Giuliani, M. (2004). Lo “spirituale ammaestramento” di Federico Borromeo alla città di Milano: la questione antropologica. Memorandum, 6, 89-113. Retirado em / / da World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos06/giuliani01.htm

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Lo “spirituale ammaestramento” di Federico Borromeo alla città di Milano: la questione antropologica

 The “spiritual teaching” of Federico Borromeo in the city of Milan:  the anthropological question

 Marzia Giuliani
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Italia

Riassunto

Attraverso l’analisi della predicazione nella città di Milano, raccolta a stampa nei quattro tomi de I sacri ragionamenti, si individuano i nuclei tematici della strategia pastorale dell’arcivescovo Federico Borromeo, che si confronta con l’opera di San Carlo, suo cugino, e con le nuove esigenze della chiesa post-tridentina nel passaggio fra Cinque e Seicento. Ad esse il presule risponde con l’elaborazione di una “filosofia cristiana”, che è progetto culturale e pastorale. All’interno di una cosmogonia teocentrica, dalla quale discendono l’ordine e l’armonia del mondo creato, la centralità dell’incarnazione di Cristo e il ruolo di Maria quale mediatrice ed exemplum fondano una visione antropologica, che esalta la pienezza dell’umano quale unità di anima e corpo, da costruire in un cammino di perfezione, reso accessibile dalla mediazione salvifica di Cristo. Significative le tangenze con la elaborazione teologica e spirituale della Compagnia di Gesù.

 Parole chiave: Federico Borromeo; storia della chiesa; filosofia cristiana; eloquenza sacra.

Abstract

Study focused on Federico Borromeo’s Sacri ragionamenti, a collection of his preaching to the clergy and to laity of Milan from 1595 to 1631. These spiritual discourses can help us to identify the core themes of the pastoral strategy of the archbishop Federico Borromeo, connected with Saint Carl’s episcopal government, his cousin, and with the new requirements of the post-Tridentine Church. Referring to a cosmogony in which God keeps his central place, giving order and harmony to the whole world, created by Him, Federico emphasizes the mystery of Incarnation - identified with Redemption - and the role played by Mary in the life of Christ and in the life of every believer. This vision dignifies human nature, as a unit (spirit and body). “Perfection” is proposed as the ideal of the Christian life, and can be achieved by looking at Christ, Mary and all saints.

Keywords: Federico Borromeo; Church History; Christian philosophy; sacred eloquence.

 

«Le cose più principali […] insegnate al popolo per suo spirituale ammaestramento» (Borromeo, F. (1632). vol. I, p. I) è la formula semplice ed essenziale con la quale, nell’introduzione, Federico Borromeo (1565-1631) (1) definisce il contenuto de I sacri ragionamenti, i quattro tomi voluminosi da lui voluti come testimonianza della sua incessante opera di predicazione durante il vescovato milanese (2), ispirata all’ideale tridentino del «concionante episcopo» (3). Esplicitare la formulazione, ovvero identificare contenuti, forme e modalità di un ammaestramento, cui è riconosciuta una valenza pedagogica di natura “spirituale”, è compito arduo sia per la natura “mediata” della fonte in esame, che è formalizzazione scritta di un testo pensato per la recita orale, sia per la complessità del suo autore, il cui «universo religioso e intellettuale» nasconde ancora in parte agli studiosi il proprio «punctum stans aut cadens» (Bosco, 2002, p. 120). (4).

Le redazioni manoscritte delle oltre trecento prediche e i quaderni di studio, che, come un vasto e articolato thesaurus memoriae, dischiudono al Borromeo l’universo dei saperi, ordinato “per voci” e “per voci” interrogato alla ricerca di luoghi predicabili, forniscono una nuova chiave di accesso ai contenuti omiletici recuperati nel loro primo strutturarsi attraverso un intenso lavoro di preparazione e “riascoltati” nella loro recita orale, di cui si scoprono tempi, luoghi e destinatari (5).

Le parole, che Federico legge e medita nella solitudine dello studio, si fanno riflessione pensosa dell’uomo di fede che, chiamato alla cura d’anime nel suo più alto grado, le rende fruibili al suo popolo nella forma di un vibrante insegnamento, frutto della tensione costante a una sintesi costruttiva, nella quale convergono positivamente cultura, fede e impegno pastorale (6).

Abbandonando un procedere rigorosamente logico argomentativo, a favore di una cospicua galleria di immagini ed exempla, il vescovo, umanista per formazione e vocazione, cerca di persuadere i suoi fedeli del fascino di una «filosofia cristiana», proposta di un modello antropologico, sul quale giocare per intero la propria umanità a partire dall’esempio di Cristo, di Maria e dei santi.

