Sguardo d’insieme
Il
tema del peccato originale si colloca nel testo vichiano come
luogo strategico dei complessi rapporti tra “storia sacra” e “storia
profana”, cioè tra i due regimi possibili della storia umana dal
punto di vista religioso cristiano. Si tratta ovviamente di un
intreccio di questioni di rilevante significato per la filosofia
della storia vichiana, che non ha avuto finora grande rilievo
nella letteratura secondaria (1),
così come – si potrebbe subito notare – manca a tutt’oggi uno
studio approfondito del rapporto della scrittura vichiana con
la Sacra Scrittura (soprattutto i libri sapienziali dell’Antico
Testamento). Probabilmente ciò dipende dal pregiudizio di origine
crociana secondo cui la religiosità vichiana fosse convinzione
privata, ma estrinseca e contraddittoria rispetto alla sua effettiva
Denkform filosofica. Pregiudizio a cui si contrappose
in modo apologetico poco fecondo, da parte di autori come Chiocchetti,
Vismara, Amerio, l’idea di un cattolicesimo vichiano sicuramente
ortodosso e aproblematico. Questa polarizzazione interpretativa
tra l’affermazione e la negazione della cattolicità del pensiero
vichiano non ha certamente giovato alla sua effettiva comprensione,
bloccata dalla preoccupazione preventiva per la sua collocazione
confessionale. Per Croce (1911/1965) e Nicolini (1949) ogni dissonanza
anche dalla sola tradizione teologica del tempo costituiva indice
di un cripto-pensiero immanentistico se non ateo; mentre per gli
interpreti cattolici o “clericali”, come venivano apostrofati,
qualsiasi discrepanza non era comunque in grado di scalfire l’ortodossia
cattolica di Vico, spesso misurata addirittura sulla sua presunta
fedeltà alla filosofia tomistico-scolastica.
Il risultato
storico e teorico di questo pseudodibattito interpretativo è stato appunto
quello di togliere rilievo ai temi in senso stretto teologici della
filosofia vichiana, tra cui quello del rapporto tra storia sacra e storia
profana. Esemplificativamente si ricordi l’affermazione crociana secondo
cui la storia sacra non sarebbe in Vico altro che oggetto di «scrupolo
religioso» inessenziale al percorso effettivo del suo pensiero oppure la
sentenza di F. Nicolini, per il quale l’insistita separatezza del popolo
ebraico, nella rappresentazione della storia universale da parte di Vico,
non può aver che «valore di mera cautela» di eliminare ciò che potesse
interferire con i problemi di ortodossia del tempo e potesse perciò
attirare più del dovuto l’attenzione dell’occhiuta Inquisizione
ecclesiastica. D’altra parte, che questa «eccettuazione» dell’ebraismo e,
in realtà, anche del cristianesimo, sentisse di zolfo è affermato dal
Nicolini con il ricorso - tipico della sua strategia dimostrativa - a
fonti “laiche” o “eretiche” che attestano la stessa (presunta) posizione;
in questo caso si tratta di F. Bacone e di Th. Hobbes
(2). Questa neutralizzazione del
problema teologico finisce, però, per essere condivisa anche dalla parte
avversaria, come si può osservare in un autore come A. Del Noce, che
peraltro ha un’attenzione nuova per la componente religiosa del pensiero
vichiano. Secondo Del Noce infatti «se Vico non ha parlato, se non
occasionalmente, della storia ebraica e della religione cristiana, è
perché data l’impostazione della sua ricerca, non doveva farlo». La
sua indagine riguarda le vie naturali della Provvidenza nella storia
profana e ciò implica coerentemente che manchi il riferimento al
soprannaturale; in analogia con quanto aveva fatto Malebranche nello
studio della regolazione provvidenziale della comunicazione del movimento.
In conclusione, afferma Del Noce (1964/1990), si deve dire che
«interpretata in senso teologico la sua [di Vico] ricerca è quella, di
carattere e di intonazione nettamente antigiansenisti [ma si potrebbe
aggiungere anche antimolinisti], di ciò che l’uomo può fare nello stato
di natura lapsa» (pp.498-499)
(3).
Ora, se la conclusione delnociana è esatta - come si vedrà -, resta però
sospeso l’interrogativo sul valore della distinzione-separazione di storia
sacra e storia profana, che in Vico ha una funzione strutturale e quindi
svolge un ruolo capitale nell’organizzazione interna della “Scienza
nuova”. Connessa è poi la domanda decisiva sull’unità della storia umana,
nevralgica sia dal punto di vista filosofico sia da quello teologico; del
resto, non è lo stesso Vico che insiste sulla distinzione, ma anche sulla
“perpetuità”, la continuità di storia degli ebrei e di storia dei gentili?
Non è
possibile, dunque, avviare un discorso sul peccato originale nell’opera
vichiana senza porsi qualche interrogativo sulla posizione, sicuramente
complessa e peculiare, di Vico nei confronti del problema esegetico,
per il quale egli ebbe sicuramente un’attenzione specifica. Si può
ricordare in proposito la preoccupazione vichiana – espressa in una nota
lettera al p. De Vitry (20 gennaio 1726) - per l’inadeguatezza degli studi
biblico-linguistici da parte cattolica a confronto con quelli del campo
protestante, che emerge nel contesto della sua sconfortata considerazione
sulla trascuratezza contemporanea degli studi umanistici: «Gli studi
severi delle due lingue greca e latina si consumarono così dagli scrittori
del Cinque come da’ critici del Seicento. Un ragionevol riposo della
Chiesa cattolica sopra l’antichità e perpetuità che più che le altre vanta
la version vulgata della Bibbia, ha fatto che la gloria delle lingue
orientali passasse a’ protestanti» (Vico, 1726/1929, p. 206)
(4).
La questione
estremamente delicata era allora - com’è noto e come risultava di vitale
interesse per Vico - quella della cronologia biblica, suscitata dal
confronto con le antichissime civiltà dell’oriente che ponevano in
discussione la credibilità della periodizzazione biblica tradizionalmente
calcolata secondo la lettera della Scrittura. La migliore conoscenza
storica delle antiche civiltà rendeva ormai insufficiente o
contraddittoria la cronologia tradizionale. Questa, ad esempio, poneva tra
Adamo ed Abramo non più di millenovecentoquarantotto anni: troppo poco per
accogliere lo svolgimento di grandi epopee storiche, come quelle degli
assiri, dei caldei, degli egizi, dei persiani, dei cinesi, ma anche degli
antichissimi popoli del Nuovo Mondo da cui provenivano i messicani e i
peruviani. Il tentativo di I. De la Peyrère di fornire una spiegazione con
la “teoria dei preadamiti” costituì un evento di vaste conseguenze per le
polemiche che suscitò e per la diffusione che ebbe. La tesi dell’erudito
di Bruxelles consisteva nell’attribuzione ad Adamo della paternità del
solo popolo ebraico. Questo rendeva possibile pensare che popoli che
dimostravano una più grande antichità avessero un’origine precedente e
quindi indipendente. Venivano così affermati ad un colpo preadamitismo e
poligenismo, dottrine più che sufficienti per sollecitarne la diffusione
da parte libertina e per sollevare reazioni violente e persecutorie da
parte tanto cattolica quanto protestante. Le conseguenze, infatti, che
venivano annesse a tali dottrine non potevano essere accettate dalle
autorità religiose cristiane, dal momento che non solo era tolto alla
Scrittura il suo valore di documento storico universale, negandole il suo
ruolo di pietra di paragone e di «testo parametrico» di tutta la storia
umana, ma, molto più, erano messe in discussione le strutture portanti
della tradizione dogmatica cristiana (Cfr. Zoli, 1991)
(5). I popoli pagani, infatti, non
provenendo da Adamo, non rientravano nel racconto biblico e in ciò che
esso affermava della sorte di Adamo stesso; erano cioè affrancati dal
peccato originale e erano attori di una storia diversa da quella della
Scrittura ed esterna alla sua logica provvidenzialistica. Il peccato
originale era relativizzato e in particolare veniva scalzata l’idea
dell’unità ed unicità della “historia salutis” per tutti gli
uomini, a favore di una concezione naturalistica della religiosità, cioè
di una comune e vaga religiosità quale prospettiva sintetica secondo cui
guardare alla storia dei popoli in sostituzione dello sguardo teologico
ebraico-cristiano consegnato nella Scrittura.
