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I Sacri Monti e la cultura
religiosa e artistica della Controriforma
The
Sacri Monti and the religious and artistic culture of
Counter-Reformation
Danilo
Zardin
Università Cattolica del Sacro Cuore
Italia
Riassunto
L'
articolo riguarda i Sacri Monti, fenomeno sigificativo
della cultura religiosa e artistica della Controriforma,
specialmente interessata alla drammatizzazione affettiva
della pietà cristiana, rispondendo alla finalità di
legare il messaggio cristiano ed i suoi contenuti
dottrinali, a modalità di ricezione, sperimentabili,
visibili e concrete. In tal modo, si soddisfa l'esigenza
di realismo e di immedesimazione già presente nella
religiosità tardo-medievale. L'articolo pone in evidenza
il contributo di importanti opere dell'epoca la cui
lettura permette una migliore comprensione del processo,
tali come il modello meditativo della compositio loci
proposto negli Esercizi Spirituali di Loyola ed i trattati
di Carlo Borromeo. L'ipotesi dell'articolo è contraria
alla tesi storiografica tradizionale ed afferma che i
Sacri Monti sorsero non tanto come forma di arte
controriformista finalizzata alla lotta contro il
protestantismo, quanto come espressioni di un modello
devozionale mimetico e rappresentativo, che mobilizza il
dinamismo psichico dei destinatari, per raggiungere
attraverso di esso il dinamismo propriamente spirituale.
Parole
chiave:
Sacri
Monti; arte e religione; immagine e spiritualità |
Abstract
Study
on the importance of “Sacri Monti” (sacred
mounts) in religious and artistic culture during
Counter-Reformation, emphasizing the affective
dramatization of religious piety, through the exigency
of linking the Christian message, and its
experienceable modalities, with visibility and the
concrete meaning of doctrinal contents. In this way,
it answers the exigency of realism and identification
already present in late medieval religiosity. It is
shown the importance of some works that were reference
in the period, such as the meditative model of compositio
loci proposed by Loyola in his Spiritual
Exercises, and the treaties of Carlo Borromeo. The
proposed hypothesis is - going against traditional
historiographical thesis - that the Sacred Mounts
appeared not so much as Counter-Reformist art turned
against Protestantism, but as expressions of a mimetic
and representative devotional model, which mobilizes
psychological dynamisms of those to which it was
destined, in order to reach the spiritual level.
Keywords:
sacred
mounts; art and religion; image and spirituality |
Nell’Italia
del nord, ai confini con i bastioni montuosi che la delimitavano e allo
stesso tempo la mettevano in collegamento con il resto dell’Europa, la
costruzione della cintura dei Sacri Monti conobbe la sua punta più alta
di vivacità tra Cinque e Seicento, nel cuore della stagione della
Controriforma. Ma sarebbe fuorviante immaginarla come il frutto esclusivo
di questa fase avanzata della riorganizzazione istituzionale e del
rilancio missionario della presenza cattolica all’interno della società.
Semplici ragioni di cronologia impongono di riconoscere che le radici
religiose e artistiche della spinta a tradurre la rappresentazione di temi
e «luoghi» fondamentali della proposta religiosa cristiana in un
impianto monumentale visitabile con l’esercizio devoto del
pellegrinaggio sono ben più antiche e complesse. Affondano in un terreno
che ha preceduto almeno di un secolo l’avvio del cattolicesimo moderno
“reinterpretato” dal concilio di Trento e dagli oppositori più tenaci
di Lutero e Calvino. Inoltre appare sempre più unilaterale l’idea che
vede la tessitura della rete dei Sacri Monti solo come una manovra di
arroccamento difensivo, tesa a rinchiudere nella morsa di una barriera
impenetrabile le terre della cattolicità romana esposte ai rischi di
contagio delle nuove teologie delle Chiese indipendenti sorte a nord delle
Alpi. Dietro questa contrapposizione dei due blocchi in lotta fra loro
continua a perpetuarsi la vecchia tesi polemica della Controriforma
ridotta a grande piano di restaurazione per il recupero del terreno
perduto, affidato al giro di vite della repressione e dell’imposizione
disciplinare, quando non alla forza sostenuta dalla massa d’urto degli
eserciti e dei poteri secolari. È una lettura datata, che pone al centro
di tutta la scena del cristianesimo moderno la frattura, e dunque lo
scontro confessionale innescato dalla Riforma protestante. E che di
conseguenza relega nell’ombra tutto il resto: le opposte ragioni dei
contendenti che si misuravano per la difesa delle loro posizioni e della
loro verità sul suolo del continente europeo, in primo luogo le autonome
pulsioni creative di tutti i fenomeni di rinnovamento germogliati dal
risveglio religioso dell’epoca, al sud come al nord della cristianità,
già prima e a prescindere dalla spaccatura cinquecentesca intorno alla
fede e alle opere o ai modi migliori secondo cui rimediare agli abusi. La
logica dell’affermazione di nuovi valori e di nuovi ideali dovrebbe
essere anteposta alla condanna degli errori e delle deviazioni altrui e
alle dure asprezze della battaglia contro i propri nemici. Più che dalla
volontà di innalzare una muraglia contro la minaccia delle nuove eresie,
anche la progressiva fioritura del paesaggio artistico dei Sacri Monti è
stata alimentata dal bisogno di inaugurare nuovi scenari privilegiati per
entrare in rapporto con il messaggio fondante di una tradizione religiosa
bisognosa di rilanciare la sua capacità di presa sul popolo dei fedeli.
Non ha molto senso, è vero, fare una storia basata su ipotesi. Ma vi sono
buoni motivi di credere che se anche, per assurdo, la ferita dello scontro
con la Riforma transalpina non fosse stata aperta, la marcia di espansione
verso l’ampliamento dei Sacri Monti sarebbe ugualmente continuata lungo
binari già in precedenza tracciati, forse solo rallentando il suo ritmo o
riducendo entro confini più modesti la larghezza dei suoi esiti
cronologicamente più avanzati.
Risalendo
all’indietro nel tempo, le premesse cui può essere ricondotta la
fortuna del modello artistico-religioso dei Sacri Monti vanno individuate
in quella svolta nel senso della drammatizzazione affettiva che molteplici
segnali consentono di fissare come tendenza dominante degli sviluppi della
pietà tardomedievale e rinascimentale. Un tornante decisivo sarebbe in
questo quadro rappresentato dal Quattrocento. Ma le innovazioni che allora
si registrarono non fecero che portare a piena maturazione tendenze che già
nelle fasi immediatamente precedenti affiorano da diversi indizi: ogni
presunzione di datazioni troppo raffinate deve probabilmente essere
lasciata cadere quando si misurano le grandi metamorfosi dei panorami
religiosi collettivi, sui quali è largamente frammentaria la stessa
documentazione indispensabile di supporto.