 

«Meraviglie d’un più luminoso cielo e d’una più fertile terra»

Il più importante biografo seicenteso del cardinale, Francesco Rivola, ricordando, nella sua biografia, la prima messa pontificale di Federico osserva come

quello poi che sommamente ragguardevole rendé l’attione fu che tramezzata ella venne da un bellissimo ragionamento da lui fatto sopra del pergamo in laude della Reina del Cielo, al risonare della cui voce riempitisi di spiritual gaudio tutti gli astanti con vari atti di gioia e festa dimostravano l’interior loro letizia, godendo sommamente di veder rinnovellata nel novello Borromeo l’antica maestà delle funzioni ecclesiastiche da loro passati nel santo pastor Carlo soprammodo ammirata. (Rivola, 1656, p. 203).

Sin da questo primo rivolgersi ai milanesi nella forma di un panegirico «in laude della reina del cielo», poi posto ad apertura del quinto volume dei ragionamenti, Federico fa della Vergine Madre di Dio il centro e il punto riassuntivo del grandioso quadro cosmologico, che è per lui l’orizzonte di senso e di riferimento della vita credente, non prima di aver chiarito, nell’esordio, possibilità e limiti della sua parola di predicatore e di quella di ciascun uomo di fede.

«Ogni lingua dovrebbe tacere», dice Federico, a fronte della sproporzione incolmabile fra la sapienza di Dio, che è potenza creatrice, e la debole ragione umana: «se quell’infinito sapere […] più distesamente a noi non ragiona […], come potrà esser vero che senza grave errore e presuntione di sì fatto soggetto più innanzi da alcuno di noi mortali si parli?» (SR, V, i, pp. 285-290, p. 286). La sapienza stessa «mostra che bello solamente sia il tacere» (Idem) (7). Il silenzio dell’ineffabilità non è però vuoto, in cui tutto si perde, ma pienezza, che, pur indicibile compiutamente, si può, almeno in parte, intravedere: la luce del cielo divino è inaccessibile agli sguardi terreni, ma l’aurora che sorge «ridona e comparte alle cose tutti i loro colori» e «rende al mondo quella bellezza» (SR, V, i, p. 287), lasciando immaginare per via analogica e intuitiva le meraviglie, altrimenti precluse, di quel cielo divino. Le creature rimandano al loro creatore e nella trama dei rimandi si apre lo spazio della similitudine, per risalire, di grado in grado, dalla «veduta» del mondo naturale «alla consideratione della divina presenza, mercé della quale scopriamo in tutte qualche singolar beneficio ad utilità ed uso nostro da sua maestà ordinato» (BAMi, codice G 17 inf., n. 5, Ragionamenti familiari dell’oratione fatti alle monache, ff. 199-203, f. 200). (8).

Da qui la scelta, in accordo con il rinnovamento dell’oratoria sacra di età umanistico/rinascimentale (9), di un linguaggio metaforico-ostensivo, in cui l’immagine si carica di molteplici valenze (10). È anzitutto strumento retorico che, facendo leva sugli affetti, cerca di suscitare il coinvolgimento emotivo del lettore/uditore; non scade a mero artificio formale in quanto dotata di un vero portato conoscitivo: ogni similitudine è disvelamento degli ordinati rapporti analogici fra i diversi gradi dell’essere. E la somiglianza genera un processo di assimilazione qualora l’immagine sia resa oggetto di preghiera devota: vedere diventa contemplare e chi contempla si configura per imitazione al contemplato (11).

Sì come un dipintore, riguardando fiso in una imagine e quella diligentemente osservando, un’altra assai somigliante a quella primiera con l’opera sua ne viene ad esprimere, così noi per via del contemplare una certa somiglianza di Dio vegniamo in noi stessi a formare. (SR, VII, vi, pp. 176-181, p. 178).

La creazione stessa è presentata da Federico ai fedeli come una mirabile opera d’arte, realizzata da un Dio «sovrano artefice e fabbricatore del tutto», che, «sì come gli artefici tutti per comune legge delle loro arti e per proprio vanto sogliono sempremai mettere ogni sforzo in fabbricar alcun degno lavoro», così ha voluto «nella general creatione del mondo […] per alcun modo questo medesimo ordine osservare». (SR, V, i, pp. 286-287). La similitudine delinea una cosmologia saldamente teocentrica, nella quale le realtà create sono disposte a comporre un’ordinata armonia, che procede per gradi, dalle sostanze spirituali e quelle materiali (12). Nella creazione dell’uomo esse si incontrano e si fondono e nella perfezione dell’umano, di cui la Vergine è simbolo eloquente, trovano la loro massima evidenza di bellezza.

Formò senza comparatione maggiore e più perfetta la Vergine in cui vedesi la sua chiarissima anima unita alla terrestre materia con maggior lume risplendere […] e la terra del corpo di lei fu in guisa nobilitata, che sopra tutte le gerarchie sempiternamente riposa. (SR, V, i, pp. 285-290, p. 287).

Luminosità e fecondità sono attributi incessantemente replicati nelle pagine dei ragionamenti a esprimere l’eccellenza di Maria. Annota Federico in una redazione manoscritta:

et doppo che ella fu imagine, dico che fu imagine senza ombre, con colori divini. Negli altri furono necessarie l’ombre e i lumi, i chiari, gl’oscuri, ma non in Maria. Con divini colori fu espressa per essere vista al lume di Dio principalmente et dall’occhio di Dio. Gli scuri et l’ombre ne santi sono l’imperfettioni della natura et i peccati le gioie; questi parti de pittori sono stati così bene compartiti che hanno resa più bella la pittura. (13).

