Idem) e, quindi, dell’inizio della vita sociale stabile e della sua evoluzione storica dal regime delle famiglie, alle genti maggiori e da queste alle repubbliche e agli imperi (48).

 

Infine, oltre che principio della relazione ai divini e agli umani, il pudore è anche fondamento del rapporto al mondo delle cose. In quanto libera l’uomo dalla pura soggezione allo stimolo del bisogno, il pudore apre anche lo spazio per un interessamento conoscitivo al mondo e per una sua manipolazione progettuale. «Curiositas» e «industria» sono così i due atteggiamenti elementari che stanno a fondamento di ogni civiltà. Infatti, afferma Vico (1721 / 1974, p. 409), «ignorati veri pudor vim animi intendit quatenus menti imperat, ut in vestigando vero pertendat donec habeat exploratum»: questa è la «curiositas», con cui il senso di un vero noto ma non ancora conosciuto stimola la mente a ricercarlo e ad investigarlo. Analogamente, sul piano pratico, il pudore dota l’uomo della industriosità, cioè della capacità di costruire, di accostare secondo un ordine; «industria» - avverte Vico - viene da «struere», come un accatastamento ordinato delle cose che ha procurato agli uomini «omnia humanae vitae commoda» (Idem, p. 419) (49).

 

In sintesi, il pudore è quella «una naturalis et simplicissima via» con cui Dio punì il peccato del progenitore («primi parentis peccatum plexit»), ma in cui anche racchiuse tutto il diritto naturale («omne ius naturale continuit»); è insomma la traccia normativa secondo cui l’uomo può ritrovare la via della sapienza (civile). Infatti «[Deus] per natam ex pudore vim animi […] bonas artes omnes in homine lapso eduxit, per quas naturaliter sociatos sustinuit ac servavit» (Vico, 1721 / 1974, p. 409): il pudore è la scaturigine della forza d’animo che permette all’uomo di ristabilire una relazione di senso con i suoi simili e di essere soggetto storico della sua opera civile (50).

 

La divina Provvidenza, dunque, agisce precisamente attraverso ciò che costituisce la condizione improvvida dell’uomo. Ciò che di per sé condurrebbe alla rovina l’umanità è occasione per la costruzione storica dell’umanità stessa. Vi è dunque un «constans simplicissimus ordo», che «per ea ipsa, per quae genus humanum in sui exitium erat ruiturum, tot vitae socialis commodis quot fruimur, ditavit et auxit» (Idem). Questo costituisce ciò che nella Scienza nuova seconda sarà chiamata «una dimostrazione, pe così dire, di fatto istorico della Provvedenza» (Vico, 1744 / 1971, p. 465) (51), cioè la testimonianza di un paradosso storico che invoca la Provvidenza antropologico-metafisica come unica ipotesi esplicativa. Se infatti la si negasse, bisognerebbe anche ammettere che l’uomo è privo di quella relazione al vero che lo trascende e dunque è totalmente consegnato all’egoismo della ricerca della sua esclusiva utilità, come vorrebbero Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza e Bayle, e con loro tutti quelli che, pur da diverse posizioni filosofiche, convengono nell’affermare che la società umana non è altro che prodotto e funzione dell’utile soggettivamente percepito. Questo però - secondo Vico - significherebbe attribuire la nascita e il mantenimento della società umana al «caecus Casus» oppure alla «caeca Necessitas» (Vico, 1721 / 1974, p. 409). Ma nell’una né l’altra ipotesi sono adeguate a render conto del fatto che ciò che l’uomo egoista ha instaurato e instaura continuamente è un ordine intelligente (come sono lo spazio mercantile, l’«emporium», e l’iniziativa trasformatrice, l’«industria»), che supera le intenzioni e le aspettative dei singoli. L’unica conclusione adeguata è invece quella che, a partire dall’opera storica dell’uomo, afferma che la «hominis natura» non è tale che «hominem homini lupus facit», bensì «illum aut illum hominem homini dictat Deum esse» (Idem, p. 411) (52). Il prevalere del lato ferino dell’uomo può sembrare una realistica descrizione della sua vita associata e, invece, esibisce solo la condizione corrotta dell’uomo e ignora proprio ciò che rende ragione degli effetti positivi del suo fare, quel principio di conoscenza del vero che costituisce l’elemento divino nell’uomo ed insieme il principio della comunicazione con i suoi simili.