Vico risente
con evidenza del dibattito e delle sue difficoltà, come dimostra il suo
tentativo di mantenere il dualismo storico fondamentale tra popolo eletto
e il resto dell’umanità e il pluralismo delle cronologie delle diverse
civiltà, ma insieme di proteggere il senso unitario della storia umana
(6). Dal punto di vista cronologico,
infatti, Vico fa coincidere l’inizio della storia umana con quello del
racconto biblico, con la motivazione, spesso ripetuta, che la storia sacra
è la più “antica” e la più “certa”, essendo l’unica dotata di un racconto
così continuo e dettagliato. Dal punto di vista del contenuto, invece, la
strategia vichiana sta, da una parte, nel separare le due provvidenze
(quella soprannaturale dei popolo ebraico e quella naturale per gli altri
popoli), presupponendole comunque complementari, e, dall’altra,
nell’unificare la storia dei differenti popoli e civiltà non
cronologicamente, ma secondo i ritmi (i “corsi”) e i princìpi condivisi
della “storia universale eterna”.
Vi è dunque
un certo letteralismo che resta insuperato nell’esegesi vichiana, che lo
accomuna a quella della teologia del tempo. In questo senso la posizione
del Vico è avversaria dell’interpretazione di tipo libertino e di quella
spinoziana, che preparano quella allegorizzante post-illuministica di un
Kant, per il quale il peccato originale è immagine dell’uscita
dell’umanità dalla condizione infantile, o di un Hegel, per il quale la
caduta è una formulazione ancora mitologica della teoretica dialettica
dello spirito. D’altra parte, però, Vico con la sua “logica poetica” e con
il ribaltamento della concezione tradizionale del mito semantizzato come “vera
narratio” pone oggettivamente le basi per una rilettura della
Scrittura in chiave poetico-mitologici. Come è facile intravedere, quando
teorizza nel Diritto universale che l’antichità della lingua
ebraica è dimostrata dal fatto che «ferme omnis poetica est, parabolis
ac similitudinibus referta» (Vico, 1721/1974, p.472)
(7). Questa tesi resta ferma anche
nelle diverse edizioni della Scienza nuova. Nella redazione del
1725 (Vico, 1971) vengono proposti «nuovi princìpi di poesia», secondo il
quali «si ritruova la poesia essere stata la lingua prima comune di tutte
le antiche nazioni, anche dell’ebrea» (p. 258). Anche questa infatti nasce
da una condizione originaria primitiva, cioè di «povertà di parlari» (p.
261), e quindi è «tutta poetica, sicché vince di sublimità quella del
medesimo Omero» (p. 297). Addirittura Vico giunge ad attribuire al testo
biblico - appoggiandosi in questo all’autorità di san Gerolamo che ne
parla a proposito del libro di Giobbe - il verso eroico, tipico della più
antica poesia
(8).
Che ruolo
gioca in questo contesto la figura del “peccato originale” per la
costruzione del discorso vichiano? La sua trattazione più ampia si trova
nel Diritto universale, dove essa ha chiaramente una funzione
cardine per la rappresentazione della stessa storia profana dell’uomo, che
vale la pena precisare subito. Il peccato originale, infatti, fa la sua
apparizione nel testo vichiano come principio e limite invalicabile
della realizzazione storica dell’uomo: principio, in quanto la
storia profana è storia comunque postparadisiaca e postdiluviana; limite
invalicabile, in quanto la vicenda storica postlapsaria è in grado
(provvidenzialmente) di restaurare la condizione umana in quanto tale, di
recuperarne socialmente l’humanitas e di conservarla, ma non è in
grado di redimerla definitivamente e personalmente dal male.
In tal modo,
a prezzo di uno schema fondamentalmente dualistico, ma consono allo schema
bipolare di natura e soprannatura propria della teologia
controriformistica (De Lubac, 1991), Vico tiene unita la storia umana e
insieme la bipartisce, suddividendo – per così dire – il lavoro tra
l’opera specializzata della storia sacra e quella comune della storia
profana, coll’intento di neutralizzare in questo modo sia la versione
pessimistica libertina del naturalismo rinascimentale, sia quella
ottimistica autoredentiva (in parte condivisa forse dallo stesso Vico al
tempo delle Orazioni inaugurali). Il peccato originale è per Vico
quella clausola storica a motivo della quale l’uomo non ha più, ormai
strutturalmente, la capacità di realizzare la sua esistenza in stabile
equilibrio con se stessa; al contrario l’esistere storico dell’uomo,
continuamente minacciato di regressione “bestiale”, deve guadagnare se
stessa sul sfondo oscuro della sempre possibile “barbarie”. Per questo il
progetto vichiano della “Scienza nuova” è essenzialmente puntato contro il
pessimismo libertino (ispiratore anche delle diverse forme di utilitarismo
sociale), che concepisce la natura umana dominata in ultima istanza dal
primato della forza. Ma è anche essenzialmente polemico con ogni ottimismo
sociale su base atea, come è il progetto bayliano della “società degli
atei”. Prescindere dal legame religioso con il “primo vero”, infatti,
significa ingannarsi sulla reale condizione storica dell’uomo, cioè sul
suo ormai strutturale bisogno di lasciarsi attrarre dalla luce
“metafisica” per non sprofondare nelle tenebre della difformità.
Il peccato
originale costituisce così la ferita nella condizione umana prodotta
dal distacco volontario dell’uomo dal suo stato di comunicazione
creaturale con Dio. Ad esso segue, secondo la complessiva ricostruzione
vichiana, un tempo di indefinibile durata, che costituisce il periodo
della storia oscura o “antidiluviana”, in cui già fa la sua prima
apparizione il fenomeno del gigantismo. Qui Vico ha l’evidente problema di
includere il racconto del Genesi, che parla di «giganti» nati
dall’unione dei «figli di Dio» e delle «figlie degli uomini», «eroi
dell’antichità» e «uomini famosi», ma anche malvagi, perché «ogni disegno
concepito dal loro cuore non era altro che male»; così che Dio pentito di
aver fatto l’uomo sulla terra, manda il diluvio che tutto travolge salvo
Noé e la sua famiglia (Cfr. Gen., 6, 4-5). Nella discendenza di Noé Vico
colloca la divisione tra la linea di Sem, da cui verrà il popolo ebraico e
le linee di Cam e Jafet in cui sono i ceppi dei popoli pagani. Mentre la
progenie di Sem si mantiene fedele alla tradizione religiosa dei padri ed
è privilegiata da Dio, quella di Cam e di Jafet subisce la prova del
secondo gigantismo, quello postdiluviano, perché, dispersa sulla terra
devastata dal diluvio, genera «uomini di vasti corpi e di forze sformate»
(Vico, 1725 / 1971, p.209)
(12). La
e-normità del gigante è la rappresentazione icastica della condizione
umana ex-lege, fuoriuscita cioè dalla misura normativa dell’essere uomini,
da quell’humanitas la cui restaurazione e il cui mantenimento
costituisce la posta in gioco della “storia universale profana”, essendo
sempre possibile anche all’uomo civilizzato la caduta nel gigantismo
morale e spirituale nella forma della “barbarie della riflessione”
(13).