E prosegue:

O doni concessi a Maria. Vedo sopra la terra infinite bellezze varie et stupisco prodursi da un sol raggio, da una sola virtù celeste principalmente, fiori, frutti, herbe; dentro di essa oro, metallo, nel mare perle. Che crediamo che operasse il sole di giustizia mentre riguardò questa terra feconda dell’anima di lei? Che bellezze, che varietà et occulte et palesi nacquero!. (BAMi, G 18 inf., n. 6, f. 14r).

Tale effigie ritratta a parole sembra singolarmente affine, pur nella estrema difficoltà di indicare un brano letterario quale fonte iconografica di un dipinto (14), alla celebre Madonna della Ghirlanda dipinta da Brueghel per il cardinale. Il passo dei ragionamenti contiene tutti gli elementi del quadro, con una correlazione sintattica affine: in primo piano la Vergine, dietro il «paesetto», esplicitamente richiesto da Federico al pittore (Jones, 1997, p. 71); la prima, fecondata dai raggi della grazia, tiene in braccio il figlio, il secondo, illuminato dalla luce del sole, produce fiori e frutti, che sappiamo essere stati scelti fra i più preziosi e copiati dal vivo. I due elementi del quadro (il bambino e i cieli), mancanti nella descrizione di Federico, si trovano nella prima parte della stessa predica, con la metafora d’esordio di Maria «cielo che contiene tutti gli altri» (SR, V, v, p. 307), primo mobile (15), e la successiva descrizione del di lei corpo, illuminato «dai raggi del sole che da lei nacque» (Ivi, p. 308) (16).

Immagine e parole dichiarano la centralità di Maria, in quanto protagonista della seconda creazione, che nella nascita del figlio Gesù si realizza (17). La Vergine è «orizzonte fra le cose terrene e le celesti e fra le mortali e le immortali» perché «mediante lei riconciliato si è il cielo con la terra ed a noi si è fatto il liberal dono del tesoro degli angeli» (SR, V, ii, pp. 290-295, p. 292), che è poi la grazie spirituale. Per essa il Dio inconoscibile, che nella sua potenza ha creato il mondo, si rende accessibile allo sguardo dell’uomo nel nascondimento dell’umile grotta di Betlem in virtù del fiat di Maria.

Più che gli eventi finali della passione e resurrezione, sono i vangeli dell’infanzia, che racchiudono in sé l’evento salvifico della redenzione, l’oggetto privilegiato della predicazione di Federico (18), che li propone ai fedeli con una tecnica affine alla compositio loci, sistematizzata in modo paradigmatico negli esercizi ignaziani (19). Di ragionamento in ragionamento, ma anche all’interno di un singolo discorso, lo sguardo è condotto a contemplare la povertà del bimbo, il silenzio di Maria, lo stupore dei pastori, entrando nella grotta ed ascoltando persino le parole dei personaggi, come avviene «nella contemplatione per la via di applicatione de sensi» della meditazione sulla natività nella Dispositio ad esercitia facienda (BAMi, G 19 inf., n. 2) (20). Al fedele si consiglia di «riguardare tutte le persone et notare le circostanze che circa loro occorreranno, con cavarne giovamento» (21), di ascoltare «che cosa parlino» per poi sentire «con un certo gusto, et odorato […] la dolcezza et soavità dell’anima ripiena di virtù et di doni divini» e infine «immaginarsi di toccare, e basciare le vestimenta, i luoghi, le pedate, et altre cose di quelle persone» per accrescimento della «divotione o altro bene spirituale» (Idem) (22). Ogni fedele è invitato ad ascoltare «le varie e diverse voci e tutte mirabili che escono dal presepio» (SR, II, VIII, p. 65). Esso, come già i cieli, è chiamato all’ufficio di oratore: «il presepe è una nobilissima e spaziosa piazza, dove si odono le voci che ci ammaestrano. Ella predica con la piccolezza perché tu l’ami, co’ disagi, perché tu fugga le delitie» (Idem).

Federico vescovo è il primo a porsi in ascolto e ad esemplare la propria vita di pastore e di intellettuale, o forse, meglio, di intellettuale impegnato nell’attività pastorale, sul modello di Maria Theotokos. Il segretario Vercelloni ricorda come il cardinale tenesse una «Madonna del Pulzone»

vicino dove stava a sedere nella sua camera. Questa, quando era sopraggiunto da qualche tribolatione per la difesa della sua chiesa, rimirava con tanto affetto e devozione che indi a poco se ne partiva tutto consolato. Si conserva nella sala del disegno a canto alla biblioteca ambrosiana; sta col capo chinato con li braccia incrociati avanti al petto. (BAMi, G 264 inf., Miscellanea carmina et nonnulla alia ad cardinalem Federicum Borromeum spectantia, f. 17v) (23).