 

Queste pagine del Diritto Universale anticipano altre importanti e famose della Scienza nuova in cui i temi sono ripresi senza modificare l’impostazione fondamentale, ma anzi presupponendola sempre (53). Vi sono comunque tre novità che la Scienza nuova presenta nel trattare l’argomento. Anzitutto l’elaborazione della “logica poetica” come mediazione antropologica del rapporto sociale-mondano e una più consapevole trattazione del farsi preterintenzionale della storia. Si tratta di due lati significativi dell’analisi dei modi con cui opera la Provvidenza nel regime storico dell’uomo decaduto. Rispetto al Diritto Universale, infatti, il discorso vichiano ha acquisito l’idea della centralità antropologica dell’ ”universale fantastico” e della logica conoscitiva-affettiva che gli è connessa, così che quella “sapienza dei sensi” di cui già si diceva acquista nella Scienza nuova un rilievo inedito e riceve uno sviluppo di eccezionale importanza. Sul versante della preterintenzionalità, invece, il Vico della maturità manifesta un senso più dialettico dello svolgimento storico. Qui infatti il confronto non è più limitato agli scettici e agli ateisti, ma si estende anche ai giusnaturalisti e ai moralisti soprattutto di matrice giansenista, come un Nicole, donde la nuova attenzione al tema dell’ “amor proprio” e alla sue maschere. Di qui un senso accentuato del paradosso di divergenza e insieme di funzionalità esistenti tra libertà umana individuale e legge provvidente universale (cfr. Botturi, 1991).

 

La terza novità è il tema del “senso comune” che sintetizza in modo inedito, benché non discontinuo, i contenuti antropologici fondamentali in cui si specifica il pudore nella sua funzione provvidenziale. La figura del senso comune è uno e plurimo insieme, come plesso unitario e universale di «tre sensi comuni del genere umano», da cui è costituita l’«umanità» dell’uomo: «che vi sia provvedenza; […] che si facciano certi figliuoli con certe donne […]; che si seppelliscano i morti» (Vico, 1725 / 1971, pp. 172-173), come recita una delle sue formulazioni (54). «Religioni natie, nozze tra loro e mortori nelle propie terre», osserva Vico, sono le tre cose che «tutte le nazioni con somme cerimonie e ricercate solennità custodiscono», perché «questo è ‘l senso comune di tutto il genere umano: che sopra questi tre costumi, più che in tutt’altri, stien ferme le nazioni, acciocché non ricadano nello stato della bestial libertà; ché tutti e tre son pervenuti da un certo rossore del cielo, de’ vivi e de’ defunti» (Vico, 1725 / 1971, p. 305). Ancora una volta e con bella sintesi Vico propone quale chiave di lettura della storicità umana il pudore, come ciò in cui avviene la mediazione tra la condizione decaduta e il senso del vero in rapporto alle relazioni umane fondamentali. Il pudore è il luogo antropologico in cui il peccato originale è assunto nell’ordine della provvidenza e quindi contenuti umani essenziali come il senso dell’ignoto e il timore, la sessualità e la generazione, l’occupazione della terra e la morte sono trasformati in relazioni stabili e diventano oggetto di comunicazione. Religione, matrimonio e rito funerario oggettivano il pudore e lo rendono istituzione e garanzia dell’esistenza sociale e insieme criterio ermeneutico del grado di civiltà di un popolo: quanto più salda è la pratica del “senso comune”, tanto più elevata è l’humanitas; quanto più è incerta o contraddetta, tanto più la città degli uomini è minacciata dalla dissoluzione della “bestial libertà”.