Il
racconto del diluvio e la vicenda dei giganti diventano così in
Vico la conseguenza storicamente costituente e sempre rilevante del
peccato originale, che ne è il presupposto
(14). Diluvio e gigantismo, infatti, costituiscono il principio
ermeneutico della ripartizione tra storia sacra e storia profana e delle
loro caratteristiche. Entrambe sono storie “certe”, ma l’una nel regime
speciale di una conservazione dell’humanitas, che non passa per lo
smarrimento del gigantismo, e che è da subito destinata alla grazia
soprannaturale della rivelazione; l’altra è invece storia “universale
delle nazioni”, storia “eroica”, “poetica” e “favolosa”, in cui l’humanitas
è compromessa, ma non definitivamente perduta, perché non è una vicenda
abbandonata da Dio, ma appunto è “storia”, cioè accadere in cui si
realizza la signoria benefica della Provvidenza sulla vita dell’uomo,
nella forma inevidente della “storia ideale eterna”. La Provvidenza
storica naturale, infatti, garantisce comunque la presenza di Dio nella
condizione umana della caduta e con ciò istituisce la possibilità che
la vicenda umana sia storica.
Di qui viene
il carattere né reazionario, né utopico del pensiero vichiano della
storia. Non reazionario, perché non c’è mai stata un’effettiva età
dell’oro e, quindi, non c’è restaurazione possibile di una condizione
felice pregressa; mentre la situazione paradisiaca non può certamente
essere restituita dall’iniziativa umana. Ma neppure utopico, perché la
catastrofe del peccato originale impedisce di pensare che l’umanità possa
mai giungere all’instaurazione di un regime storico esente dalla
possibilità di ricadere al di fuori dell’humanitas. Il pensiero
vichiano della storia, proprio in rapporto al principio del peccato
originale, è caratterizzato piuttosto dall’idea della provvidenza,
cioè da una struttura antropologico-metafisica che è normativa condizione
di possibilità dell’attuarsi di un certo ordine civile nella vicenda umana
postlapsaria ed extragiudaica in opposizione alla tendenza alla
dissoluzione catastrofica dei rapporti e alla metamorfosi ferina
dell’umano. Per questo uno dei significati sintetici della “Scienza nuova”
è d’essere “teologia civile”, cioè comprensione della relazione
teologico-metafisica che garantisce l’esistenza della civitas tra
gli uomini. E per questo, ancora, la “Scienza nuova” non è scienza
progettuale (volta all’indietro o in avanti), ma è «una nuova arte
critica, che ne serva di fiaccola da distinguere il vero nella storia
oscura e favolosa» e «un’arte come diagnostica», che, conoscendo le
strutture fondamentali dell’antropologia storica, «ne dà il fine
principale di questa scienza di conoscere i segni indubitati dello stato
delle nazioni» (Vico, 1725 / 1971, p. 304)
(15), cioè in sintesi arte ermeneutica dello stato e del grado di
attuazione della costituzione storica dell’uomo.
Tentiamo, a
questo punto, di ripercorre partitamente i grandi temi in oggetto: il
rapporto tra storia sacra e quella profana; la natura del peccato
originale; il nesso tra peccato e provvidenza storica.
Storia sacra e storia profana
La storia del
popolo ebraico, che si identifica con la storia sacra nel regime
dell’Antico Testamento, ha quattro caratteristiche che la
contraddistinguono e la differenziano in rapporto alla storia profana:
l’antichità, la continuità della sua tradizione narrativa, l’elevatezza
morale della sua legislazione religioso-politica e la verosimiglianza
della forma politica delle origini. Il racconto biblico delle origini -
dice la Scienza nuova prima – presenta caratteri di antichità
esemplare, essendo «più antica» di quella più antica, cioè di quella
mitica o «favolosa de’ greci», che a sua volta è la più certa tra le
tradizioni antiche, risultando «tronche, come le lor piramidi, [le cose]
degli egizi» e «affatto oscure [quelle] dell’Oriente» (Vico, 1725 / 1971,
p.179)
(16). In secondo luogo – dice
più avanti - «non si ritruovano nella sagra storia» «sozzi corrompimenti
delle prime tradizioni de’ fatti» (pp.271-272)
(17), così che essa presenta una
documentazione e propone una logica degli avvenimenti che non ha paragone
con altri racconti d’origine. Il suo narratore, Mosé (secondo la
tradizionale idea esegetica che lo vede autore dell’intero Pentateuco), è
cronologicamente precedente (di ben milletrecento anni) la fonte pagana
antica più accreditata, quella omerica, e «narra, con frase più poetica
che non è quella di Omero» (Vico, 1744 / 1971, pp.423-424)
(18). Inoltre - ed è il terzo
carattere rilevante - la Scrittura lega il racconto delle origini ad una
dottrina teologica e morale così alta da essere confrontabile solo con le
più nobili voci della filosofia greca, la metafisica di Platone e la
morale di Socrate. In tal modo - mira a dire Vico - la tradizione ebraica
testimonia «una perpetuità di civil discipline» cioè una continuità di
elevati ordini etici, civili e politici che ne fanno un caso unico nella
storia dell’umanità. Infine, Vico fa notare che la storia biblica presenta
forti motivi di ragionevolezza politica, che ne attestato l’autenticità,
in quanto «più spiegatamente che non fanno tutte le [storie] gentilesche,
ne narra sul principio del mondo uno stato di natura, o sia il tempo delle
famiglie, le quali i padri reggevano sotto il governo di Dio [...]» (Vico,
1744 / 1971, p.438)
(19). Per questi
suoi caratteri il racconto biblico delle origini costituisce per Vico la
tradizione narrativa capace di aprire una via interpretativa della storia
di tutta l’umanità, «il primo comun principio dell’umanità» (Vico, 1725 /
1971, p.179)
(20) (21).
Ma anche un
altro tratto della narrazione biblica è significativo a tal fine, quello
secondo cui essa, parlando delle origini e della loro corruzione, mette in
scena anche una certa figura mostruosa dell’umanità, quella dei “giganti”,
di cui ci sono consistenti tracce anche nella letteratura pagana. Di
giganti parla la Scrittura prima del diluvio, nella discendenza di Caino,
e dopo il diluvio
(22), in quella di
Cam e Jafet, che a seguito dell’«empietà» finirono nella «libertà
bestiale» e di qui appunto nel gigantismo «di vasti corpi e di forze
sformate», effetto e ulteriore causa della disastrosa perdita della misura
interiore. Ma di giganti parlano anche G. Cesare e Tacito a proposito dei
«Germani antichi», mentre tracce del ricordo del diluvio e del prevalere
del Caos sono presenti nella letteratura greca e in quella latina (Esiodo
ed Ovidio). Si apre così – conclude Vico ulteriormente - «l’unica via,
finora chiusa, per rinvenire la certa origine della storia universale
profana e della sua perpetuità con la Sacra» (Vico, 1725 / 1971,
pp.209-210)
(23). Ma soprattutto si
apre la via per una interpretazione dello statuto della storia umana come
sospesa tra due possibilità sempre aperte, rappresentate dai due tipi di
nazione che il racconto biblico prospetta dopo il diluvio: «una di non
giganti», come la progenie di Noé fedele alla tradizione dei padri ed
«un’altra d’idolatri giganti» (p.210).
La storia
sacra, dunque, nella rappresentazione che ne fa Vico è indispensabile
come criterio ermeneutico della stessa storia profana, pur restando
nella sua distinzione di principio e separatezza di svolgimento; anzi ha
tale funzione criteriologica proprio in forza della sua differenza. La
teoria del peccato originale e delle sue conseguenze deformanti
(teratologiche, si potrebbe dire in riferimento ai giganti), infatti,
rinvia per contrasto ad una normatività relazionale e sociale, che è
quella della condizione paradisiaca di comunicazione dell’uomo con Dio e
con l’altro uomo, e corrispettivamente offre parametri per comprendere la
condizione decaduta e il suo costituirsi in storia. Tali parametri si
unificano poi negli elementi costitutivi della “storia ideale eterna”, con
il suo ritmo evolutivo e la sua circolarità
(24), e in ultima istanza nella Provvidenza, che costituisce la
condizione di possibilità dell’esserci storico come tale. Ma di
Provvidenza ha senso parlare proprio in rapporto ad una condizione storica
compromessa dal peccato originale e perciò aperta alla distruzione o alla
costruzione, all’involuzione o all’evoluzione, alla feritas o all’humanitas.