Riprendendo l’iconografia tradizionale degli evangelisti, il Borromeo commissiona un ritratto, che lo raffigura «di profilo, seduto e intento a scrivere», mentre, «in cerca di divina ispirazione, fissa intensamente non il consueto angelo, ma un quadro della Madonna con Gesù Bambino» (Jones, 1997, p. 3), quasi ad esprimere come l’intera sua attività sia un atto di omaggio alla gloria divina, visibile nella tenerezza del Figlio dell’uomo, che riposa nelle braccia della Madre.

Se nella definizione degli elementi visivi può aver giocato un ruolo non secondario la recentissima tradizione iconografica del “gran padre” di Federico, il Neri, la cui «immagine ufficiale» viene «costantemente associata a quella della Vergine, a volte da sola, ma spesso con il bambino benedicente» (Melasecchi, 1995, p. 37) (24), l’atteggiamento spirituale complessivo, che dal quadro emana, pare potersi esprimere con le parole del «principio overo fondamento» degli esercizi ignaziani, che Federico pone ad apertura della sua già ricordata Dispositio ad esercitia facienda: «l’huomo è stato creato a questo fine; accioché lodi e riverisca il suo Signore Iddio et a lui servendo al fin si salvi. Tutte l’altre cose che sono sopra la terra sono state create per l’huomo acciocché l’aiutino a conseguire il fine della sua creatione» (Dispositio, f. 2v).

In ogni predica Federico rende gloria ai beneficia Dei, ora descrivendo commosso varietà e bellezza degli elementi naturali, dai grandi paesaggi del cielo, del mare o delle distese boschive, ai più minuti capolavori del creato quali i fiori e le perle, ora alzando gli occhi, quasi rapito, verso un altro “sole” e un altro “cielo”, dove sono splendori di cori angelici e di anime beate e dove la Vergine siede «su trono imperiale» (SR, V, ii, pp. 291-295, p. 291), ora raccogliendosi meditativo sul miracolo di grazia rappresentato da ogni uomo, che con il proprio corpo partecipa della “terra” e nell’anima custodisce la luce del cielo e che, rinato in Cristo, può legittimamente aspirare e ad una «più fertile terra» e a un più «luminoso cielo» (SR, V, xvi, pp. 368-372, p. 368), ovvero a uno stato di perfetta beatitudine.

 

«Rapsodia de amore divino»

La profezia di Isaia, che immagina «alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore […] eretto sulla cima dei monti […] più alto dei colli» (Is., 2, 2), ricorre nei ragionamenti quale prefigurazione del compimento della gloria futura. Sulla scorta di Gregorio Magno, Federico annota nel primo quaderno dei Coniectanea che il versetto «intellegit de beata Vergine», perché «Maria, quia Mater Dei, est domina creaturarum» (25). In una accezione più estensiva, se ne serve nel primo ragionamento dedicato alla festa di tutti i santi, significativamente titolato «che mirabile è Iddio ne suoi santi» (SR, V, i, pp. 379-381, p. 379), per indicare lo stato di perfetta compiutezza donato agli uomini che, come Maria, accettano di affidarsi senza riserve alla grazia di Dio.

Nella visione della Gerusalemme celeste la Vergine appare trionfante fra i cori delle gerarchie angeliche e le schiere dei beati, ricreate dal «supremo artefice Iddio, quasi nuovo fabbricatore delle membra humane» (SR, VIII, iv, pp. 295-299, p. 295), della stessa bellezza di cui risplende Maria. I loro corpi rilucono «in quel modo che noi veggiamo un cristallo esser vestito di verde, d’azzurrino e di purpureo colore ed in quella guisa parimente che i chiarissimi diamanti quantunque colmi sieno di luce, in vista paiono bellissimi» (SR, II, ix, pp. 411-418, p. 415). La bellezza esteriore dei beati è riflesso di un’armonia interiore, che si esprime in un pieno e sereno dominio dell’anima sul corpo (lo stesso di cui può vantarsi Maria) con il coinvolgimento di tutte le potenze interiori dell’uomo, a partire dai cinque sensi, chiamati ad un pieno e simultaneo appagamento. Si legge in una riflessione di Coniectanea prima titolata «rapsodia de amore divino»:

La terra come opaca, non per ogni luogo, ricerca il lume dal sole in uno stesso tempo, perché dove è l’aurora, dove l’occaso, dove il mezzo del giorno, dove poi fruttifica, dove è arida. Così sono gli affetti nostri in questa vita. Non tutti sono compiuti del suo desiderio: quello che è cibo dell’uno de sensi è fame dell’altro. Chi è ricco, non è honorato, così de sensi. Non si trova delicia così compita che in un tempo sacii tutti i sensi, alcuni restano opachi. Anzi uno resta attorto nel piacere dell’altro et di più resta stanco come la terra doppo haver prodotto il frutto di giugno, perdendo il natural vigore che al lume dell’affetto si consumò. Però si fa a vicenda ne sensi et ne gli obietti dilettosi. Hora nella patria del cielo questa terra erit sicut christallum. Tutta trasparente il giorno chiaro in ogni sentimento et parte dell’anima, et in ogni obietto generico et specifico, et tutto ciò in un punto. (Coniectanea prima, f. 47).