L’esigenza
che andò allora affermandosi come decisiva era quella di legare la
proposta del messaggio cristiano e i modi di farne esperienza alla
incentivazione della visibilità e della concretezza umana dei suoi
contenuti. Il bisogno di realismo e di immedesimazione si erano certamente
fatti strada già nella più viva sensibilità religiosa della tradizione
monastica medievale. Gli ordini mendicanti, fin dalla loro prima ondata di
diffusione, in modo particolare nella fiorente versione francescana,
avevano dilatato in una estesa cerchia sociale la ricerca di una
umanizzazione dell’approccio ai nuclei dottrinali della catechesi, della
vita liturgica e della credenza collettiva. Dal cielo della teologia e
delle summae di morale la
predicazione ecclesiastica doveva trovare i sentieri più adeguati per
travasarsi in una concatenazione di storie esemplari disposte in forma di
racconto, ancorate a modelli ideali assumibili come specchi di
identificazione, nel solco di una tessitura di scene e di situazioni in
cui calarsi come attori per rendere di nuovo mobilitante il richiamo alle
virtù del sentimento e della pietà, a partire dalla via maestra del
com-patire, del rivivere in prima persona l’esperienza paradigmatica,
fondatrice della propria identità di individui credenti, di chi era stato
testimone dell’avventura redentrice del Salvatore e dei grandi santi che
ne avevano ricalcato le orme nel tempo della storia. A questa
intensificazione delle leve del movere rispondeva una omiletica che, per farsi sempre più
‘popolare’ e incisiva, non esitava a rivestirsi di forme largamente
teatralizzate e patetiche, che miravano a «pungere» le vene più
delicate della fantasia emotiva delle folle di fedeli. Dalle parole, il
passaggio all’azione mimetica e alla identificazione sentimentale, in
chiave di esperienza compartecipata dall’individuo, era quanto mai
agevolato. La rievocazione degli eventi centrali della storia della
salvezza si strutturava in una griglia di ‘quadri’ ricostruiti ognuno
nella sua densità narrativa, su cui si modellava un procedimento di
fissazione analitica dei dettagli denotativi: ambientazione fisica,
personaggi coinvolti, suoni, colori, gesti, movimenti. La loro traccia
suggestiva era subito sfruttabile per la ricomposizione immaginaria delle
scene additate come sfondo ideale di accensione della preghiera mentale e
della meditazione, secondo il metodo trasmesso da una florida letteratura
edificante, passata senza nessuna cesura dalla cultura manoscritta
all’età della trasmissione tipografica dei testi. La comparsa della
stampa, alla metà del Quattrocento, agì, anzi, come un potente fattore
di incremento nei circuiti di diffusione dei manuali che agevolavano
l’accesso delle conventicole devote e delle cerchie di monache e di
religiosi ai fatti della vita di Cristo e della Vergine, alle imprese
eroiche dei santi, ai prodigi stupefacenti dei loro miracoli. Le Meditazioni
della vita di Cristo, attribuite popolarmente a san Bonaventura, si
stagliano come uno degli esiti di più vasto successo entro questi filoni
di sussidio della pietà tardomedievale e moderna fondata sulla
rappresentazione realistica della storia sacra. La scrittura religiosa
mirava qui direttamente a ricreare, a far ‘percepire’, cioè a far
risaltare proprio visivamente,
‘performativamente’, i
contenuti della vicenda narrata, trascinando il lettore/ascoltatore nella
sequela del ricalco imitativo. In diversi casi, l’enfatizzazione di un
coinvolgimento favorito nei suoi codici anche più materialmente
‘sensibili’ non esitava a palesare in modo molto marcato la sua
valenza didascalica. Il testo devoto si disponeva sul registro del
colloquio con il «tu» del principiante da istruire, e da qui puntava a
dirigere il comportamento religioso dell’individuo. Il metodo
privilegiato che troviamo suggerito per alimentare la forza evocativa
della visualizzazione era quello del ricorso alla compositio loci mediante lo sfruttamento intensivo del patrimonio
delle immagini familiari. Il remoto e l’estraneo dovevano riprendere
vita calandosi nei lineamenti del più noto e vicino. È quanto
prescriveva con abbondanza copiosa di esemplificazioni, che sono ormai
divenute canoniche per tutta la letteratura critica dedicata ai modelli di
orazione mentale e ai rapporti fra testi religiosi e produzione figurativa
dell’Italia della prima età moderna, il Giardino
di orazione, redatto, a quanto pare, nel 1454 e più volte passato
sotto i torchi dei centri editoriali della penisola fino al Cinquecento
inoltrato:
La
quale istoria [della passione] aciò che tu meglio la possi imprimere nela
mente, e più facilmente ogni acto de essa ti si reduca alla memoria, ti
serà utile e bisogno che ti formi nela mente lochi e persone. Come una
citade, la quale sia la citade de Ierusalem, pigliando una citade la quale
ti sia bene pratica. Nela quale citade tu trovi li lochi principali neli
quali forono exercitati tutti li acti dela passione: come è uno palacio
nel quale sia el cenaculo dove Cristo fece la cena con li discipuli.
Ancora la casa de Anna e la casa de Cayfas dove sia il loco dove fu menato
la nocte miser Iesù. E la stanzia dove fu menato dinanti da Cayfas, e lui
deriso e beffato. Anche il pretorio de Pilato dove li parlava con li
iudei: e in esso la stanzia dove fu ligato misser Iesù alla colonna.
Anche el loco del monte de Calvario, dove esso fu posto in croce, e altri
simili lochi. […] Ancora è di bisogno che ti formi nela mente alcune
persone, le quali tu abbi pratiche e note, le quale tute representino
quelle persone che principalmente intervenero de essa passione: come è la
persona de misser Iesù, della nostra Madonna, sancto Pietro, sancto
Ioanne Evangelista, sancta Maria Magdalena, Anna, Cayfas, Pilato, Iuda, e
altri simili, li quali tutti formarai nela mente. Così adunque avendo
formate tutte queste cose nela mente, sì che quivi sia posta tutta la
fantasia, entrarai nel cubicolo tuo e sola e solitaria discaciando ogni
altro pensiero esteriore incominciarai a pensare il principio di essa
passione. Incominciando come esso misser Iesù vene in Ierusalem sopra
l’asino. E amorosamente tu trascorrendo ogni acto pensarai faciando
dimora sopra ogni acto e passo, e se tu sentirai alcuna divozione in
alcuno passo ivi ti ferma: e non passare più oltra fino che dura quella
dolcecia e divozione (Baxandall, 1978, pp. 57-58).
(Cf.
Gentile, 1999; Guazzoni, 1984; Guazzoni, 1981)
(1).
La materia dell’esercitazione devota poteva
essere prelevata dalla guida dei testi scritti. Ma era così caricata di
pathos ed emotivamente impegnativa da tendere inevitabilmente a trabordare
al di là di una semplice operazione di lettura delle pagine dei libri. Si
può anche capovolgere il rapporto, e dire che i manuali di devozione
tre-quattrocenteschi non facevano che reificare nel dettato di una
proposta normativa uno stile di approccio alla sfera religiosa totalmente
immerso nel clima tipico della pietà che dominava la società
dell’epoca. Il suo vertice era l’immedesimazione del credente con il
contenuto centrale della fede cristiana, modulata sulle corde di
linguaggio dell’affettività più spontanea e coinvolgente. Il bisogno
di riprodurre attraverso la concreta e il più possibile diretta
riattualizzazione visiva la realtà dei misteri fondanti del messaggio di
salvezza era la molla su cui si giocava la parallela dilatazione dei riti
paraliturgici del culto collettivo, incentrati in particolare sulle
funzioni della settimana santa e sulla festa-cardine del Corpus Domini.
Quest’ultima era di per sé un’innovazione, trionfalmente enfatizzata
nel suo rilievo a partire dalla sanzione papale, nel 1264, della sua
centralità nella vita della Chiesa universale.
Sul finire del Medioevo in ogni
contrada della cristianità, quindi anche nelle terre del nord Italia, si
ampliò l’esigenza di tradurre la memoria dei fatti storici della
redenzione e la celebrazione della continuità della presenza del corpo di
Cristo nella comunità dei suoi fedeli legandole alla predisposizione di
una rete di segni fisicamente ostensibili e da tutti decifrabili nella
loro esplicita evidenza letterale, più di quanto potesse consentire il
puro formulario del cerimoniale nella dotta lingua latina. Si rinnovava il
rito della lavanda dei piedi il giovedì santo. Il venerdì santo Cristo
poteva essere effettivamente deposto dalla croce innalzata nelle chiese,
anche sfruttando l’efficacia scenica di statue lignee opportunamente
snodate. Il simulacro del suo corpo piagato, più ancora che il suo
simbolo incarnato dalle specie eucaristiche, era poi ricoverato nel
sepolcro, con tutta una scorta adeguata di lamentazioni e di canti
religiosi anche in volgare, non di rado drammatizzati dalla mescolanza
delle voci assegnate ai diversi protagonisti della vicenda dolorosa della
passione. Molte confraternite di laici, allora in via di continua
espansione nel corpo della società cristiana, così come avveniva nelle
cerchie degli ordini religiosi più attivamente impegnati nel servizio
pastorale alla collettività dei fedeli, presero l’abitudine di
trasportare anche all’esterno degli edifici sacri le rappresentazioni
del Cristo crocifisso, che tendevano a loro volta ad accentuare i tratti
della loro inquietante tragicità, con effetti di potente stimolo sullo
sviluppo del fervore. Il desiderio di una pubblica esaltazione della
fecondità risanatrice delle sofferenze patite dal Figlio di Dio spingeva
a dare vita ad elaborate scenografie itineranti, in cui venivano fatti
sfilare per le strade e le piazze dei centri abitati le statue di Cristo,
la figura pietosa della Madonna dolente e gli altri protagonisti di primo
piano della storia ricamata intorno al dettato dei racconti evangelici. O
ancora si cercava di far rivivere il ricordo dei momenti centrali della
passione servendosi di gruppi plastici trasportati a spalla o su carri,
che ne fissavano la memoria in una ‘icona’ immediatamente eloquente,
quando non erano individui in carne ed ossa che si facevano attori di una
compiuta ripresentazione della storia sacra della redenzione, scandita
nelle sue canoniche tappe salienti: bastava distribuirle con ordine nei
diversi punti toccati dal corteo processionale dei fedeli, lungo il suo
snodarsi sui passi di una via crucis ogni volta coralmente rinnovata. I cortei e le
drammatizzazioni scenografiche della settimana santa si sono perpetuati
fin nel cuore dell’età moderna. L’apporto iberico e l’entusiasmo
popolare della religiosità mediterranea vi innestarono la sontuosa
spettacolarità dei riti cittadini dell’«Entierro» e della Vergine
Desolata, con le statue di Cristo morto e di Maria fatte incontrare sulla
pubblica piazza per dare vita a un compianto elevato nella sua potenza
figurativa e di ineguagliabile impatto. Le compagnie di flagellanti
trasformarono molti di questi rituali collettivi chiamando a raccolta le
loro schiere di incappucciati salmodianti, pronti a battersi senza
risparmio per risarcire le violenze inflitte alle carni del Salvatore e
impetrarne il generoso soccorso protettivo. Ma quello che per ora preme
mettere in evidenza è che questi nuclei fondamentali della memoria
liturgica della redenzione hanno costituito la materia intorno a cui si è
annodata la tradizione del teatro religioso aperto alla pubblica fruizione
dei fedeli: sacre rappresentazioni, «misteri», autos
sacramentales, che dalle chiese e dagli spazi dei conventi potevano
giungere a invadere la scena totale della città, e che proprio nella
festa annuale del Corpus Domini trovarono un secondo puntello privilegiato
per lanciare il loro richiamo su una cerchia inevitabilmente molto vasta
di popolazione, a cominciare dai suoi ceti e dai suoi corpi istituzionali
di rango più elevato (Bernardi, 1991, 2003a, 2003b, 2004).