Questa
funzione strategica del peccato originale nell’ermeneutica storica è ben
evidenziata dalla polemica che in rapporto ad esso viene istituita
da Vico nei confronti del giusnaturalismo. Se, infatti, nel primo
libro della Scienza nuova sono tracciate con ampiezza le linee del
dibattito con Grozio, Selden e Pufendorf, quali rappresentanti tipici del
diritto pubblico moderno, nel secondo libro ciò che viene loro attribuito
è ricondotto, implicitamente ma chiaramente, ad una inadeguata concezione
delle origini e in esse del ruolo del peccato originale. Che cosa imputa
Vico al giusnaturalismo moderno? «Tre errori gravissimi»:
l’identificazione del diritto delle genti con il diritto naturale dei
filosofi; la conseguente trattazione del diritto delle genti solo nella
sua forma più evoluta e universalistica, trascurando le sue modalità
storiche, evolutive e differenziate; infine, la mancanza di «scienza e
necessità» nell’interpretazione delle testimonianze storico-erudite. In
comune queste critiche hanno l’idea di un fondamentale intellettualismo,
che impedisce di comprendere davvero la logica storica della coscienza
etico-giuridica delle nazioni. Esso infatti impedisce di cogliere il nesso
tra le condizioni storiche particolari e l’universalità del valore. Per
stare alla terminologia vichiana, diventa irrealizzabile la combinazione
del diritto naturale «eterno nella sua idea» con i «costumi delle
nazioni», la «conservazione privatamente de’ popoli» con la «conservazione
di tutto il genere umano», la «scienza e necessità» delle ragioni
esplicative, che rinviano a un «ordine eterno», con le «occasioni» e le
«guise» e i «tempi» dell’accadere. Ma queste separazioni impediscono la
formulazione di un pensiero non nominale della storia. Così,
paradossalmente, il pensiero giusnaturalistico, che vorrebbe essere
fautore di un pensiero dell’universale etico, finisce per privilegiare le
motivazioni empiristiche e utilitaristiche dell’agire sociale
(25).
Questi errori
gravidi di grandi conseguenze dipendono da una falsa interpretazione
delle origini e della loro decadenza. È significativo, in proposito,
che Vico osservi, già nel secondo libro della Scienza nuova prima,
che la condizione originaria, ipotizzata dai giusnaturalisti e in
particolare da Grozio e da Pufendorf per giustificare l’istituzione della
società umana, dia una descrizione dell’uomo che corrisponde a quella
dell’uomo decaduto. Grozio pone l’uomo nella condizione della «solitudine
e, perché solo, quindi anche debole e bisognoso di tutto» (Vico, 1725 /
1971, p.190) proprio come dopo il peccato originale e dopo il diluvio
quanti non restarono fedeli al «vero Dio de’ loro padri Adamo e Noé»
(Idem), che finirono nella «libertà bestiale» e «a perdere ogni socievole
costume, per questa gran selva della terra dispersi» (Idem). Similmente
Pufendorf pensa l’uomo «venuto in questo mondo, ma abbandonato da sé, non
già dalla cura ed aiuto di Dio» (Idem). Da parte sua Selden «pose princìpi
comuni alle nazioni gentili ed agli ebrei, senza distinguere un popolo
assistito da Dio sopra le altre nazioni tutte perdute», non riconoscendo
così la specificità della dimensione religiosa della storia profana
(26).
Ciò che Vico
intende dire è che anche i giusnaturalisti razionalisti riconoscono la
condizione bisognosa, anzi misera degli inizi (cronologici e assiologici)
della storia umana, ma non la riconoscono come condizione decaduta, cioè
come conseguenza del peccato originale e, quindi, la naturalizzano,
ritenendo che, se essa è la condizione primordiale dell’uomo come tale,
essa può essere vissuta e rimediata con le sole risorse umane, senza
relazione alla logica prioritaria e alla forza superiore della
Provvidenza: «niuno degli tre – conclude infatti Vico –, nello stabilire i
suoi princìpi, guardò la provvedenza» (Vico, 1725 / 1971, p.176)
(27).
Invece, il
riferimento alla Provvidenza indica il nesso tra l’oggetto elementare
dell’azione dell’uomo ovvero le «necessità» e le «utilità», i suoi bisogni
e i suoi interessi, e la relazione strutturale della mente al «vero
eterno», in virtù della quale l’uomo non è del tutto «abbandonato» a se
stesso e alla sua indigenza. Che la storia umana sia successiva e
dipendente dal peccato d’origine significa infatti che l’uomo reale non si
trova nella condizione della pura comunione con il vero e della perfetta
comunicazione con i suoi simili, ma che neppure è del tutto abbruttito
nella condizione della sua immediatezza sensibile. In termini più precisi
l’uomo primordiale vichiano non si trova né nella condizione della “simplicitas”
innocente e autosufficiente, benché debole di Grozio, né in quella
radicalmente solitaria e ostile di Hobbes. Nella condizione catastrofica
del gigantismo l’uomo ha ancora la possibilità di un recupero di umanità,
nella misura in cui gli riesce di penetrare con la luce della relazione
metafisica la greve materia della sua vita pulsionale, dando inizio con
quelle prime configurazioni intelligibili che sono gli “universali
fantastici”, i mitemi originari, al mondo umano della comunicazione
religiosa, del legame civile e della trasformazione produttiva della
terra.
In tal modo
la centralità antropologica del dogma del peccato originale nella
costruzione vichiana è funzionale alla critica dell’impostazione
filosofica sia del giusnaturalismo razionalistico, sia dell’utilitarismo
materialistico (che secondo Vico funzionano come opposti reversibili). Il
peccato originale, infatti, è una categoria antropologica utile per
rendere pensabile la connessione di indigenza mentale e di razionalità, di
individualità egoistica conflittuale e di socialità comunicativa, di
impotenza e di progresso. In questa coesistenza di latenza ed
urgenza della ragione è posta per Vico la chiave della condizione
storica dell’uomo in cui si svolge il gioco della libertà e della «storia
degli ordini che quella [la provvidenza], senza alcun verun umano
scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini,
ha dato a questa gran città del genere umano» (Vico, 1744 / 1971, p.465)
(28).
La natura del peccato originale
Sulla natura
del peccato originale Vico non intraprende analisi specifiche; anzi si
limita a brevi cenni. Ciononostante è necessario capire la
caratterizzazione in essi contenuta per poter intendere dall’interno la
funzione che al peccato d’origine è attribuita nell’economia storica delle
nazioni.
Nel
Diritto Universale (Vico, 1721 / 1974) il peccato di Adamo è
presentato, secondo una tradizionale visione teologica scolastica, come
peccato di superbia, a somiglianza di quello degli angeli, che vollero
competere con Dio, «esse ut Deus appetiere», con perfetta coscienza
della loro trasgressione. «Ex eodem ferme genere Ada peccavit»
(p.403), in quanto, essendo incorrotto, poteva non ascoltare il
suggerimento del cattivo desiderio («cupiditas»); cui invece diede
retta tramite l’invito del demone cattivo, a preferire non un bene
corporale finito, ma «infinitum bonum animi, ipsam Dei sapientiam»
(Idem), promettendogli – secondo il racconto genesiaco – la scienza del
bene e del male
(29). La pretesa di
possedere la stessa sapienza divina fa perdere ad Adamo quella che egli
realmente possedeva a misura della sua natura creata: «Ada integer
mente pura contemplabatur Deum, puro animo diligebat» (Idem, p. 357).
Questo era il suo «Dei cultus», costituito da «castitas mentis»
e «animi pietas», rivolte a Dio e insieme ai propri simili
(30).
Il peccato
originale ha privato Adamo «aeterni veri cognitione pura» e dalla
privazione di questa visione umanamente adeguata del vero venne una
innaturale e quindi nefasta divisione della originaria «sapientia
integra et vere heroica» in sapienza come «contemplatio» delle
cose più alte e sapienza come «prudentia» relativa alle cose
civili. Effetto del peccato originale fu così la separazione e la
contrapposizione tra ragion speculativa e ragion pratica; cioè
un’alterazione dell’organismo della sapienza, che determinò l’involuzione
e lo smarrimento sia della verità speculativa sia di quella pratica, come
risulta dalla antropologia vichiana dell’uomo decaduto, di cui poi si dirà
più in dettaglio
(31).