L’idea è sviluppata da Federico fra gli anni 1615/1621 in una serie di prediche dedicate alla glorificazione dei corpi attraverso la piena beatitudine nella gloria dei cinque sensi (26): si parte dalla vista, il più nobile, e si arriva al tatto, il più basso ed umile (27). La definizione di ciascuno ricorre a categorie aristotelico/tomistiche. Posto il paragone tra l’occhio e la parte razionale dell’uomo (SR, V, ix, pp. 411-418, p. 417), il modo di «governo» sugli altri sensi è definito «politico, non dispotico» (28), termini usati da Aristotele per indicare il controllo della ragione sulle passioni (cfr. Zanlonghi, 2000, p. 120). Sulla scorta del «grande peripatetico» (29), la beatitudine è «un certo bene perfetto» (SR, VII, vii, pp. 182-187, p. 184), come confermato «dagli scrittori i quali nelle sacre scuole si leggono a tutte l’hore» (idem), ovvero san Tommaso e gli altri rappresentanti autorevoli della scolastica, fra cui Alberto Magno, chiamati in causa per spiegare le diverse modalità concrete di pieno appagamento, dunque di beatitudine, di ciascun senso.

Se da tempo è stato rilevato come i temi della felicità e del piacere/diletto siano da riconnettersi alla spiritualità filippina (30), poco sottolineato è il debito verso la tradizione aristotelico-tomistica, viva nel pensiero teologico della seconda scolastica, elaborato con il contributo determinante dei gesuiti (cfr. Buzzi, 2003). Per loro tramite (31) Federico si accosta a questa filosofia, sulla quale si basa la propria visione antropologica, che valorizza la dimensione corporea e i relativi appetiti sensoriali come elementi qualificanti dell’essere persona (32). Si noti come le prediche dedicate alle «doti» dei «corpi gloriosi» sembrino amplificare l’«esercitio del paradiso», della già più volte ricordata Dispositio, che segue da vicino struttura e temi degli esercizi ignaziani:

considera che godimento haveranno i beati dopo l’universal risurrettione per quelle quatto doti del corpo glorioso, che sono sottigliezza, impassibilità, agilità et chiarezza. E per la gloria de’ sentimenti, ciascuno de’ quali haverà il suo particolare diletto. Perché gli occhi goderanno della vista de’ corpi gloriosi, e delle stanze ornatissime del cielo; l’orecchio udiranno continue melodie et cantici soavissimi. Il gusto sentirà una dolcezza ineffabile, la qual vincerà la suavità di tutti i sapori. Et tutti gli altri sentimenti saranno mirabilmente ricreati con oggetti a loro proportionati, si rallegreranno ancora per la piena satietà di tutte le potenze dell’anima e per vedere l’adempimento di tutti i suoi desideri possedendo perfettamente tutto quello, che può bramare corpo humano. (Dispositio, f. 33, n. 8).

Nelle prediche l’amplificazione è svolta tralasciando le sottili disquisizioni argomentative dei maestri della scolastica e illustrando con immagini, tratte dai libri della scrittura, della natura e dell’arte, ma anche dalle pagine degli amati autori classici, la pienezza di un approccio al mondo di tipo percettivo/sensoriale, di estrema modernità (33). La memoria degli antichi affiora nella lode dell’udito e del gusto. Le orecchie dei beati potranno ascoltare la «meravigliosa armonia» della platonica musica dei cieli, che per Federico è il «concento» delle lodi a Dio nella Gerusalemme celeste (cfr. SR, V, x, pp. 421-422) (34); l’ambrosia e il nettare gustati nei campi elisi secondo le favole degli antichi poeti, o la manna assaggiata dai patriarchi nell’antico testamento, sono nulla a confronto dei sapori offerti in cielo alla bocche dei beati (SR, VII, xiv, pp. 225-231, p. 226). Un pallido sentore degli odori, di cui loro godranno, si può avere sfogliando il «sacro e maestoso libro della cantica», nel quale «si dispose Iddio di volgere gl’animi humani all’amore di se medesimo, etiandio col far mentione di fiori, d’odori, d’aromati, d’odoriferi frutti, di liete campagne e di giardini dilettevoli, le quali cose tutte sogliono recar meraviglioso piacere al sentimento dell’odorato» (SR, VII, vii, p. 183).