Proprio
il Quattrocento, alla vigilia del primo decollo significativo del progetto
di allestimento dei Sacri Monti in Italia settentrionale, rappresenta una
fase cruciale nell’affermazione degli usi artistici della
rappresentazione teatralizzata dei misteri della dottrina cristiana, sulla
base di testi drammatici almeno in parte riversabili in musica. Sullo
sfondo di quanto stiamo descrivendo vi è sempre da tenere presente,
infatti, l’altro filone cospicuo costituito dalla sedimentazione delle
tecniche esecutive e dell’ingente patrimonio testuale del canto
religioso in lingua volgare, che trovava la sua espressione più
sintomatica nelle laudi. Già dal Due-Trecento (Jacopone è solo il caso
letterariamente più rilevante) ordini religiosi e confraternite laicali
avevano messo in circolazione, si trasmettevano a vicenda da un luogo
all’altro e continuamente rielaboravano tessiture di versi (con relativo
repertorio di ritmi musicali) che avevano i loro punti di forza nella
rievocazione intensamente drammatizzata dei momenti ‘topici’ della
redenzione culminata nel sacrificio della croce: il Cristo «insanguinato»,
Maria «dolente», i compagni fedeli rimasti a vegliare nella desolazione
del Golgota, le attenzioni delicate e amorevoli della deposizione, lo
strazio del compianto, le lacrime e lo stordimento capovolti nel trionfo
finale della resurrezione, acme della manifestazione della potenza divina,
tanto sorprendente quanto difficile da accettare al primo propagarsi della
sua notizia. Su questi fulcri dominanti si imperniavano melodie che
coinvolgevano in prima persona l’io partecipe del devoto che le
eseguiva, o anche soltanto assisteva all’esibizione ritualizzata del
canto. Dalla rivisitazione commossa della storia della salvezza
scaturivano immediatamente invocazioni, suppliche, preghiere, richieste di
grazie e di perdono. Si ripercorrevano su un registro di alta tensione
emotiva i passaggi cruciali del gioco di rapporti fra l’uomo e Dio,
disegnando situazioni e atteggiamenti del cuore che tendevano
inesorabilmente a forzare la strada verso la loro riattualizzazione,
inseguendo – di nuovo – una corposa e assorbente visibilità
che chiamava ad agire, a mettersi in movimento, a rispondere
all’appello devoto con la carica del proprio sentimento e tutta la
propria energia volitiva. Come già da altri è stato richiamato in
termini toccanti, si può citare l’esempio emblematico di un «mistero»
della fine del Quattrocento, dove alla voce recitante del prologo è
affidato il compito di prospettare l’altezza vertiginosa del dramma
messo in scena nel momento in cui ci si inoltrava nella tragedia umana
della passione di Cristo: «Si tu non piangi quando questo vedi,
non so se a Yesu Cristo vero credi». L’esortazione si specifica subito
dopo invitando a manifestare con segni di compartecipazione anche
esteriore la propria adesione affettiva al contenuto religioso
rappresentato: «Quando el vedrete poi
levar di croce, ciascuno divotamente alzi le mani rendendo grazie a Dio
cola sua voce». Entrati nel vivo dell’azione, è la Madonna stessa a
ripetere l’invito alla mobilitazione del cuore durante la conclamatio
ai piedi della croce, nell’abbraccio corale del lamento per la morte del
Salvatore: «Omini e donne, voi non siate lenti alo gran pianto, or me
accompagniate […] essendo qui in croce morto il vostro creatore, ciascun
pianga e strida con dolore» (Verdon, 2001, pp. 192-193) (2).
Il
momento spettacolare della sacra rappresentazione poteva spingere al
culmine i meccanismi di identificazione, nella cornice di un orizzonte di
attesa reso elettrico dallo stringersi solidale di un pubblico altamente
ricettivo e disponibile. Ma i medesimi effetti di coinvolgimento erano
perseguiti dalla letteratura edificante in prosa e con immediatezza ancora
più aggressiva dalla poesia religiosa. Una Vita
di Cristo che si conserva manoscritta a Firenze, dopo essersi diffusa
nella rievocazione delle sofferenze inflitte all’Uomo dei dolori, non
esita a sentenziare: «Ben se può reputar aver el core de pietra colui
che a questo passo non ha compassione al suo Signore o per pianto o per
altri segni». E in un Pianto della Vergine sempre fiorentino, è ancora il gruppo degli
astanti nella sua totalità, come nel «mistero» drammatico sopra citato,
ad essere chiamato a corrispondere all’intensità straziante della scena
messa sotto gli occhi di chi sentiva declamare in pubblico, o anche solo
leggeva il testo devoto: «Pianga ciascuno che giusto si trova, sicché
ciascuno al lagrimar si mova» (Idem, p. 193). Numerose altre citazioni si
potrebbero allineare in fitta schiera setacciando dai testi lirici delle
laudi in lingua volgare, del tutto coerenti con le tradizioni contigue
della scrittura religiosa del tempo. Dai laudari manoscritti e dai
preziosi libri decorati di miniature delle confraternite, i testi poetici
in volgare, come avveniva con le «istorie» e i «dialoghi» delle sacre
rappresentazioni e dei drammi religiosi, finirono capillarmente divulgati
tramite libri e opuscoli a stampa, anche di poche carte e basso costo, che
portavano il loro messaggio a contatto di una folla ingigantita di
fruitori. Dallo spazio ecclesiastico e conventuale, soprattutto attraverso
il canale dei nuovi lettori di condizione laica, il canto, la catechesi e
l’apprendistato devozionale, ormai affidati al potente veicolo
moltiplicatore dei torchi, conquistarono il mondo dei fedeli anche di
modesta cultura con una intensità passata poi senza smentite al secolo
della «riforma cattolica». Era difficile non rimanere folgorati da
proclami fulminanti come quelli lanciati dai testi più appassionati
dell’antico laudario di Cortona. «De la crudel morte de Cristo /
on’om pianga amaramente!»: così vi si introduceva a una meticolosa
ricostruzione descrittiva, essa stessa finemente teatralizzata, della
passione di Cristo (3).