Questa
rappresentazione tradizionale del peccato originale si specifica nella
Scienza nuova nell’idea che l’essenza della colpa consista in un
desiderio curioso di conoscere l’avvenire, cosa propria solo della
sapienza divina. «Tale curiosità – scrive infatti Vico nella prima pagine
della Scienza nuova prima -, per natura vietata, perché cosa propia
di un Dio mente infinita ed eterna, diede spinta alla caduta de’ due
prìncipi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli
ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello
stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di sapere
l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche, dolori e morte»
(Vico, 1725 / 1971, p.172)
(32).
Questa idea passerà identicamente nella Scienza nuova seconda, che
ha come uno dei suoi fondamenti la “degnità” XXIV, che recita: «La
religione ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione,
sulla quale sursero [invece] tutte le nazioni gentili. Questa Degnità è
una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni
antiche si divise tra ebrei e genti» (Vico, 1744 / 1971, p. 438)
(33).
La
presunzione di sapienza, che, eguagliandosi alla «mente infinita ed
eterna» di Dio, se ne arroga la proprietà della conoscenza del futuro e
con essa la capacità di condurre da sé la propria esistenza, precipita
l’uomo in una condizione inferiore, in cui non contempla neppure quella
parte di sapienza che gli era riservata come creatura intelligente.
Restando privo della guida sapiente che gli è indispensabile per condursi
nella vita, l’uomo avverte la necessità di ricorrere a fonti di sapienza
alternativa, che possano assicurare in qualche modo un’energia superiore
ed una conoscenza del necessario e del possibile; in altri termini
all’uomo decaduto e non eletto come il popolo ebraico furono
indispensabili l’idolatria e la divinazione. L’uomo integro
– osserva il De constantia iurisprudentis – contemplava l’«aeternum
verum mente pura», mentre «in corruptione homines caelum oculis
contemplari coeperunt», perché se nella prima originaria condizione l’uomo
«vitae agenda a Deo ipso discebat», nello stato corrotto il genere umano
«contemplatione caelum de vita agendis consulebat» (Vico, 1721 / 1974, p.
361). In coerenza con questa concezione la pagina iniziale della
Scienza nuova prima recita: «Quindi le false religioni tutte sursero
sopra l’idolatria, o sia il culto di deitadi fantasticate sulla falsa
credulità d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che
soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria [è] nata ad
un parto con la divinazione, o sia la vana scienza dell’avvenire e certi
avvisi sensibili, creduti esser mandati agli uomini dagli déi» (Vico, 1725
/ 1971, p. 172)
(34).
La condizione
storica decaduta è vissuta perciò necessariamente nell’inganno delle
“false religioni” e in un certo senso nella indefinita reiterazione del
peccato della “curiosità” originale: le forme idolatriche e divinatorie
sono infatti la prosecuzione - la istituzionalizzazione, si potrebbe dire
- del peccato originale. Eppure questa situazione porta in sé una
paradossale positività, perché divinazione e idolatria implicano una
certa verità, quella di conservare comunque il legame con il divino e di
inserirlo nell’azione umana come un ordine trascendente che sottrae la
condizione umana alla pulsione distruttiva del bisogno: «sì fatta vana
scienza [la divinazione], dalla quale dovette incominciare la sapienza
volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di
vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane;
l’altro, che negli uomini vi sia libertà d’arbitrio, per lo quale, se
vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo,
altramenti loro appartenerebbe» (Vico, 1725 / 1971, p. 172)
(35). Non diversamente per la
Scienza nuova seconda «la sapienza tra’ gentili» cominciò con la
poesia sacra che era una «scienza del bene e del male, la qual poi fu
detta divinazione», che «dovett’essere propiamente dapprima la scienza in
divinità d’auspìci; la quale [...] fu la sapienza volgare di tutte le
nazioni di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza, per la
quale, da divinari, la di lui essenza appellossi divinità» (Vico,
1744 / 1971, p. 471)
(36).
In tal modo
la punizione per la colpa dei progenitori non significa – come già s’è
detto – puro abbandono da parte di Dio e rottura d’ogni legame con la
divinità da parte dell’uomo, perché questo coinciderebbe semplicemente con
la distruzione della condizione umana, bensì caduta in una condizione in
cui le stesse identificazioni della sapienza divina – come è il caso
dell’idolatria e della divinazione – veicolano la possibilità di ritrovare
la via del vero, che nel corso del tempo prenderà una duplice forma,
quella pratica della coscienza giuridica, pienamente realizzata nella
storia del diritto romano, e quella speculativa del sapere metafisico
greco. In tal modo ciò che per la sua materia segna la distanza dal
vero (idolatria e divinazione), è anche ciò che permette per la sua
forma di ripercorrere il cammino all’inverso, almeno fino alla chiara
coscienza della dipendenza umana da una sapienza superiore trascendente.
In questo
tragitto della coscienza falsa verso la sapienza vera sono contenuti
compiutamente il senso antropologico e la legalità metafisica della storia
umana. Ciò che infatti il peccato originale ha prodotto è una sorta di
latenza del senso del vero metafisico e del vero pratico (giustizia),
che è paragonabile alla latenza delle nozioni prime che lo sviluppo
cognitivo porta alla luce. Come afferma la Scienza nuova prima,
«siccome in noi sono sepolti alcuni semi eterni di vero, che tratto tratto
dalla fanciullezza si van coltivando, finché con l’età e con le discipline
provengono in ischiaritissime cognizioni di scienze, così nel genere umano
per lo peccato furono sepolti i semi eterni del giusto, che tratto tratto
dalla fanciullezza del mondo, col più e più spiegarsi la mente umana sopra
la sua vera natura, si sono iti spiegando in massime dimostrate di
giustizia. Serbata sempre cotal differenza però: che ciò sia proceduto per
una via, distinta, nel popolo di Dio e per un’altra, ordinaria, nelle
gentili nazioni» (Vico, 1725 / 1971, p. 190)
(37).
Peccato e Provvidenza
La natura
umana corrotta porta dunque in sé la sua regola provvidenziale. Il senso
della Provvidenza “naturale” non è da cercare in qualche ordinamento
esteriore cui l’azione umana sia sottomessa, compromettendone le libertà,
ma - per così dire - in un dispositivo interiore, che anche nel caso
dell’abrutimento preserva l’uomo dalla rottura definitiva con il “vero
eterno”, ponendosi dunque come salvaguardia della libertà nei confronti
della sua possibile autodistruzione. La questione della Provvidenza,
infatti, fa tutt’uno in Vico con quella della “metafisica delle mente”,
come egli chiama nell’opera della maturità la relazione costitutiva della
mente al vero. Come illustra la famosa “Dipintura” della Scienza nuova
seconda, una luce proveniente dall’alto è la condizione di composizione e
di intelligibilità del mondo. È il raggio luminoso della sapienza
originaria, da cui ancora l’uomo è illuminato anche dopo il peccato
originale, perché senza di essa la sua umanità semplicemente
sprofonderebbe in modo irreversibile nelle tenebre dell’inumano.
Quel
dispositivo ha un nome: il “pudore”. Dio, infatti, che “semplicissimis
rationibus agit et regit cuncta” - dice il De constantia
iurisprudentis (Vico, 1721 / 1974, p. 405)
(38) in assonanza con Malebranche -,
prevedendo il peccato del progenitore e la corruzione della “generis
humani naturam”, con essa l’ottundimento della ragione a causa della “cupiditas”
e il prevalere dei sensi sulla mente, “hominem ita fabricarat ut pudore
afficeretur, qui universi iuris naturalis fons est”. Infatti a motivo
della perdita dell’originaria semplicità, cioè della “contemplatio veri
eterni ex mente pura”, “statim pudor successit” (Vico, 1721 /
1974, p. 361) e i due progenitori si riconobbero nudi
(39). Il pudore è insomma la
conservazione della relazione al vero eterno nella condizione postlapsaria
ovvero, nei termini dell’opera della maturità, il pudore è la forma
che la “metafisica della mente” e la sua comunicazione sapienziale
assumono dopo la caduta.