Interessi scientifici e spiritualità contemplativa si uniscono a celebrare la vista come il più importante fra i sensi già dai tempi del Philippus: «alla conservazione e all’esercizio del corpo umano molto contribuiscono le mani, i piedi e le altre membra, ma nessuna parte del corpo presta un aiuto maggiore e più nobile dell’occhio» (Valier, 1975, p. 123) (35). Solo attraverso di esso, che riassume in sé tutte le altre facoltà percettive, si scopre il mondo:

tu vedi la neve e il ghiaccio e senti il freddo; e riguardi l’immagine e parti di udirne le parole; ed i fiori dipinti rendono per certo modo a noi grato l’odore. Quindi è che per questo gran potere dell’occhio humano, chiamar lo possiamo il soprastante ed il reggitore ed il maestro della casa de sentimenti e delle altre membra humane (SR, V, ix, p. 416) (36).

I sensi, dunque le esperienze percettive, sono per il Borromeo alla base della conoscenza (37) e in questo processo agli occhi, così collegati alla ragione da esserne quasi simili, spetta il compito della verifica, perché tutti gli altri sensi si rivolgono ad essi per avere «conferma» (SR, V, ix, p. 417), e alla voce, «madre degli umani ragionamenti e ministra della ragione» compete la funzione di trasformare in parola quanto esperito (SR, V, x, pp. 418-423, p. 418).

È chiara l’intrinseca bontà che Federico riconosce alla natura umana, a partire dalla sua dimensione più corporea e dunque terrestre, non a causa di un facile irenismo, che si ripiega nella contemplazione di un mondo ideale, abbandonando il terreno della storia, ma in virtù dell’enfasi posta sull’incarnazione del figlio di Dio, che ha assunto su di sé la stessa carne dell’uomo, restituendola alla sua dignità primigenia, ante peccato originale.

 

Verso la perfezione: la convenevol proportione

Se la creazione del mondo e la glorificazione della Vergine e dei beati hanno come loro attributi specifici la bellezza e la grazia di un’opera d’arte, uscita dalle mani dell’artefice divino, anche il destino personale di ogni credente si inscrive in un quadro di superiore e squisita armonia. La virtù ha l’aspetto visibile di una “forma bellissima”, che è l’esito di una vita vissuta come un ininterrotto processo creativo.

Teco medesimo discorri, qual vorresti che fosse quell’huomo, che l’uficio, il qual hora tieni, amministrar dovesse. Dipigni hora l’immagine di esso nella tua mente; ma con questo patto, che mentre ciò fai, non rimiri te stesso. Fornito poi che haverai di effigiare questo perfetto ritratto, in te rivolger lo sguardo dei, ed appresso paragonare, e distinguere le parti di queste due forme, ed i diversi loro lineamenti. Con questa mirabile arte egli è gran tempo che fabbricata ne fu una perfetta immagine, la qual hora io sono disposto di mostrarti. (SR, IV, v, p. 208) (38).

Le forme di virtù possibili sono molteplici, perché ciascuna è relativa allo stato specifico cui appartiene il fedele nella società (39), ma l’attributo loro essenziale è solo uno, la perfezione (perfetto ritratto, perfetta immagine), ovvero la qualità primaria del mondo creato da Dio. In relazione alla creazione divina, fatta di «peso, ordine e misura, […] tre qualità [..] di tanto valore e momento» da essere «quasi la vita del mondo» (SR, IV, i, i, pp. 135-139, p. 136), e presentata a modello per la convivenza fra le creature «rationali e Iddio», Federico definisce il peccato, per contrapposizione in negativo, «un pervertire l’ordine dell’humana via e della natura» (SR, IV, i, i, p. 137). La bellezza donata all’uomo, con «mirabile artificio [...] da Dio fabbricato» (SR, IV, vi, pp. 209-211, p. 210), così che il suo corpo appaia «un miracolo della natura» e la sua anima «un miracolo della gratia», è sfigurata dal peccato, per il quale «cadde il magnifico edificio dell’humana natura da quel supremo artefice fabbricato e da quella grande ruina ucciso ne fu chi di quella fu cagione, e gli altri insieme» (SR, IV, v, i, p. 190) (40).

La «bruttezza del peccato» (SR, IV, i, i, p. 135) consiste nella disarmonia fra gli elementi costitutivi dell’essere persona, gli appetiti sensoriali da una parte, e la facoltà razionale dall’altra. La ragione, che dovrebbe riconoscere in Dio il fine ultimo, la meta, e tramite la volontà, indirizzare a lui le potenze sensitive, si lascia soggiogare ora dalla “parte concupiscibile” ora da quella “irascibile”. Con esplicito riferimento ai termini delle scuole, ovvero al sistema antropologico artistotelico-tomistico, Federico spiega che

essendo in noi senso e ragione, il senso hora s’impiega in odiare, in ingiuriare, in percuotere ed in uccidere; e questa è la parte irascibile. Hora è tutto occupato in amare, in giovare, in godere, e ne’ diletti, sé e ad altrui compiacendo; e questa è la parte concupiscibile. La ragione poi, overo la volontà, è quella che, quasi reina, stando in mezzo di queste due ancelle, volge sempremai lo sguardo al bene, e quello naturalmente proccura e cerca di conseguire e, quando nol fa, ad una di queste due serve troppo credendo, perde ogni suo honore e grandezza. SR, IV, iii, i, pp. 172-176, p. 172 (41).