Oppure, per citare solo qualche altro esempio: «Ben è crudele e spietoso
/ ki non si move a gran dolore / de la pena del Salvatore, / che di noi fo
sì amoroso!»; «Plangiamo quel crudel basciare / ke fe’ per noi Deo
cruciare» (dove si prende ugualmente avvio dal tradimento di Giuda e si
seguono i primi passi della passione di Cristo fino all’incontro con
Pilato e Erode). Con le continue aggiunte consentite dall’evolversi del
panorama religioso collettivo, infinite variazioni su questi indirizzi di
fondo del caldo registro espressivo della poesia (e del canto) religioso
nella lingua d’uso comune si accumularono nel tempo e giunsero poi a
riversarsi nelle raccolte di «devotissime composizioni» e nei libri a
stampa di rime sacre dell’età degli incunaboli e del primo Cinquecento.
In un solco sempre segnato dalla suggestione dei primitivi modelli
medievali si muoveva ancora la Lauda
del corpo di Cristo attribuita a Feo Belcari, messa in circolo dalle
più antiche edizioni fiorentine di laudi in epoca rinascimentale: «Tu
se’l mio Dio, che mi ricomperasti / in su la croce con amare pene; /
amor, con tue catene / legami sì, ch’io non t’abbi in oblio. / Legami
sì, ch’io t’ami sempre e laudi, / con quella carità che più ti
piace» (Zardin, 2001, p. 237).
Testi
religiosi e manuali di meditazione, teatro liturgico, testi di sacre
rappresentazioni, laudi musicali, poesie devote: abbiamo distinto questi
diversi filoni espressivi della religiosità collettiva del tardo Medioevo
e della prima età moderna, ma bisogna tenere presente che nella realtà
del suo funzionamento erano gli incroci e le sovrapposizioni a prevalere.
L’approccio all’espressione religiosa era sempre sincretico, tendeva a
coinvolgere la totalità delle risorse percettive e comunicative degli
individui. I testi devoti in forma poetica si potevano leggere e nel
medesimo tempo cantare. Il canto accompagnava i riti di ogni genere e si
incuneava nelle rappresentazioni di tipo scenografico o già compiutamente
teatrali. Ma le sacre rappresentazioni, a loro volta, erano basate su
canovacci testuali che circolavano e si potevano accostare anche come
semplici testi di lettura devota, oltre che usare per ricavarne spunti che
potevano essere ripresi dai creatori di iconografia religiosa, con i
materiali e nei contesti più diversificati (Verdon, 2001) (4).
Scritte religiose e laudi in volgare erano anche offerte alla pubblica
ostensione sotto forma di messaggi murali a contorno di rappresentazioni
figurative che sottolineavano un comune tema devozionale, legato per
esempio alla memoria della catena di avvenimenti della passione di Cristo.
L’effetto che ne derivava era quello del potenziamento reciproco: dal
testo scritto in rapporto all’immagine rammemorativa, e dall’icona da
contemplare verso l’esercizio della preghiera rituale e della
meditazione opportunamente regolate (5).
Tutte queste intersezioni nella fruizione dei messaggi proposti ai diversi
tipi di pubblico restavano sempre accomunate dall’ancoraggio alla
rappresentazione realistica del tema sacro, visualizzato in modo
intensivo, reso percepibile sensibilmente e dinamicamente, che sollecitava
una risposta da parte degli attori umani. La spinta fondamentale era nella
direzione della messa a fuoco visiva, e questo spiega come mai tutta la
produzione di testi, di simboli e di riti che abbiamo evocato aveva come
esito inevitabile quello di premere per agganciarsi al supporto persuasivo
delle immagini. La parola religiosa, sia quando si riversava incandescente
dai pulpiti o dalla bocca dei figuranti del teatro devoto, sia al momento
di fissarsi nello specchio della scrittura, tendeva a confluire
nell’impianto di una scenografia suggestiva, tracciava i paesaggi
fantastici a cui si applicavano gli scatti di fervore della memoria
cristiana, e perciò continuamente rimandava ai segni figurativi che erano
l’anima di sostegno del suo modello di pietà. La produzione di questi
segni, dal canto suo, inseguiva l’alleanza della parola articolata per
dispiegare più compiutamente il loro messaggio e la loro capacità di
presa sull’individuo. Parole e immagini si ricercavano e si completavano
a vicenda. E ciò definisce bene il quadro in cui si colloca la
lussureggiante proliferazione del realismo nel campo della
rappresentazione artistica del tema religioso a cui si assiste nel mondo
del tardo Medioevo, nello stesso momento in cui decollano i rituali della
liturgia spettacolarizzata, si allestisce il teatro religioso di piazza e
si affina il metodo meditativo della «composizione di luogo» (Rossi,
1999, 2003).
La
sensibilità effervescente dei canti e delle preghiere intonati dalle
confraternite popolari è la stessa che ha ispirato la moltiplicazione dei
gruppi plastici policromi, improntati alla ricerca di un patetismo
d’effetto, dei «mortori», dei «calvari», delle deposizioni, dei
compianti di Cristo che presero allora a disseminarsi ai lati delle chiese
dei grandi centri urbani e di località anche secondarie di una vasta
parte di tutta l’Italia settentrionale. Era un’arte che portava alle
estreme conseguenze il bisogno di riprodurre visivamente e di porre
implacabilmente sotto gli occhi dei fedeli l’immagine delle sofferenze
redentrici della passione. Nella resa il più possibile realistica della
tragedia che aveva fatto scaturire il frutto della salvezza si distinsero
nel secondo Quattrocento Guido Mazzoni di Modena e Niccolò dell’Arca,
attivo soprattutto a Bologna. Le loro composizioni statuarie, come voleva
la tradizione del ‘genere’, riunivano figure a grandezza naturale
ritratte in atteggiamenti fortemente caricati gestualmente. Presso
l’ospedale di Santa Maria della Vita di Bologna, Niccolò dell’Arca
darà forma, intorno al cadavere di Cristo deposto dalla croce, a un coro
di Marie dolenti fino all’intensità dell’urlo: sono le «Marie
sterminatamente piangenti» che impressionavano ancora i visitatori del
Seicento barocco (la citazione è dal Malvasia), «figure uniche in tutta
la storia dell’arte cristiana – le ha definite di recente Timothy
Verdon – per la disperata forza emotiva che le anima» (Verdon, 2001, p.
193). (Cf. Agostini e Ciammitti, 1989) (6).
Per
opera anche di altri abili intagliatori raggiunti da reiterate e diffuse
commissioni fino a tutta la prima metà del Cinquecento, le riproduzioni
della scena culminante della compassione rivolta al corpo sofferente di
Cristo si diffusero a macchia d’olio nello spazio dell’Italia padana
(e non solo). Nelle terre lombardo-piemontesi diedero larga prova delle
loro capacità artisti solo a torto trascurabili in quanto ‘minori’,
come Andrea da Milano (o da Saronno), Pietro Bussolo, i fratelli De
Donati, Giacomo, Giovanni Angelo e Tiburzio Del Maino (Casciaro, 2000). La
loro statuaria devota si incastonava negli scomparti delle ancone
d’altare. Dalle nicchie di questi apparati non di rado monumentali
scendeva a decorare le pareti dei luoghi di culto. O ancora si raggruppava
in scene teatralizzate della storia sacra, allestite per istruire e
ammonire i fedeli materializzando davanti a loro i contenuti intorno a cui
ruotava la pietà nutrita dall’insegnamento dei maestri di religione.