Dopo il
peccato, però, la sapienza non può più essere attinta nella forma della
“pura contemplazione”, bensì solo in quella che è concessa ad un uomo nel
quale la sensibilità prevale sulla ragione, rendendola impotente a
governare l’esistenza. Per questo si può dire che il pudore è una sorta di
sapienza dei sensi (esterni ed interni), che opera spontaneamente e
permette all’azione umana di non essere il puro risultato di una
reattività passiva e distruttiva
(40).
Il decadimento umano non coincide con la sua totale e irrecuperabile
alienazione, perché l’azione umana può ancora essere misurata da una certa
presenza della verità nei rapporti degli uomini. Il fatto che nel
Diritto Universale ricorra come sintagma fondamentale l’espressione «vis
veri», sta appunto ad indicare che, nell’impossibilità di un rapporto
dispiegato con il vero, questo fa sentire la sua esigenza e la sua
urgenza, cioè il vigore di una presenza latente ma attiva ed efficace
nella mente umana.
Il pudore è
definito da Vico in termini di pena inflitta da Dio all’uomo peccatore,
come «erroris seu malefacti conscientia, quae nihil aliud est nisi veri
ignorati pudor» (Vico, 1721 / 1974, p. 405)
(41). Questa definizione non intende
dire solo che dopo il peccato originale l’uomo ha coscienza, per quanto
vaga, di una sua condizione di colpevole ignoranza del vero, ma che questo
senso di inadeguatezza è anche condizione di possibilità dell’istituzione
di qualsiasi relazione, perché non permette all’uomo di operare con piena
e quindi ottusa adeguatezza a se stesso. Se l’uomo, infatti, non
avvertisse il disagio della sua inadeguatezza, continuerebbe a inseguire
la sua brama di soddisfazione immediata, la sua e-norme e spropositata
ricerca di autoaffermazione, che lo rende de-forme e simile ad una bestia
solitaria e feroce. Il senso del pudore, invece, introduce l’avvertenza di
una norma ed una proporzione ignorate dall’immediatezza pulsionale,
facendone sentire la mancanza colpevole. Ma è questa avvertenza che rende
possibile un’autentica iniziativa, perché, distaccando dall’immediatezza
della passione, apre lo spazio per la mediazione dell’azione. Il senso del
pudore, infatti, segna il passaggio dalla confusione alla relazione con il
mondo. La rappresentazione icastica di questo sarà data nella Scienza
nuova con la celeberrima immagine del bestione che per il timore
del tuono e del fulmine leva in alto lo sguardo, sospende la sua
esistenza randagia e selvaggia, consumata nell’attrattiva senza remore
del cibo e del sesso, e diventa capace di relazione con gli dèi, gli
uomini e le cose; inizia cioè ad avere mondo
(42).
Il pudore è
così la nozione centrale dell’antropologia vichiana, perché costituisce la
stessa forma umana dell’azione. Lo stesso Vico lo afferma, quando
scrive che pudore e libertà sono i due princìpi costitutivi della «humanitas»,
ma aggiunge che nel complesso antropologico il pudore ha funzione di
«forma» rispetto ad una «materia» rappresentata dalla stessa libertà: «forma
pudor, materies humanitatis libertas» (Vico, 1721 / 1974, p. 403). Il
pudore è così il principio attivo e formatore che sollecita e indirizza la
libertà
(43) e in tal modo la
riscatta dalla sua servitù ad una sensibilità ottenebrata e passionale. Si
può comprendere allora perché - come già si citava - il pudore sia
considerato da Vico come «universi iuris naturalis fons». In quanto
presiede all’apertura della «humanitas» come tale, ne è principio
formatore e condizione di mantenimento e di crescita, esso costituisce la
dimensione antropologica trascendentale, la condizione prima di
possibilità dell’agire umano in quanto umano e perciò la misura
assiologica dell’agire stesso: in forza del pudore l’uomo decaduto è
storicamente capace in senso proprio di azione e di relazione, in quanto
diventa capace di giustizia.
La coscienza
assiologica del pudore sta dunque a capo dell’intera antropologia storica.
Esso anima e orienta l’intera gamma dell’agire umano con l’introdurvi un
principio di mediazione oggettiva, che distanzia l’attività
umana dalla pura re-azione e le dà la forma autentica dell’azione (che è
per Vico sempre anche relazione e comunicazione). Questa idea è contenuta
nella tesi generale secondo cui, l’uomo essendo stato privato della «cognitio
veri ex mente pura», «substitutum est vero certum»
(Vico, 1721 / 1974, p. 361)
(44).
Alla chiara visione mentale del vero subentra il certo (anzitutto
sensibile) delle oggettivazioni pratiche, il cui statuto epistemologico
sta appunto in una disposizione delle cose e dei rapporti in virtù di un
senso che trascende l’immediatezza della reazione individuale.
In questa
prospettiva la prima oggettivazione del pudore è la religione. Alla
perdita della «pietas» originaria subentrò la «religio, quae est
numinis metus; et ideo metus est quia nos admonet numen laesisse»
(Vico, 1721 / 1974, p. 405)
(45).
Attraverso la mediazione delle forme religiose (miti, riti, cerimonie,
formule, oggetti e tutto l’apparato della sacralità) viene espressa ed
elaborata la consapevolezza del legame e insieme della distanza dalla
divinità, avvertita come imponente e minacciosa. Il pudore genera infatti
forme mediatrici che nascono dall’avvertenza di una relazione e insieme di
una distanza colpevole.
Ma come il
pudore è a fondamento della relazione religiosa, così è al principio
anche della relazione tra gli umani, che dal peccato sono resi
estranei e avversari gli uni degli altri. Il pudore rende possibili le
relazioni e gli scambi tra gli uomini, introducendovi la dimensione
morale, cioè la coscienza di una misura che non è a disposizione dei
singoli e che come tale ne sovrasta gli interessi. Il pudore avverte il
valore del «commune hominum iudicium»; «ex pudore – infatti
- est sensus communis reverentia», il pudore ispira il rispetto del
comune giudizio degli uomini e fa avvertire come pena l’ «infamia» per la
trasgressione.
A partire di
qui, cioè da una sensibilità morale ancora esteriormente determinata ma
non per questo inautentica, prendono forma gli abbozzi delle virtù morali
come la «temperantia» e la «iustitia», attraverso i costumi
rispettivamente della «frugalitas», della «probitas» e della
«promissi fides», della «dicti veritas» e della «alieni abstinentia»
(Vico, 1721 / 1974, p. 405)
(46). Su
questa base diventa possibile una trattazione comune dell’utile, cioè la
possibilità di fare permute e scambi in natura e di istituire e accettare
arbitrati in merito alla valutazione delle utilità in gioco, quali giudizi
secondo il criterio della «bona fides» (Idem, p. 419), che «pudore
plurimum constant» (Idem, p. 407)
(47).
Il pudore insomma introduce quella dimensione fiduciale nei rapporti, che
precede l’stituzione e la rende possibile.
Infine, il
pudore detta anche la regola dei costumi sessuali sottratti alla
spontaneità ferina: intimiditi dall’aspetto del cielo creduto un dio, «a
pudore tandem in statu exlegi admoniti, […] promiscuam venerem ferarum
ritu abhorruere» (Idem, p. 407)e con l’auspicio di qualche segno
celeste «certas sibi uxores in omne vitae consortium destinarunt»
(Idem). Questa fu la condizione fondamentale del passaggio dalla
condizione di «ignavi errones», vagabondi in cerca di cibo
all’istituzione del «certis sedibus […] consedere et occupatas
terras colere» (Idem) e, quindi, dell’inizio della vita sociale
stabile e della sua evoluzione storica dal regime delle famiglie, alle
genti maggiori e da queste alle repubbliche e agli imperi
(48).