Lo smarrimento della ragione è all’origine della conflittualità fra anima e corpo, che, «stretti amici in apparenza» e «con una comune legge congiunti», sono «cotanto l’uno all’altro infedeli, e d’inclinatione così poco fra se conformi, che in ogni cosa guerreggiano» (SR, IV, v, i, p. 190).

Se questo è il punto di partenza, per «trovar perfettamente la perfettione della virtù» (Dispositio, f. 91r), si rende necessario ritessere un dialogo, che, lungi dal mortificare gli appetiti sensibili e le legittime esigenze della corporeità, sappia dare ad essi una espressione proporzionata alla loro natura effettiva. Come si legge nella Dispositio «non si ha da curare i primi moti come di cosa minima»: ogni istinto passionale merita attenzione e non si deve in alcun modo «estirpare totalmente le passioni, come volevano gli stoici» (ibidem). Occorre piuttosto trovare la misura conveniente: «sicome tutte le cose create hanno la perfettione loro nella debita misura, et le imperfettioni e vitio posto nello eccesso, o difetto di quella» (Dispositio, f. 88v), così anche le passioni devono trovare la loro «convenevol proportione» (SR, III, xi, pp. 29-32, p. 30), la loro giusta misura, che riguarderà anzitutto l’oggetto del desiderio e secondariamente l’intensità del desiderio stesso. Il concetto è esemplificato con riferimento alla vista:

non devi abhorrire la passione o senso moderato della vista nelle attioni, come se fosse male con voler imitare a modo di simia l’istinto particolare divino di alcuni santi ch’havevano ciò in uso; ma admettere tal senso, et con libertà dominarli con l’uso della ragione et rifinire il tutto in Dio.(Dispositio, f. 91r).

La connotazione morale, qui applicata alla vista, è propria anche degli altri sensi ed in essa risiede il discrimine fra il piacere disonesto, che genera occasioni di peccato, e quello onesto, delineato, nel già ricordato ciclo sui cinque sensi, a partire da un confronto con gli “antichi” che, sul tema, appare piuttosto serrato. Dalla speculazione greca si originano due posizioni antitetiche: per Platone «la cagione di tutti i mali dell’infelice terra» è «nel piacere», verso il quale troppo indulge «la mal disposta mente» (SR, V, viii, p. 409) (42); Epicuro, «alla guida de’ sensi solamente attendendo» (SR, II, xiii, p. 103), vede nel piacere «il maggior bene» (SR, V, viii, p. 409) e lo ricerca «fra le lascivie e fra nobili conviti» (SR, II, xiii, p. 103).

In una mediazione fra i due estremi si colloca la posizione di Federico. Egli asserisce con forza, sebbene smorzi prudentemente l’affermazione con un «siami licito […] dire», che «nella scuola di Christo […] le porte di esso (cfr piacere) libere sono ed aperte; e che i belli e grandi piaceri non s’interdiscono al cristiano» (SR, V, viii, p. 409). Constata però con preoccupazione come «i sensi troppo più che non ci sarebbe di mestiere ci accecano e ci fanno vivere in miseria e tengono quasi del continovo la ragione così imprigionata, che poco lume ella discerne» (SR, II, xiii, p. 104). La ricerca delle delizie fine a se stessa è da rifiutare, ma i diletti sono il premio di una vita onesta; è Dio a produrre «mari e fiumi di celestiali diletti» (SR, VIII, xi, pp. 325-330, p. 325), con il pieno appagamento dei sensi (detti anche sentimenti) e l’illuminazione dell’intelletto, che dona al cuore la felicità.

Cristo, nella sua opera redentiva, ricompone l’unità ab origine impressa in ogni uomo dal creatore, accordo di ragione e sentimenti, armonia di anima e corpo, equilibrio di vita attiva e contemplativa (43) e dunque consonanza perfetta fra microcosmo e macrocosmo. L’opera redentiva è un processo che avviene nell’oggi della storia ed ha come protagonisti ciascuno degli uomini di fede cui il Borromeo si rivolge.

La prima forma di espressione “sensibile” da recuperare in pienezza per conferire alla propria vita la “bellissima forma della virtù” è per Federico quella della meraviglia (44), che si fa riconoscenza e lode per la costante iniziativa d’amore di Dio nel mondo creato e nella storia personale di ciascuno. Il rendimento di grazie risponde all’essenza stessa dell’essere umano, «creato per intendere le opere del mondo della natura e del mondo della gratia e per ammirare quanto in amendue si contiene e per ringratiare, benedire, lodare ed amare il sommo bene offertogli con prontezza» (SR, V, x, pp. 327-329, p. 328). E’ quanto, in forma sintetica, recita il fondamento ignaziano nell’esordio della Dispositio («l’huomo è stato creato a questo fine, acciocché lodi e riverisca il suo Signore Iddio») ed è tematica cara anche alla spiritualità filippina, cui proprio il giovane Borromeo dà voce nel dialogo Philippus, asserendo che la vera gioia consiste nel «continuo ricordo dei benefici divini» (Valier, 1975, p. 23) (45). In ragione di questo atteggiamento positivo Dupront (1932, 1935, 2001) ha creato la categoria dell’«ottimismo cristiano», che ha ottenuto molta fortuna presso gli studiosi, ma la cui forza ermeneutico-interpretativa va forse riequilibrandosi alla luce delle nuove acquisizioni critiche (46).