Era una proposta di immagini che rimandavano a una realtà vera e
stringente per tutti, capace di suscitare una adesione spontanea e
simpatetica, esternabile negli atti tipici del cordoglio e della
condivisione amorosa. Ma l’espediente della riproduzione realistica non
si fermava alla scena-madre del sacrificio offerto per il risanamento del
male del mondo. Poteva proiettarsi in direzioni molteplici per abbracciare
l’intero arco della vicenda salvifica della passione: dall’ultima cena
e dalla figura della Vergine dolorosa, fino all’uscita vittoriosa dalla
prigione del sepolcro e al trionfo della resurrezione. Oppure da qui
poteva risalire fino a includere i primi momenti della vicenda umana di
Cristo e della sua Madre, a sua volta destinata al privilegio
assolutamente distintivo dell’assunzione al cielo: si poteva partire
dall’annunciazione di Maria, oppure incontrare l’immagine della
nascita di Cristo e del presepio, o ancora l’adorazione dei magi –
scene che tendevano ad addensare intorno a sé un altro dei nuclei
fondamentali della pietà «affettuosa» tramandata dalla religione
collettiva. Dall’ostensione di scene isolate, era frequente che si
passasse a riunire nella cornice di una medesima aula di chiesa,
nell’area riservata della sua cripta o in altri luoghi adiacenti una
pluralità di composizioni plastiche, accostando le quali il devoto
ripercorreva un tragitto che si snodava in una serie di misteri
interconnessi fra di loro, sintesi di una catechesi largamente
‘popolare’. Come caso rappresentativo, possiamo segnalare il santuario
extraurbano della Vergine dei miracoli presso il borgo di Saronno, a nord
di Milano. Nel corso della prima metà del Cinquecento, ai due lati della
sua aula rinascimentale si configurò un affollato complesso di statuaria
policroma, a grandezza prospetticamente differenziata, che dall’ultima
cena di impianto leonardesco puntava in avanti affiancandovi, da una
parte, l’orazione nell’orto; dall’altra il monte del Calvario, con
tanto di ladroni, soldati e cavalli, l’emozionante compianto
(sopravvissuto fino a noi, come la cena), la discesa al limbo e il
sepolcro di Cristo. L’ingente apparato era poi integrato dai dipinti
luineschi sulla nascita e l’infanzia di Cristo nella porzione absidale
del santuario, cui sovrastava l’assunzione della Vergine accolta fra le
braccia di Dio Padre, al centro della cupola con il concerto degli angeli
musicanti di Gaudenzio Ferrari (Gatti Perer, 1996). È evidente che in
situazioni del genere, anche per la combinata fusione tra rappresentazione
plastica messa in primaria evidenza e sfondo pittorico che colmava le
lacune della storia sacra rievocata, ci troviamo immediatamente a ridosso
dello stesso progetto ideativo che, proprio nel contesto geografico
innervato da queste polivalenti tradizioni di realismo figurativo, portava
verso l’‘invenzione’ dei Sacri Monti. Fuori e spesso anche lontano
dai grandi centri abitati, la loro diversità si sarebbe collocata solo
nell’ambientazione topografica spalancata a una corona di «luoghi» o
cappelle che si distribuivano in uno spazio naturale favorevole al ritiro
e all’esercizio della preghiera. Più che l’eventuale andamento
ascensivo dell’itinerario devoto, era il suo ordine interno che si
rivelava consono al progressivo avvicinamento all’incontro con il
mistero divino, culminante nell’approdo al santuario terminale.
Per
chiudere il discorso sulle premesse che hanno favorito l’impiantarsi di
questo genere di progettazione di grandi apparati scenografici
devozionali, si dovrebbe da ultimo segnalare che la fase del passaggio dal
Quattro al Cinquecento è stata anche quella che ha visto ramificarsi in
ambito settentrionale la tradizione iconografica della pietà eucaristica,
a sua volta incentrata sulla rievocazione delle sofferenze patite dal
corpo fisico del Cristo-uomo. In essa tendeva regolarmente ad assumere
rilievo dominante il tema del compianto rivolto alla carne martoriata del
Salvatore deposto dalla croce. Il sacramento eucaristico e la celebrazione
liturgica della messa erano sentite come la riattualizzazione del
sacrificio del Golgota, che rinnovava e rendeva disponibile per tutti i
fedeli di Cristo la presenza concreta del Dio fatto uomo, redentore del
genere umano liberato dalla schiavitù del peccato. La scena intensamente
materna della Pietà, immortalata nella materia modellata e scolpita o
devotamente riprodotta in pittura, era il fulcro intorno a cui si
disponeva l’apparato decorativo delle ancone lignee delle cappelle del
Santissimo Sacramento del Corpo di Cristo, che poteva a volte distendersi
nella tessitura di più complessi cicli allegorico-figurativi,
commissionati dal clero gestore delle chiese o dai sodalizi confraternali
‘specializzati’. Artisti fra i più insigni del primo Cinquecento
(Luini, Moretto, Romanino) furono coinvolti in questa ondata di espansione
di una forma di pietà moderna, che tendeva a moltiplicare, a partire
dalle chiese dei maggiori centri urbani, l’offerta di altri ‘teatri’
della devozione dove a essere visualizzati erano sempre, in primo luogo, i
misteri dolorosi della vita di Cristo, disposti nel loro insieme narrativo
(Gregori, 2001; Zardin, 1992) (7).
Parallelamente,
dagli ultimi due decenni del Quattrocento si assiste anche nel territorio
della penisola al primo affacciarsi della pietà mariana del Santo
Rosario. Si trattava del lancio di una nuova forma di preghiera litanica,
destinata a grande fortuna popolare, che includeva l’aggancio delle
orazioni ripetute alla sequela dei fatti salienti della vita di Cristo e
della Vergine. I quadri da evocare mentalmente per ordinare l’esercizio
della preghiera erano stati ormai fissati nella corona dei quindici «misteri»,
che dall’annunciazione della Vergine giungevano alla sua glorificazione
nella gioia del Paradiso e (nella versione più antica) proponevano di
chiudere con la contemplazione della scena del giudizio finale. Per
nutrire di contenuto immaginativo, oltre che per guidare in senso
didascalico la recita del rosario, si resero fin dall’inizio disponibili
manuali con il corredo di appropriate tavole incise e stampe utilizzabili
anche per l’affissione muraria. L’editoria di sussidio divulgata per i
cultori della pratica religiosa, riuniti nelle schiere delle nuove
confraternite della Madonna del Rosario, divenne rapidamente
un’alluvione di libri e opuscoli che riproducevano sulla pagina
stampata, rendendoli permanentemente fruibili dai singoli devoti, i temi
iconografici nello stesso tempo sviluppati dai creatori delle pale
d’altare e degli apparati decorativi delle cappelle del Santo Rosario.
Per tutto il Cinquecento e più avanti ancora nel tempo, i tributi di
omaggio alla Vergine del Rosario continuarono a moltiplicarsi nel quadro
dell’edilizia religiosa della Controriforma, divenendone uno dei più
tipici segni di caratterizzazione (Winston-Allen, 1997) (8).
Anche per questa via si irrobustì la predisposizione di quell’ambiente
ricettivo in cui più tardi si radicò la forza di richiamo esercitata dai
grandi Sacri Monti scenografici, con le loro corone di «misteri» fatti
di sculture «al naturale», meta di un crescente flusso di pellegrinaggi
e teatro di una nuova forma di ascesi educativa per gli individui.
Quanto
siamo andati dicendo presuppone una scelta interpretativa che abbiamo
anticipato in esordio, e che ora dovrebbe risultare meglio argomentata:
cioè l’ipotesi secondo cui le radici storiche del fenomeno dei Sacri
Monti siano da intendere come radici soprattutto autoctone, interne alla
logica di sviluppo del sistema religioso modellatosi tra Medioevo e prima
età moderna. I Sacri Monti non sorsero, in primo luogo, per combattere il
nemico, ma per rendere praticabile una familiarità più intensamente
condivisa con il nucleo portante della fede cristiana, cristocentrica e
mariana. È probabile che debba essere ridimensionato anche il peso
tradizionalmente attribuito, nel decollo del fenomeno, all’espansione
ottomana e al nuovo balzo in avanti dell’Islam verso l’Occidente, che
misero in crisi e in pratica spezzarono, nel XV-XVI secolo, i fili
superstiti del pellegrinaggio cristiano verso i luoghi di Terra Santa.