 

Il peccato originale ha così in Vico un fondamentale significato “politico”, entro il quale il pudore gioca la funzione determinante del discrimine tra l’incidenza del peccato originale come catastrofe oppure come evento provvidenziale.

 

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Popkin, R.H. (1989). Isaac de la Peyrère and Vico. New Vico Studies, VII, 79-81.

Porro, P. (1992). Storia sacra e storia profana in Vico. In AA.VV. Metafisica e teologia civile in G.B. Vico. (A. Lamacchia, a cura di). (pp. 159-226). Bari: Levante Ed.

Vico, G.B. (1929). L’autobiografia, il carteggio, e le poesie varie. 2 ed. (B. Croce, Curat.). Bari: Laterza. (Originali del 1693-1744).

Vico, G.B. (1971). Opere filosofiche. (P. Cristofolini, Curat.). Firenze: Sansoni.

Vico, G.B. (1974). De constantia iurisprudentis. In G.B. Vico. Opere giuridiche: il diritto universale. (P. Cristofolini, Curat.). Firenze: Sansoni. (Originale del 1721).

Zoli, S. (1991). Il preadamitismo di Isaac de la Peyrère nell’età previchiana e il libertinismo europeo del Seicento. Bollettino del Centro di Studi Vichiani, XXI, 61-77.

 

Note

(1) Sul rapporto di storia sacra e storia profana in Vico negli studi più recenti cfr. Momigliano, A. (1966). Vico’s ‘Scienza nuova’: roman “bestioni” and roman “eroi”. History and theory, VII, 3-23; Rossi, P. (1969). Le sterminate antichità: studi vichiani. Pisa: Nistri-Listri; Rossi, P. (1979). I segni del tempo: storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico. Feltrinelli: Milano; Pastine, D. (1980). Teocrazia e storia sacra in Kircher a Vico. Bollettino del Centro di Studi Vichiani, X, 150-167; Bedani, G. (1989). Vico revisited: orthodoxy, naturalism and science in the ‘Scienza nuova’. Oxford: Berg. Una più recente e specifica delineazione del problema è di Porro (1992): Storia sacra e storia profana in Vico.(volta)

(2) Cfr. Croce (1911/1965) pp.139-140 e Nicolini (1949) p.176 e sgg. La forzatura dell’interpretazione “laica” dell’opera vichiana non toglie la verità storica dei problemi di censura inquisitoriale che riguardarono Vico, oggi precisamente documentati da Costa, G. (1999). Vico e l’Inquisizione. Nouvelles de la République des Lettres, II, pp. 93-124.(volta)

(3) Sulla lettura delnociana di Vico mi permetto rinviare a Botturi, 1995. Vico nel pensiero di A. Del Noce. In AA.VV. A. Del Noce: il problema della modernità. (pp.95-106). Roma: Studium. (volta)

(4) Cfr. sull’argomento Corsano, A. (1937). Il pensiero religioso italiano. Bari: Laterza, p. 127 e Corsano, A. (1949). Interpretazioni cattoliche di Vico. Rivista di Filosofia, 3, 313-314. (volta)

(5) Su De la Peyrère fa testo la monografia di R.H. Popkin, Isaac La Peyrère (1594-1676: his life, his ideas and his influence. Leiden; New York: Brill, 1987. L’opera di I. De la Peyrère è il tomo composto dall’opuscolo Prae-Adamitae, sive Exercitatio super versibus XII, XII, & XIV capitis quinti Epistulae D. Pauli ad Romanos e dal trattatello Systema theologicum ex Prae-adamitarum Hypotesi: Pars Prima (cui non seguì mai la seconda parte, anche a causa dell’abiura che l’Autore fece delle sue tesi per porre fine alle persecuzioni inquisitoriali), edito ad Amsterdam nel 1655. (volta)