Infine, oltre
che principio della relazione ai divini e agli umani, il pudore è anche
fondamento del rapporto al mondo delle cose. In quanto libera l’uomo
dalla pura soggezione allo stimolo del bisogno, il pudore apre anche lo
spazio per un interessamento conoscitivo al mondo e per una sua
manipolazione progettuale. «Curiositas» e «industria» sono
così i due atteggiamenti elementari che stanno a fondamento di ogni
civiltà. Infatti, afferma Vico (1721 / 1974, p. 409), «ignorati veri
pudor vim animi intendit quatenus menti imperat, ut in vestigando vero
pertendat donec habeat exploratum»: questa è la «curiositas»,
con cui il senso di un vero noto ma non ancora conosciuto stimola la mente
a ricercarlo e ad investigarlo. Analogamente, sul piano pratico, il pudore
dota l’uomo della industriosità, cioè della capacità di costruire, di
accostare secondo un ordine; «industria» - avverte Vico - viene da
«struere», come un accatastamento ordinato delle cose che ha
procurato agli uomini «omnia humanae vitae commoda» (Idem, p. 419)
(49).
In sintesi,
il pudore è quella «una naturalis et simplicissima via» con cui Dio
punì il peccato del progenitore («primi parentis peccatum plexit»),
ma in cui anche racchiuse tutto il diritto naturale («omne ius naturale
continuit»); è insomma la traccia normativa secondo cui l’uomo può
ritrovare la via della sapienza (civile). Infatti «[Deus] per natam ex
pudore vim animi […] bonas artes omnes in homine lapso eduxit, per
quas naturaliter sociatos sustinuit ac servavit» (Vico, 1721 / 1974,
p. 409): il pudore è la scaturigine della forza d’animo che permette
all’uomo di ristabilire una relazione di senso con i suoi simili e di
essere soggetto storico della sua opera civile
(50).
La divina
Provvidenza, dunque, agisce precisamente attraverso ciò che costituisce la
condizione improvvida dell’uomo. Ciò che di per sé condurrebbe alla rovina
l’umanità è occasione per la costruzione storica dell’umanità stessa. Vi è
dunque un «constans simplicissimus ordo», che «per ea ipsa, per
quae genus humanum in sui exitium erat ruiturum, tot vitae socialis
commodis quot fruimur, ditavit et auxit» (Idem). Questo costituisce
ciò che nella Scienza nuova seconda sarà chiamata «una
dimostrazione, pe così dire, di fatto istorico della Provvedenza» (Vico,
1744 / 1971, p. 465)
(51), cioè la
testimonianza di un paradosso storico che invoca la Provvidenza
antropologico-metafisica come unica ipotesi esplicativa. Se infatti la si
negasse, bisognerebbe anche ammettere che l’uomo è privo di quella
relazione al vero che lo trascende e dunque è totalmente consegnato
all’egoismo della ricerca della sua esclusiva utilità, come vorrebbero
Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza e Bayle, e con loro tutti quelli
che, pur da diverse posizioni filosofiche, convengono nell’affermare che
la società umana non è altro che prodotto e funzione dell’utile
soggettivamente percepito. Questo però - secondo Vico - significherebbe
attribuire la nascita e il mantenimento della società umana al «caecus
Casus» oppure alla «caeca Necessitas» (Vico, 1721 / 1974, p.
409). Ma nell’una né l’altra ipotesi sono adeguate a render conto del
fatto che ciò che l’uomo egoista ha instaurato e instaura continuamente è
un ordine intelligente (come sono lo spazio mercantile, l’«emporium»,
e l’iniziativa trasformatrice, l’«industria»), che supera le
intenzioni e le aspettative dei singoli. L’unica conclusione adeguata è
invece quella che, a partire dall’opera storica dell’uomo, afferma che la
«hominis natura» non è tale che «hominem homini lupus facit»,
bensì «illum aut illum hominem homini dictat Deum esse» (Idem, p. 411)
(52). Il prevalere del lato ferino
dell’uomo può sembrare una realistica descrizione della sua vita associata
e, invece, esibisce solo la condizione corrotta dell’uomo e ignora proprio
ciò che rende ragione degli effetti positivi del suo fare, quel principio
di conoscenza del vero che costituisce l’elemento divino nell’uomo ed
insieme il principio della comunicazione con i suoi simili.
Queste pagine
del Diritto Universale anticipano altre importanti e famose della
Scienza nuova in cui i temi sono ripresi senza modificare
l’impostazione fondamentale, ma anzi presupponendola sempre
(53). Vi sono comunque tre novità
che la Scienza nuova presenta nel trattare l’argomento. Anzitutto
l’elaborazione della “logica poetica” come mediazione antropologica del
rapporto sociale-mondano e una più consapevole trattazione del farsi
preterintenzionale della storia. Si tratta di due lati significativi
dell’analisi dei modi con cui opera la Provvidenza nel
regime storico dell’uomo decaduto. Rispetto al Diritto Universale,
infatti, il discorso vichiano ha acquisito l’idea della centralità
antropologica dell’ ”universale fantastico” e della logica
conoscitiva-affettiva che gli è connessa, così che quella “sapienza dei
sensi” di cui già si diceva acquista nella Scienza nuova un rilievo
inedito e riceve uno sviluppo di eccezionale importanza. Sul versante
della preterintenzionalità, invece, il Vico della maturità manifesta un
senso più dialettico dello svolgimento storico. Qui infatti il confronto
non è più limitato agli scettici e agli ateisti, ma si estende anche ai
giusnaturalisti e ai moralisti soprattutto di matrice giansenista, come un
Nicole, donde la nuova attenzione al tema dell’ “amor proprio” e alla sue
maschere. Di qui un senso accentuato del paradosso di divergenza e insieme
di funzionalità esistenti tra libertà umana individuale e legge
provvidente universale (cfr. Botturi, 1991).
La terza
novità è il tema del “senso comune” che sintetizza in modo inedito, benché
non discontinuo, i contenuti antropologici fondamentali in
cui si specifica il pudore nella sua funzione provvidenziale. La figura
del senso comune è uno e plurimo insieme, come plesso unitario e
universale di «tre sensi comuni del genere umano», da cui è costituita
l’«umanità» dell’uomo: «che vi sia provvedenza; […] che si facciano certi
figliuoli con certe donne […]; che si seppelliscano i morti» (Vico, 1725 /
1971, pp. 172-173), come recita una delle sue formulazioni
(54). «Religioni natie, nozze tra
loro e mortori nelle propie terre», osserva Vico, sono le tre cose che
«tutte le nazioni con somme cerimonie e ricercate solennità custodiscono»,
perché «questo è ‘l senso comune di tutto il genere umano: che sopra
questi tre costumi, più che in tutt’altri, stien ferme le nazioni,
acciocché non ricadano nello stato della bestial libertà; ché tutti e tre
son pervenuti da un certo rossore del cielo, de’ vivi e de’ defunti»
(Vico, 1725 / 1971, p. 305).
Ancora una volta e con bella sintesi Vico propone quale chiave di lettura
della storicità umana il pudore, come ciò in cui avviene la
mediazione tra la condizione decaduta e il senso del vero in rapporto alle
relazioni umane fondamentali. Il pudore è il luogo antropologico in
cui il peccato originale è assunto nell’ordine della provvidenza e quindi
contenuti umani essenziali come il senso dell’ignoto e il timore, la
sessualità e la generazione, l’occupazione della terra e la morte sono
trasformati in relazioni stabili e diventano oggetto di comunicazione.
Religione, matrimonio e rito funerario oggettivano il pudore e lo rendono
istituzione e garanzia dell’esistenza sociale e insieme criterio
ermeneutico del grado di civiltà di un popolo: quanto più salda è la
pratica del “senso comune”, tanto più elevata è l’humanitas; quanto
più è incerta o contraddetta, tanto più la città degli uomini è minacciata
dalla dissoluzione della “bestial libertà”.