Dalla rottura del cordone ombelicale con la Gerusalemme reale sarebbe
venuto l’impulso decisivo a ricostituirne artificialmente, in uno
scenario topografico più vicino e addomesticato, gli ambienti che avevano
visto il primo sprigionarsi della storia della salvezza. È vero che ci
fu, allora, la grande ondata di diffusione della pietà lauretana. A
Loreto rimandavano le repliche della casa di Nazareth, umile teatro
dell’evento dell’incarnazione, che cominciarono a sorgere in tutto il
mondo cristiano (Citterio e Vaccaio, 1997). Altrettanto certo è che il
progetto di una fedele riproduzione mimetica dei luoghi del Santo Sepolcro
e del più vasto scenario dei fatti della passione dominò l’abbozzo
originario del Sacro Monte di Varallo, presto elevato a modello da
ricalcare, così come simultaneamente avveniva, sempre per impulso
francescano, a San Vivaldo in Valdelsa, in terra toscana. Ancora dopo
l’inizio del Seicento, i contorni ambiziosi di una «Novella
Gierusalemme, o sia Palestina del Piemonte» (Langé e Pacciarotti, 1997,
p. 40) si imposero come quelli che si cercò di materializzare –
comunque senza successo – a Graglia, in provincia di Vercelli, sotto il
nume tutelare di san Carlo Borromeo (Langé e Pacciarotti, 1997). Ma da
tempo, già prima del trionfo della mezzaluna sugli ultimi resti
dell’Impero cristiano di Costantinopoli, le contrade italiane si erano
disseminate di chiese e cappelle che miravano a riprodurre le fattezze del
Santo Sepolcro o degli altri «luoghi santi». Il complesso di Santo
Stefano, a Bologna, era riconosciuto come replica gerosolimitana già in
epoca carolingia: per noi, quasi preistoria (Cardini, 1999; Pigozzi,
1999). In ogni caso, nel corso del loro sviluppo moderno i Sacri Monti
lombardo-piemontesi inclusero motivi devozionali e si articolarono secondo
assi organizzativi, sul piano logistico-architettonico, che travalicarono
ampiamente il nesso, anche solo privilegiato, con il ricalco dei luoghi
santi di Palestina. A Varallo e altrove, questa simbiosi originaria
giustificò, fino ad un certo punto, la visita al Sacro Monte come
pellegrinaggio di compromesso, su scala geografica ridimensionata,
circoscritta agli spazi interni di una cristianità che si chiudeva nei
suoi confini e si frammentava nella scacchiera dei suoi limitati quadri
nazionali. Ma fin dall’inizio al pellegrinaggio pseudo-gerosolimitano si
aggiunsero molti elementi diversi, e si può dire che la frequentazione
dei Sacri Monti rispose a finalità più estese, che abbracciavano e
davano sostegno all’intero percorso della santificazione cristiana.
Al
vertice della loro fioritura, i Sacri Monti più numerosi saranno quelli
che destinavano il loro tragitto simbolico all’illustrazione dei misteri
del Santo Rosario (Varese, Ossuccio, Saas-Fee, Visperterminen, allo stadio
di progetto Hergiswald). Alla rappresentazione della vita e della passione
di Cristo era dedicato il Sacro Monte di Varallo e il medesimo assetto
avrebbe dovuto essere assecondato a Graglia. La vita e i miracoli di san
Francesco ispirarono quello di Orta. Intorno alla celebrazione del culto
di san Carlo si operò, ma con deludenti risultati, ai margini del suo
borgo natale di Arona. La vita della Vergine è rappresentata nelle
cappelle di Oropa, mentre a Domodossola e a Cervino, anche in fase più
avanzata, ci si indirizzò verso la riproduzione delle stazioni della Via
Crucis, definite con precisione solo al termine dell’età barocca. In
altri luoghi ancora, come Locarno, Brissago, Ghiffa, la fisionomia
dell’impianto ideativo rimase meno univocamente caratterizzata e subì
aggiustamenti nel corso del tempo (9).
Alla metà del Seicento, i devoti di una «gran metropoli» come la
capitale dello Stato di Milano avevano ormai alla loro portata una
pluralità di scelte che consentiva, con il pellegrinaggio alla corona di
Sacri Monti da cui era cinta la diocesi governata da Federico Borromeo, di
ripercorrere, ecletticamente, un vasto panorama dell’universo religioso
disciplinato dall’autorità della Chiesa di Roma, sostenuto dal carisma
devozionale di alcuni dei suoi santi di maggior richiamo collettivo. Come
suggeriva il vademecum a questo scopo predisposto da Bartolomeo Manino, la
Descrizione de’ Sacri Monti di san Carlo d’Arona, di san Francesco
d’Orta, sopra Varese, e di Varallo (Milano 1628), si trattava di un
bel «quaternario perfetto», che con il suo ordine provvidenzialmente
geometrico incoraggiava di per sé a fare la spola per raggiungere, uno
dopo l’altro, i punti di confine del «bel giardino d’Italia» della
«nostra Lombardia», dove si trovavano eretti i Sacri Monti citati. A una
giornata al massimo di viaggio dalla capitale, i «sacri colli» allestiti
dalla pietà collettiva potevano simbolicamente apparire, a uno sguardo
d’insieme, «quasi tirati a filo in linea parallela, come che una
divozione chiami di andare a visitare l’altra, essendo anche compartita
in uguale distanza l’una dall’altra» (Langé e Pacciarotti, 1997, p.
41). Aprendosi a un ambito territoriale ancora più esteso, i fedeli
cattolici di tutta l’area settentrionale e alpina avrebbero trovato
motivi ancora maggiori, alla soglia del Seicento avanzato, per
distribuirsi su una gamma di mete che li portavano a contatto con
l’offerta di messaggi religiosi diversificati e dotati tutti di forte
presa suggestiva, tradotti nelle forme di una efficace ‘propaganda’
edificante.
L’ampliamento
e la diversificazione della rete dei Sacri Monti che si sono registrati
nel corso dell’età moderna vanno messi in collegamento con la continuità
del modello devozionale mimetico e rappresentativo che aveva cominciato a
delinearsi già ben prima del rilancio ecclesiastico delle riforme
tridentine. I libri, le immagini e i rituali collettivi che
incessantemente aggiornavano le tecniche di approccio e il repertorio di
simboli della cultura religiosa trasmessa dalla dottrina cristiana
conobbero, allora, un’ondata massiccia di nuovi apporti. Alcune forme di
espressione della devozione più libera e tumultuosa dell’ultimo
Medioevo e del Rinascimento furono ripensate o subirono restrizioni,
perdite, aggiustamenti. Aumentarono i filtri di controllo dall’alto. I
generi del linguaggio artistico si trovarono a loro volta corretti e
reincanalati. Ma altre tradizioni poterono perpetuarsi anche nel contesto
religioso profondamente mutato. Ci furono ampie zone di inerzia,
valorizzazioni e conferme di metodi e strumenti già collaudati di
proposta didattica e di alimentazione della fede condivisa. Non possiamo
addentrarci ora in una perlustrazione della foresta intricata di messaggi
che i predicatori, insieme agli autori e ai divulgatori di una dilagante
produzione devota a stampa riversarono sul popolo dei fedeli lungo i mille
canali aperti dal rinnovamento cattolico della Controriforma. Basterà
soltanto concentrarsi, per indicare una delle strade maestre di questa
continuità dei modelli religiosi prelevati dal passato e sottoposti al
riuso in senso moderno, sulla maturazione cinquecentesca della grande
scuola gesuitica.
A
partire dal suo codice fondante, gli Esercizi
spirituali di sant’Ignazio, il metodo di affinamento della coscienza
religiosa proposto dalla Compagnia di Gesù per «giovare alle anime» dei
suoi aderenti e alla sua vasta clientela devota si impostò proprio sulla
visualizzazione realistica e sulla immedesimazione in prima persona con i
contenuti della storia sacra che ampliava la traccia della parola biblica.
La vicinanza di indirizzo con i manuali di pietà del Quattrocento e con i
loro riadattamenti successivi si coglie a prima vista. Il contenuto della
meditazione che doveva accendere la preghiera e destare la volontà di
adesione del devoto era scisso nei suoi «quadri» narrativi di
riferimento, disposti nella serie di un cammino graduale di ascesi. Ognuno
di questi chiedeva di essere ricreato, uno dopo l’altro, nello spazio
interiore della visione mentale. Ritiratisi in sé, con opportune tecniche
di concentrazione preliminare, il «luogo» di ogni azione scenica
proposta come materia dell’atto spirituale era ricostruito mobilitando
tutte le capacità sensitive, in sinergia fra di loro, e le proiezioni
fantastiche dell’«immaginazione» erano potentemente favorite dai
corredi iconografici di cui il testo degli Esercizi
(prima edizione latina: 1548) e i loro numerosi commenti cominciarono
presto a dotarsi (10).
Ma l’esercizio immaginativo poteva essere facilitato anche dalla «ruminazione»
di altri testi di pietà, persino più copiosamente illustrati, messi a
disposizione degli esercitanti, così come le immagini delle stampe
religiose, gli apparati decorativi delle chiese o qualunque altro genere
di iconografia sacra (non esclusa quella d’uso personale o domestico: a
partire da semplici medaglie, dipinti, crocifissi) erano una risorsa
ulteriore in grado di aiutare a mettere in moto il meccanismo
dell’identificazione con la scena meditata. Le pratiche contemplative
incoraggiate dai «preamboli», dai «punti», dalle orazioni e dalle «regole»
copiosamente dispensati dagli Esercizi si fondevano con una miriade di altre pubblicazioni devote
ugualmente costruite sui fatti della vita e della passione di Cristo, sui
misteri del Rosario, sulla vita della Vergine, sui Novissimi, sulle figure
dei più grandi santi della storia cristiana. A questa folta letteratura
didattica ingrossata dalle tipografie del Cinquecento diedero un decisivo
contributo i medesimi gesuiti, ad esempio – per restare nell’ambito
italiano – con i Libretti
d’imagini e di brevi meditazioni del padre Luca Pinelli, con i
fortunati manuali di Vincenzo Bruni, con i molteplici testi edificanti di
Gaspar Loarte: come il Trattato della continua memoria che si deve avere della sacra passione,
la sua Instruzione sulla
preghiera del Rosario, l’opera parallela intitolata Instruzione
e avvertimenti per meditare la passione di Cristo nostro redentore con
alcune meditazioni intorno ad essa.