(6) Secondo R.H. Popkin (1989) l’opera del La Peyrère ebbe forte influenza su Vico, addirittura costituisce - in conformità al parere anche di Momigliano - un obettivo polemico fondamentale della sua opera maggiore. La strategia di risposta di Vico starebbe nel far propria la tesi della separazione tra storia ebraica e storia pagana, ma con un significato opposto: quello di riconoscere la storia ebraica come l’unica vera, sicura, documentata e perciò più antica a paradigmatica.(volta)

(7) De constantia iurisprudentis, II, 13.(volta)

(8) Cfr. Vico, 1971: Princìpi di Scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni per la quale si ritruovano i princìpi di altro sistema del diritto naturale delle genti (1725) (d’ora in poi SN I), III, 2, p. 258; III, 5, p. 261 e III, 39, p. 297. E Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744) (d’ora in poi SN II), II, sez. II, 5, p. 508. Il testo di Gerolamo è Praefatio in Job, PL, XXVIII, 1081.
In ambito esegetico si potrebbe dire che Vico di fatto anticipa la posizione che solo molto più tardi sarà di un Hermann Gunkel (1862-1932), per il quale i racconti biblici delle origini seguono il genere letterario della leggenda, quale descrizione immaginosa, ma non per questo meno vera, dei rapporti di Dio con l’uomo (cfr. Gunkel, 1901).
(volta)

(9) SN II, II, sez. II, 1.(volta)

(10) SN I, III, 5.(volta)

(11) SN I, V, 4.(volta)

(12) SN  I, II, 12.(volta)

(13) Scrive Vico (1971, p. 519): «la superbia delle menti le porta nell’ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito» (SN II, II, sez. 3).(volta)

(14) Non entro in merito alle variazioni del pensiero di Vico a riguardo del tema dei giganti, come sono state attentamente ricostruite da P. Porro (1992) nel Storia sacra e storia profana in Vico. Esse implicano differenti modelli di utilizzo della storia sacra da parte di Vico e importanti problemi di coerenza. Ciò che non varia mi sembrano essere però il valore antropologico e la funzione sistematica di quel tema in rapporto al peccato originale.
Come evidenziano sia R. Mazzola (1994-95) e L. Boschetto (1994-95), fino al 1725 i giganti assolvono al compito di principio di connessione tra storia sacra e storia profana e per questo motivo Vico compie l’operazione di duplicare il fenomeno del gigantismo istituendo un parallelismo tra il periodo precedente e quello susseguente il diluvio (proseguendo in questo il pensiero di S. Bochardt, Geographiae sacrae pars prior Phaleg seu dispersione gentium et terrarum divisione facta in aeificatione turris Babel…, Cadomi 1646). Con la stesura del 1730 questa preoccupazione apologetica regredisce e i giganti sono per se stessi principio del storia universale (profana). In questa prospettiva Vico presta più attenzione anche alle testimonianze archeologiche e etnologiche e alle prove scientifiche del gigantismo. Quasi un’accentuazione della motivazione fisica su quella morale del fenomeno. Inoltre i giganti sono ora visti anche nel loro duplice aspetto di «uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni», ma anche di «uomini pii, venerabili, illustri» (secondo l’indicazione raccolta dal p. J. Boulduc, De ecclesia ante legem, Lugduni 1626), cioè - come interpreta Vico (1744 / 1971) - di «giganti nobili», che risvegliati alla ragione, «fondarono le religioni a’ gentili e diedero il nome all’età de’ giganti» (SN II, II, sez. I, p. 475). Questo cambiamento di prospettiva però non mi sembra sottrarre importanza al tema del peccato originale e quindi all’origine religiosa e morale del gigantismo, perché quello resta la motivazione fondamentale della dispersione degli uomini sulla faccia della terra e quindi dell’occasione della metamorfosi del gigantismo.
D’altra parte la motivazione della diversa considerazione dei giganti è data secondo R. Mazzola dal confronto con le teorie del giusnaturalismo moderno e con la loro dottrina dello stato di natura (i «semplicioni» di Grozio, i «destituti» di Pufendorf e i «violenti» di Hobbes), cui appunto Vico contrapporrebbe la teoria del gigantismo universale e in questa la figura dei «giganti nobili». Questa interpretazione mi sembra corretta, ma appunto conferma l’importanza centrale del tema del peccato originale, perché - come si avrà ancora modo di dire - è tale dogma religioso che permette di avere una concezione diversa della primordiale brutalità degli uomini, non come condizione veramente naturale, ma come sua corruzione. Infatti Vico è ben consapevole che la grande alternativa nella concezione antropologica e politica è se all’origine è la violenza (materialistica e atea) o il legame (religioso) tra gli uomini.
(volta)