Il peccato
originale ha così in Vico un fondamentale significato “politico”,
entro il quale il pudore gioca la funzione determinante del
discrimine tra l’incidenza del peccato originale come catastrofe
oppure come evento provvidenziale.
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Note
(1) Sul rapporto di storia sacra e storia profana in Vico negli studi
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roman “bestioni” and roman “eroi”. History
and theory,
VII, 3-23; Rossi, P. (1969). Le sterminate antichità:
studi vichiani. Pisa: Nistri-Listri; Rossi, P. (1979). I
segni del tempo: storia della terra e storia delle nazioni da
Hooke a Vico. Feltrinelli: Milano; Pastine, D. (1980). Teocrazia
e storia sacra in Kircher a Vico. Bollettino del Centro di
Studi Vichiani, X, 150-167; Bedani, G. (1989).
Vico
revisited: orthodoxy, naturalism and science in the ‘Scienza nuova’.
Oxford: Berg. Una più recente e specifica delineazione
del problema è di Porro (1992): Storia sacra e storia profana
in Vico.(volta)
(3) Sulla lettura delnociana di Vico mi permetto rinviare a Botturi,
1995. Vico nel pensiero di A. Del Noce. In AA.VV. A. Del Noce: il
problema della modernità. (pp.95-106). Roma: Studium.
(volta)
(4) Cfr. sull’argomento Corsano, A. (1937). Il pensiero religioso
italiano. Bari: Laterza, p. 127 e Corsano, A. (1949).
Interpretazioni cattoliche di Vico. Rivista di Filosofia, 3,
313-314.
(volta)
(5) Su De la Peyrère fa testo la monografia di R.H. Popkin, Isaac La
Peyrère (1594-1676: his life, his ideas and his influence. Leiden; New
York: Brill, 1987. L’opera di I. De la Peyrère è il tomo composto
dall’opuscolo Prae-Adamitae, sive Exercitatio super versibus XII, XII,
& XIV capitis quinti Epistulae D. Pauli ad Romanos e dal trattatello
Systema theologicum ex Prae-adamitarum Hypotesi: Pars Prima (cui
non seguì mai la seconda parte, anche a causa dell’abiura che l’Autore
fece delle sue tesi per porre fine alle persecuzioni inquisitoriali),
edito ad Amsterdam nel 1655.
(volta)
(6) Secondo R.H. Popkin (1989) l’opera del La Peyrère ebbe forte
influenza su Vico, addirittura costituisce - in conformità al parere anche
di Momigliano - un obettivo polemico fondamentale della sua opera
maggiore. La strategia di risposta di Vico starebbe nel far propria la
tesi della separazione tra storia ebraica e storia pagana, ma con un
significato opposto: quello di riconoscere la storia ebraica come l’unica
vera, sicura, documentata e perciò più antica a paradigmatica.(volta)
(7) De constantia iurisprudentis, II, 13.(volta)
(9) SN II, II, sez. II, 1.(volta)
(10) SN I, III, 5.(volta)
(11) SN I, V, 4.(volta)
(12) SN I, II, 12.(volta)
(13) Scrive Vico (1971, p. 519): «la superbia delle menti le porta
nell’ateismo, per cui gli atei divengono giganti di spirito» (SN
II, II, sez. 3).(volta)
(15) SN I, IV.(volta)
(16) SN I, I, 7.(volta)
(17) SN I, III, 19.(volta)
(18) SN II, “Annotazioni alla tavola cronologica”.(volta)
(19) SN II, I, 2.(volta)
(21) L’ultimo argomento politico è evidentemente una conferma a
posteriori dell’interpretazione vichiana dello “stato di natura” come
società delle famiglie (e non come condizione di individualità separata e
conflittuale secondo le teorie giusnaturalistiche di matrice hobbesiana).
Questo conferma l’importanza per Vico della “storia sacra” come storia
separata, ma anche paradigmatica delle forme autentiche della storia umana
postlapsaria. In generale, sostiene F.R. Marcus (1995, pp. 14-27), «gli
Ebrei – nel modello interpretativo vichiano – manifestano la natura dell’
“umanità”, funzionando da paradigmi di virtù morale, di giustizia
proporzionale e di pia saggezza».(volta)
(22) Sull’importanza del diluvio come oggetto di dibattito esegetico,
storico e scientifico (sua storicità, sue modalità, sua universalità)
nell’età vichiana cfr. Bligny (1973).(volta)
(23) SN I, II, 12. Cfr. SN I, V, 4, p. 308 (in
particolare sul gigantismo derivante da Caino).(volta)
(24) Non posso qui svolgere il tema, che implicherebbe ovviamente la
totalità della costruzione vichiana. Mi permetto rinviare a Botturi, F.
(1996). Tempo, linguaggio, azione. Lineamenti della vichiana ”storia
ideale eterna”. Napoli: Guida.(volta)
(25) SN I, I, 5.(volta)
(26) SN I, II, 3. Non entro qui in merito al ben fondato della
critica vichiana nei confronti dei tre giusnaturalisti; su questo già ho
svolto una certa indagine in Botturi (1991): La sapienza della storia:
GB Vico e la filosofia pratica, parte III.(volta)
(28) SN II, I, 4 “Del metodo”.(volta)
(29) De
constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)
(30) De
constantia iurisprudentis, I, 4.(volta)
(33) SN II, I, “Degli elementi”.(volta)
(34) SN I, 1.(volta)
(35) SN I, I.(volta)
(36) SN II, II, 1.(volta)
(37) SN I, II, 4.(volta)
(38) De
constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)
(39) De
constantia iurisprudentis, I, 4.(volta)
(40) Nella Scienza nuova diverrà del tutto chiaro, infatti, che
la forma gnoseologica originaria corrispondente al sentimento del pudore è
quella mitico-poetica, in cui vengono rappresentate gli “universali
fantastici” delle potenze divine superiori. Nel Diritto Universale
l’analisi del pudore non è ancora del tutto mediata dalla “logica
poetica”, ma questo non impedisce che il suo ampio dettaglio antropologico
resti implicito fondamento delle successive più sintetiche rielaborazioni.(volta)
(42) «[…] il cielo finalmente folgorò. Tuonò con folgori e tuoni
spaventosissimi […]. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più
robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti,
siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati
ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano le cagioni, alzarono gli
occhi e avvertorono il cielo» (SN II, II, se. I: Vico, 1744 / 1971,
pp. 476-477).(volta)
(43) De constantia iurisprudentis, II, 2. Sul tema della libertà
nel Diritto Universale cfr. Pasini, 1977: “Autorità” e “libertà”
in Vico.(volta)
(45) De constantia iurisprudentis, II, 3. Cfr. «natura autem
per Adae lapsum corrupta, pietati successit religio, quae proprie est
summi Numinis metus, et quidem ex conscientia reatus»; e ancora «ex
metu Numinis pietati, sive amori erga Deum, in natura integra, successerat
honor in corrupta» (I, 4: Vico, 1721 / 1974, p. 359). Donde la
relativa verità secondo Vico del lucreziano: primos in orbe deos fecit
timor e l’iniziale risposta vichiana alla tesi libertina dell’origine
della religione dalla paura.(volta)
(46) De
constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)
(47) De contantia
iurisprudentis, II, 5, p. 419 e II, 3, p. 407.(volta)
(50) De constantia iurisprudentis, II, 3.(volta)
(51) SN II, I, se. IV.(volta)
(52) De constantia iurisprudentis, II, 3, pp. 409 e 411.(volta)
(54) SN I, IV.(volta)
Nota
al
riguardo dell’autore
Francesco
Botturi
è professore oridinario di Antropologia Filosófica presso la Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Italia. È
Visiting
Professor
presso la Facoltà teologica di Lugano, Svizzera. Contatto:
francesco.botturi@mi.unicatt.it
Data de recebimento: 08/04/2003
Data de aceite: 19/09/2003
Memorandum 5, out/2003
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP. http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos05/botturi01.htm