Nel
corpo di quest’ultimo scritto, il primo dei «diversi modi utili a
meditare la santissima passione di Cristo» che vengono distesamente «dichiarati»
è quello «istoriale o letterale», classicamente fondato sulla densità
poietica della compositio loci: «il qual consiste in sapere ben la lettera e
istoria del misterio che vorrai meditare; e ricordarti di quello,
considerandolo e avendolo tanto a mente, come se presente ti fossi trovato».
Gli «avvisi» proposti all’esercitante desideroso di cimentarsi nella
pratica della meditazione esordiscono raccomandandogli di «star in essa
con una semplice e umil vista de misterii che pensarai, risguardandoli
interiormente, overo esteriormente, come se ti fossero presenti, al che ti
potrà aiutare l’aver presente la imagine del misterio che meditarai, e
co’l semplice risguardo di quella, esteriore o interiore, ti contenta,
senza troppo discorrere con l’intelletto». Bisognava guardarsi dalla
ricerca ostinata delle «lagrime» e dalle forme imprudenti di «divozione
sensuale». La meditazione doveva piuttosto essere condotta «quietamente
e con riposo», seguendo la traccia ordinata dei singoli «punti» che per
essa vengono dettati. Li implicano con fedele riscontro gli schemi per
l’esercizio concreto della meditazione che chiudono il manuale (una
ventina: dalla cena di Betania alla risurrezione). Ognuno è introdotto da
una vignetta xilografata, a tutta pagina, in cui è offerta l’immagine
della scena da contemplare. Seguono i «punti» da meditare, suddivisi in
tre momenti consequenziali. Infine si incontrano i testi delle orazioni da
recitare.
Il
metodo adottato dall’Instruzione del
Loarte era quello più ampiamente consolidato, e bisogna solo precisare
che esso era tutt’altro che patrimonio esclusivo delle tecniche
pedagogiche della Compagnia di Gesù. Lo ritroviamo al cuore della
produzione devota dei diversi ordini religiosi e delle altre congregazioni
moderne di chierici regolari. Lo vediamo tenuto presente dagli artisti
personalmente coinvolti nella creazione di una espressione figurativa
funzionale al nutrimento della pietà del popolo dei fedeli (Guazzoni,
1984; Moroni, 2004). Alla fine del Cinquecento, nell’ambiente religioso
che aveva uno dei suoi fulcri culturalmente più creativi nella Milano
spagnola di Carlo e Federico Borromeo, lo vediamo fissarsi in modo
esemplare, a lato della tradizione interna alla famiglia gesuitica, nella Prattica
dell’orazione mentale del cappuccino Mattia Bellintani da Salò, la
cui prima parte vide la luce originariamente a Brescia, nel 1573. Era
anch’essa, come gli Esercizi ignaziani,
una raccolta di schemi pratici di meditazione sulla vita e la passione di
Cristo, poi dilatati ad abbracciare l’intera storia della salvezza,
diligentemente disposti nei loro «preamboli», nella serie dei «punti»
ordinati in opportuna sequenza, con il corredo dei testi di preghiera,
delle suppliche e dei buoni propositi condensati nell’«azione»
conclusiva. Nella scia della vasta e singolarmente prolungata fortuna di
questo manuale di pietà comparvero anche le Corone
spirituali del molto reverendo padre fra Mattia Bellintani da Salò,
«per l’attenzione in contemplare la passione del Salvatore», date alle
stampe nel 1614 (e più volte riedite in seguito, anche in traduzione
tedesca), che si fregiavano della dichiarazione promozionale di essere le
stesse «le quali erano pratticate da san Carlo». Le «corone» del
Bellintani erano un insieme di «atti» compassionevoli distribuiti nei
diversi giorni della settimana, agganciati ai punti in successione dei
misteri dolorosi della passione. I misteri erano materialmente evocati da
una rudimentale incisione posta all’inizio di ogni giornata e il tutto
si componeva in una sorta di rosario meditativo continuamente variato
sopra un registro patetico di fondo: dove la «considerazione» minuta dei
singoli colpi della flagellazione (martedì), o quella del «dolore» e
del «sangue» provocati dalla battitura di ognuno dei chiodi della
crocifissione (venerdì) introducevano una sorta di esasperazione per
‘rallentamento’ delle scene di sofferenza disegnate lungo la via della
croce (Zardin, 1999) (11).
Con esiti largamente convergenti, l’immedesimazione visiva suscitata
dall’approccio realistico alla «istoria», in simbiosi con le immagini
che veicolavano la memoria riattualizzata e resa incisivamente
‘presente’ del suo farsi nel tempo, fino al culmine raggiunto nel
sacrificio della croce, erano perseguiti da tutti i più autorevoli
esponenti dell’omiletica sacra e della letteratura edificante della
cattolicità della Controriforma, italiana o di importazione: da Luis de
Granada fino a Francesco Panigarola e a tanti altri ancora (Ardissino,
1998; Jori, 1998) (12).
L’ultimo
punto che vogliamo sottolineare è che questo stile religioso basato sulla
riproduzione mimetica e la tradizione devozionale dei Sacri Monti non sono
stati solo due fenomeni paralleli, congiunti da una parentela ispiratrice
di fondo. Essi, invece, si sono direttamente fecondati a vicenda, come
mostra una ricca documentazione relativa soprattutto all’ambiente della
Milano borromaica, dove attecchì il magistero vescovile di san Carlo
Borromeo, pastore modello della Controriforma. Non a caso, egli si
distinse anche per la sua valorizzazione in grande stile dei Sacri Monti,
intesi come appendice dell’impalcatura istituzionale del corpo delle
diocesi del nord Italia. L’assorbimento, a quanto pare largamente
riuscito, della pianificazione costruttiva e della stessa gestione
finanziaria e giuridico-disciplinare dei Sacri Monti nelle maglie di
controllo delle rinsaldate curie vescovili costituisce uno dei tratti
decisivi della fase più avanzata della fioritura dei Sacri Monti
settentrionali. Nella scia di Carlo Borromeo, il suo devoto collaboratore
Carlo Bascapè, una volta divenuto vescovo di Novara, cominciò a far
sentire il peso della sua influenza, in termini molto più pronunciati
rispetto al passato, sul completamento moderno del Monte di Varallo.
Scomparso Carlo Borromeo, il cugino e successore Federico agì come grande
patrono dell’impresa del Sacro Monte rosariano sopra Varese, certo a
fianco di altre forze religiose e con il concorso attivo dei ceti
dominanti del milanese, attirati dalle potenzialità di un mecenatismo
aristocratico di altissimo valore simbolico e promozionale. Dalla capitale
di Milano, per tutto il Seicento si cercò di pilotare il progetto di una
replica dei Sacri Monti che si volgeva alla celebrazione del culto dello
stesso arcivescovo proclamato santo nel 1610, fino all’innalzamento
della statua colossale sui colli alle spalle di Arona, che ne sanciva
risolutamente, in termini pubblici e solenni, tutta l’elevatezza della
statura.