(15) SN I, IV.(volta)

(16) SN I, I, 7.(volta)

(17) SN I, III, 19.(volta)

(18) SN II, “Annotazioni alla tavola cronologica”.(volta)

(19) SN II, I, 2.(volta)

(20) SN I, I, 7.(volta)

(21) L’ultimo argomento politico è evidentemente una conferma a posteriori dell’interpretazione vichiana dello “stato di natura” come società delle famiglie (e non come condizione di individualità separata e conflittuale secondo le teorie giusnaturalistiche di matrice hobbesiana). Questo conferma l’importanza per Vico della “storia sacra” come storia separata, ma anche paradigmatica delle forme autentiche della storia umana postlapsaria. In generale, sostiene F.R. Marcus (1995, pp. 14-27), «gli Ebrei – nel modello interpretativo vichiano – manifestano la natura dell’ “umanità”, funzionando da paradigmi di virtù morale, di giustizia proporzionale e di pia saggezza».(volta)

(22) Sull’importanza del diluvio come oggetto di dibattito esegetico, storico e scientifico (sua storicità, sue modalità, sua universalità) nell’età vichiana cfr. Bligny (1973).(volta)

(23) SN I, II, 12. Cfr. SN I, V, 4, p. 308 (in particolare sul gigantismo derivante da Caino).(volta)

(24) Non posso qui svolgere il tema, che implicherebbe ovviamente la totalità della costruzione vichiana. Mi permetto rinviare a Botturi, F. (1996). Tempo, linguaggio, azione. Lineamenti della vichiana ”storia ideale eterna”. Napoli: Guida.(volta)

(25) SN I, I, 5.(volta)

(26) SN I, II, 3. Non entro qui in merito al ben fondato della critica vichiana nei confronti dei tre giusnaturalisti; su questo già ho svolto una certa indagine in Botturi (1991): La sapienza della storia: GB Vico e la filosofia pratica, parte III.(volta)

(27) SN I, I, 5. A questo punto risulta chiaro il margine di incomprensione che ebbe la critica cattolica del XVIII nei confronti del Vico e in specie nei riguardi della sua dottrina delle origini, quale fu quella del Labanca, di D. Romano, di G. Lami, di G.D. Rogadeo e soprattutto del Bonifacio Finetti poi ampiamente sfruttato dalla critica di B. Croce e F. Nicolini al cattolicesimo vichiano. Del Finetti, infatti, Croce ha editato la dissertazione del 1768 “Apologia del genere umano accusato di essere stato una volta bestia” con il titolo Difesa dell’autorità della Sacra Scrittura contro Giambattista Vico (Bari: Laterza, 1936), in cui l’Autore, padre domenicano esperto in Sacra Scrittura, riscontra con pedante precisione e letteralismo puntiglioso tutti i luoghi di discrepanza tra la ricostruzione vichiana e la narrazione biblica (oltre quelli di incoerenza dello stesso Vico), al fine di demolire la teoria del gigantismo postdiluviano e dell’erramento ferino (cfr. i XXIII punti del “Sommario delle opposizioni del sistema ferino di Vico alla sacra Scrittura”, pp. 27-30).
Non si può negare che all’arco del Finetti fosse una freccia teologicamente acuta, consistente nell’osservare che se la condizione umana fu per un periodo, quanto lungo non importa, di “bestial libertà” senza lume razionale attivo, allora a quegli uomini non sarebbe stato possibile esercitare responsabilità morale alcuna e quindi neppure conseguire il fine ultimo umano, contro la teologia cattolica della Provvidenza soprannaturale, che destina ogni uomo alla salvezza (pp. 68 sgg.). L’osservazione coglie nel segno e mette in luce quella struttura teologicamente dualistica (separazione dei piani del naturale e del soprannaturale) dell’impianto vichiano, di cui già si diceva.
La preoccupazione del Finetti, d’altra parte, conclude proprio là dove anche Vico va a parare, cioè al problema della visione materialistica delle origini di tipo libertino. «Il sistema dello stato ferino fomenta, almeno indirettamente, gli errori dei libertini», afferma il Finetti aprendo l’ultimo paragrafo della sua operetta (p. 84). Qui il gioco delle parti rivela la diversità di orientamento mentale degli autori, dal momento che - come si è visto - la preoccupazione del Vico è anch’essa precisamente quella di contrastare il libertinismo (e il razionalismo giusnaturalista). Ma Finetti non coglie il procedimento dialettico di Vico, che consiste nel concedere all’avversario l’ipotesi estrema (quella dello stato di natura individualistico e conflittuale, dell’immiserimento materialistico e della paura, ecc.), per mostrarne l’insufficienza esplicativa e la necessità di presupporre un’origine assolutamente positiva (lo stato di comunicazione con Dio). La dottrina del peccato originale costituisce così per Vico un passaggio ragionevole indispensabile per sintetizzare positività originaria e negatività storica. Ma questo procedimento dialettico sfugge del tutto al Finetti e con lui ad una sensibilità culturale di tipo ormai illuministico, che privilegia l’idea di verità come universalità statica e quella di ragione come razionalità immutabile; valido esempio di quella sindrome intellettualistica che Vico ha cercato di combattere con tutto il suo lavoro filosofico (su quest’ultimo motivo di incomprensione cfr. Sarti, S. (1972). Il presupposto filosofico della polemica tra B. Finetti e G.B. Vico. In AA.VV. La filosofia friulana e giuliana nel contesto della cultura italiana. (pp. 171-186). Udine: Arti Grafiche Friulane.
(volta)

(28) SN II, I, 4 “Del metodo”.(volta)

(29) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(30) De constantia iurisprudentis, I, 4.(volta)

(31) De constantia iurisprudentis, I, 4, pp. 357 e 363. La corruzione provocata dal peccato originale – insiste Vico in queste pagine (cfr. in particolare p. 363) – ha come rimedio adeguato solo l’intervento soprannaturale di Dio. Questo tema teologico sarà solo latente nella Scienza nuova, interessata oramai alla comprensione della “storia ideale eterna” propria della “natura delle nazioni”, ma non per questo abbandonata.
È interessante rilevare la differente prospettiva sul peccato originale di un autore come Malebranche, particolarmente influente in quegli anni sul pensiero di Vico e nel quale la questione del peccato originale è determinante la visione antropologica. Per l’Oratoriano l’essenza del peccato non fu una superba pretesa di conoscenza pratica del futuro, ma fu l’effetto di una preferenza squilibrata nell’ambito dell’esperienza del piacere. Ad Adamo era naturale e legittimo «d’aimer le plaisir & de le goûter», ma il primo uomo «n’avoit pas une capacité d’esprit infinie» e perciò il suo piacere e la sua gioia avevano il potere di diminuire la chiara visione del suo spirito. «On peut donc concevoir que le premier homme ayant peu à peu laissé partager ou remplir la capacité de son esprit par le sentiment vif d’une joïe présomptueuse, ou peut-être par quelque amour ou quelque plaisir sensible; la presence de Dieu & la pensée  de son devoir se sont affacées de son esprit, pour avoir négligé da suivre courageusement sa lumiere dans la recherche de son vrai bien. Ainsi s’étant distrait, il a été capable de tomber […]» (Malebranche, 1674-75 / 1964, pp. 74-75).
(volta)