Ma
Carlo Borromeo fu anche, e ripetutamente, un diretto frequentatore di
Varallo. Qui aveva modo di esplicarsi la sua intensa pietà
cristocentrica, attaccata in particolare ai segni materiali dei misteri
della passione. L’amore tenace per l’insigne reliquia del Santo Chiodo
del duomo di Milano e la venerazione per la Sindone facevano in lui
tutt’uno con una inclinazione devozionale che lo portò a nutrirsi
instancabilmente della visita ai luoghi di culto, delle immagini e
dell’uso dei testi religiosi che riproponevano il tema del Cristo
sofferente e redentore. «Vostra Signoria illustrissima altro non cerca,
altro non cura giorno e notte – gli riconosceva la pur encomiastica
dedica premessa all’Instruzione
per meditare la passione del padre Loarte, ristampata a Milano nel
1575 – se non che Cristo crocifisso sia da tutti conosciuto, amato e
glorificato» (Zardin, 1999, p. 57) (cf. Buzzi, 1997). Come sappiamo dalle
prime compilazioni agiografiche che ne propagarono il racconto
dell’esistenza esemplare, san Carlo amava fare delle cappelle allora
esistenti sul Sacro Monte di Varallo lo sfondo scenografico dei suoi
esercizi spirituali. Nella pratica di questo periodico ritiro lo colse
l’estrema malattia che lo condusse a finire i suoi giorni. La figura del
pastore devoto che si aggirava con la lanterna in mano per dedicarsi alle
attività di preghiera anche in ore notturne divenne subito uno dei topoi
immortalati dalla sua iconografia celebrativa. Con la prolungata
immersione in un contesto quanto mai propizio alla concentrazione mentale
sulla memoria resa plasticamente evidente della storia della salvezza il
santo arcivescovo ricalcava le orme dei tanti pellegrini, anonimi o
illustri al pari di lui, che si erano messi sulla medesima strada già nei
decenni precedenti. A Varallo si calavano in un cammino meditativo
configurato come un ordito di luoghi o «stazioni» dislocate fisicamente
in uno spazio reale, in cui si procedeva in senso progressivo lungo i
passi di una rudimentale via dolorosa, fino al suo compimento finale. Ma
ci si poteva anche soffermare in un «luogo» reputato più idoneo per sé,
lasciando la possibilità di esaurire la completezza dei richiami offerti
dal Sacro Monte ad altre occasioni, o all’insieme di una comitiva di
esercitanti coordinati unitariamente fra loro – come sembra amasse fare
Carlo Borromeo con i più stretti collaboratori della sua cerchia. Ogni
sosta non era comunque mai lasciata all’anarchia della pura devozione
individuale. Ci si poneva di fronte alle immagini trascorrendo da uno
all’altro di una serie di «punti» – ritorna nelle fonti borromaiche
il termine chiave di tutta la tradizione pedagogica evocata – fissati e
commentati a scopo di edificazione da un direttore di spirito che era il
regista ultimo e il garante di tutto l’impianto della pratica
meditativa; nel caso di san Carlo, scelto fra i padri della Compagnia di
Gesù a lui più congeniali. I «punti», debitamente concatenati fra
loro, davano sistematicità metodica all’itinerario spirituale
dell’esercizio. E il loro sgranarsi poteva arrivare a coincidere con la
sequenza narrativa dei misteri esibiti dal teatro sacro del Monte, offerti
agli occhi dei fedeli per essere contemplati da una vista che, da fisica
ed esteriore, era chiamata a farsi intima e intensamente assimilatrice
(Zardin, 1999).
Sulle
rampe del Sacro Monte di Varese, mezzo secolo più tardi, i pellegrinaggi
dei fedeli diventeranno più decisamente comunitari e vedranno riemergere
la centralità dell’orazione vocale ripetuta rispetto al sommesso
colloquio interiore con i segni iconici della grande pietà tradizionale (13).
Riferimenti
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nell’Italia della Controriforma. (pp. 695-739). Roma: Istituto di
bibliografia musicale.
Note
- (1) Cito, con
adattamenti a una più regolare normalizzazione gráfica. Si veda
anche, con riferimenti ad altri testi devoti che si dispongono nella
medesima linea del Giardino (Camilla
Battista da Varano, Pietro da Lucca, ecc.): Gentile, 1999; Guazzoni,
1984; Guazzoni, 1981
- Fornisco qui la prima versione
di un contributo destinato a trovare spazio, nella sua forma
definitiva, nel volume: Guerriero, E. & Tuniz, D. (In corso di
stampa). Sacri Monti. Cinisello Balsamo: Ed. San Paolo. [ritorna]
(2) Con ritocco
correttivo. [ritorna]
(3) «Quandi
iuderi Cristo pilliaro, / d’ogne parte lo circumdaro; / le sue mane
strecto legaro / como ladro, villanamente. / […] A la colonna fo
spoliato, / per tutto’l corpo flagellato, / d’ogne parte
fo’nsanguinato / commo falso, amaramente. / Poi’l menar a Pilato / e,
nel consellio ademandato, / da li iuder fo condempnato, da quella falsa
ria gente. / Tutti gridaro, ad alta voce: / “Moia’l falso, moia
veloce! / Sbrigatamene sia posto en croce, / ke non turbi tutta la
gente”…». Laudario di Cortona, 1999 [CD ROM con facsimile e testi del ms.
91 della Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca di Cortona,
allegato all’edizione musicale del a cura di Micrologus (CD M00010/3]. [ritorna]
(4) Indicazioni
esemplificative in Verdon, 2001: L’arte
sacra in Italia, cap. VII, Il
teatro della pietà, pp. 183-209. [ritorna]
(6)
Si veda comunque Agostini e Ciammitti, 1989 con interventi di G. Gentile e
ancora dello stesso Verdon. [ritorna]
(7)
Per le premesse religiose generali: Rubin, 1991: Corpus
Christi: the Eucharist in late medieval culture. [ritorna]
(8)
Sulle confraternite in modo più circostanziato, cf. Jäggi (2003). [ritorna]
(10) «Per
visualizzare l’immagine su cui pregare, l’esercitante applica un
procedimento operativo ripartito in determinate fasi: ricreare con
l’immaginazione il luogo in cui avviene l’episodio da meditare; vedere
le persone che partecipano all’azione; e infine sentire cosa dicono e
come agiscono» (Salviucci Insolera, 2004, p. 24). Segue
l’esemplificazione tratta dalla contemplazione della Natività. Nel
secondo preludio si prescrive: «Composizione: vedere il luogo. Qui,
vedere con la vista dell’immaginazione la strada da Nazaret a Betlemme. Considerare la sua lunghezza e larghezza
[…]». Nel primo punto: «Vedere le persone. Vedere la Madonna,
Giuseppe, la domestica e il Bambino Gesù appena nato». Nel secondo
punto: «Notare, osservare, contemplare ciò che dicono». Nel terzo
punto: «Guardare e considerare quel che fanno: il loro viaggio e la loro
pena, perché il Signore viene a nascere in un’estrema povertà» (Idem,
pp. 24-25). Sull’apparato illustrativo degli Esercizi: Salviucci Insolera, 1991: Le
illustrazioni per gli Esercizi spirituali intorno al 1600. Per gli esiti moderni della tradizione:
Ossola, 1988: Composizioni di luogo;
Fabre, 1992: Ignace de Loyola: le lieu de l’image. [ritorna]
(11) Con apparato di illustrazioni: Zardin, 1999: «Scolpisci
in me divota imago». Libri di pietà figurati e
meditazione della passione nel Cinquecento
(anche per tutti i precedenti riferimenti a G. Loarte). [ritorna]
(12) Cfr. G. Jori,
1998 Per evidenza. Conoscenza e segni nell’età barocca, Venezia,
Marsilio, 1998, pp. 148 sgg.; E. Ardissino,
Immagini per la predicazione:
le «Imprese sacre» di Paolo Aresi, «Rivista di storia e letteratura
religiosa», XXXIV, 1998, pp. 3-25 (che rinvia pure alle Rime
sacre del Tasso). [ritorna]
- (13) Per un
approfondimento:
- Black, C.F.
(2004). Church, religion and society in early modern Italy.
Basingstoke: Palgrave Macmillan.
- Hsia, R. P. (2001). La
Controriforma: il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770). (E. Bonora, Trad.). Bologna: Il mulino. (Originale del
1998).
- O’Malley, J. W. (2000). Trent
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- Vaccaro, L.
& Ricardi, F. (1992). Sacri monti: devozione, arte e cultura
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- Zardin, D. (2003). Controriforma,
Riforma cattolica, cattolicesimo moderno: conflitti di
interpretazione. In C. Mozzarelli (Ed). Identità
italiana e cattolicesimo: una prospettiva storica. (pp.
289-307). Roma: Carocci.
Nota al riguardo dell´autore
Danilo
Zardin
è
laureato in Filosofia e Professore
Ordinario di Storia Moderna presso l´Istituto di Storia Moderna e
Contemporanea dell´Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano,
Italia. Contatto:danilo.zardin@unicatt.it
Data de recebimento: 02/09/2005
Data de aceite: 30/09/2005
Memorandum
9, out/2005
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/a09/zardin02.htm
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