(32) SN I, I, 1.(volta)

(33) SN II, I, “Degli elementi”.(volta)

(34) SN I, 1.(volta)

(35) SN I, I.(volta)

(36) SN II, II, 1.(volta)

(37) SN I, II, 4.(volta)

(38) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(39) De constantia iurisprudentis, I, 4.(volta)

(40) Nella Scienza nuova diverrà del tutto chiaro, infatti, che la forma gnoseologica originaria corrispondente al sentimento del pudore è quella mitico-poetica, in cui vengono rappresentate gli “universali fantastici” delle potenze divine superiori. Nel Diritto Universale l’analisi del pudore non è ancora del tutto mediata dalla “logica poetica”, ma questo non impedisce che il suo ampio dettaglio antropologico resti implicito fondamento delle successive più sintetiche rielaborazioni.(volta)

(41) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(42) «[…] il cielo finalmente folgorò. Tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […]. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano le cagioni, alzarono gli occhi e avvertorono il cielo» (SN II, II, se. I: Vico, 1744 / 1971, pp. 476-477).(volta)

(43) De constantia iurisprudentis, II, 2. Sul tema della libertà nel Diritto Universale cfr. Pasini, 1977: “Autorità” e “libertà” in Vico.(volta)

(44) De constantia iurisprudentis, I, 4.(volta)

(45) De constantia iurisprudentis, II, 3. Cfr. «natura autem per Adae lapsum corrupta, pietati successit religio, quae proprie est summi Numinis metus, et quidem ex conscientia reatus»; e ancora «ex metu Numinis pietati, sive amori erga Deum, in natura integra, successerat honor in corrupta» (I, 4: Vico, 1721 / 1974, p. 359). Donde la relativa verità secondo Vico del lucreziano: primos in orbe deos fecit timor e l’iniziale risposta vichiana alla tesi libertina dell’origine della religione dalla paura.(volta)

(46) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(47) De contantia iurisprudentis, II, 5,  p. 419 e II, 3, p. 407.(volta)

(48) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(49) De constantia iurisprudentis, II, 3, p. 409 e II, 5, p. 419.(volta)

(50) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)

(51) SN II, I, se. IV.(volta)

(52) De constantia iurisprudentis, II, 3, pp. 409 e 411.(volta)

(53) Cfr. come esempi tipici SN I, II, 6 (Vico, 1725 / 1971, p. 194) e V, 3 (Idem, p. 308), dove sono sintetizzati gli elementi fondamentali della pagina del Diritto Universale che ho esposto (nesso pudore-provvidenza; «pudore», «curiosità», «industria»; confronto con i teorici dell’individualismo, qui identificati con interlocutori in parte diversi (secondo la nuova prospettiva di attacco critico al giusnaturalismo razionalistico), cioè «Obbes», «Grozio» e «Pufendorfio».(volta)

(54) SN I, IV.(volta)

 

Nota al riguardo dell’autore

Francesco Botturi è professore oridinario di Antropologia Filosófica presso la Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Italia. È Visiting Professor presso la Facoltà teologica di Lugano, Svizzera. Contatto: francesco.botturi@mi.unicatt.it

Data de recebimento: 08/04/2003
Data de aceite: 19/09/2003

Memorandum 5, out/2003

Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP. http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/botturi01.htm

 

 

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