Se lo sguardo è invitato ad alzarsi verso i cieli, è altresì sollecitato a farsi strumento di una acuta introspezione interiore, che si inabissa in oscure profondità, ben lontane da una visione ingenuamente ottimistica. La dimensione dell’interiorità è espressa attraverso l’immagine del cuore, «povero ed oscuro», niente più di un «diversorio ed un misero albergo pieno di viandanti, di strepiti, e di confusioni» (SR, II, iii, pp. 17-28, p. 27) (47). In esso il peccato giace come «fiero mostro» «nelle più nascoste parti […]; e fuggendosi dalla luce come è costume delle salvatiche fiere continuamente dimora; e quivi appena veder si può il suo crudel sembiante» (SR, IV, ii, i, pp. 157-161, p. 157) (48). Per snidarlo «il natural lume dell’intelletto col divino fuoco della gratia» deve ravvivarsi e «per ogni lato andar ben ricercando i più riposti luoghi del cuore e le più occulte e solitarie sue grotte» (SR, IV, i, ii, pp. 139-143, p. 139) (49).

Questa indagine razionale è l’esame della coscienza, da compiersi ogni sera (50) e sempre prima della confessione, secondo due regole principali: individuare le cause del peccato ed «esaminare le circostanze che il nostro peccato accompagnarono» (SR, IV, i, ii, p. 140) (51). In esse sono da ravvisare le categorie aristoteliche, valide sia per il discorso retorico (52) che per quello etico: «nella Filosofia morale compare la nozione di circostanza intesa come occasio particolare per la realizzazione delle azioni morali» (Zanlonghi, 2000, p. 24) (53). Le circostanze determinano l’occasione del peccato, che è bene imparare a riconoscere subito (54) per evitare che l’azione peccaminosa si trasformi in habitus (altra categoria aristotelica) o in pessima usanza, magari dell’intera città, come avviene per lo sconcio parlare o per la profanazione dei luoghi di culto, al centro delle riprensioni di Federico ai milanesi.

La gravità dei due peccati è proporzionale al peso della loro rilevanza pubblica, alla profondità delle loro radici in interiore homine e al reciproco interagire di questi due aspetti. Ogni espressione corporea, nella visione antropologica federiciana, è segno che comunica. Ogni gesto è rivelazione dell’interiorità, in quanto «le parole sono indice dell’animo» (Miscellanea Vercelloni, f. 21r) (55) e il culto esteriore è specchio di quello del cuore, ed è, per il suo essere visibile (56), exemplum virtuoso o peccaminoso. Raccomandare un parlare onesto o prescrivere atteggiamenti devoti ad civilem cultum urbanitatemque non è, perciò, rinuncia ai grandi temi pastorali, per ripiegare sulle semplici buone maniere cristianizzate, ma è forte ambizione pedagogica di chi ancora crede nella persona come unità e pienezza di anima, corpo e sensi e di chi è convinto che l’esempio, in virtù di una imitazione che si fa assimilazione (57), sia forza capace di trasformare il cuore dell’uomo (58) e il volto della società.

A Milano il Borromeo propone la Gerusalemme ultraterrena quale punto di partenza, ed insieme modello esemplare di riferimento, cui tendere in un incessante lavoro di «reformazione» (SR, VIII, xvi, pp. 350-354, p. 352). Dalla gerarchia celeste che la caratterizza

quasi per riverberatione e per ripercotimento, ne viene formata e come colorata con finissimi lineamenti e sembianti questa terrena. Sì come adunque la gerarchia celeste è come misura e forma della terrena, così questa prender dee ogni sua bellezza e perfettione, quasi da esemplare, da quella primiera e sovrana idea, alla quale noi tutti dobbiamo sempremai studiare d’assomigliarci. (Idem).

Come ciascuna gerarchia angelica assolve a una propria specifica funzione, così «far dovrebbe ciascun fedele di Christo, faticando e travagliando secondo le leggi del suo uficio e del suo stato» (Ibidem) (59). L’accordarsi di ciascuno al ruolo che gli è stato assegnato è la condizione perché possa risuonare l’armonia del mondo: «per tal modo questa cetera sentirassi accordata e vedrassi questa scala delle cose create, cominciando dalle inferiori infino alle superiori, salire infin’al cielo ordinatamente» (SR, VIII, xv, p. 345).

Non si tratta di una visione irenica perché la nascita della compagine sociale è connessa, più che alla socialità naturale di aristotelica memoria, alla situazione di indigenza e povertà propria di ogni natura finita, in accordo con l’affiorare a fine Cinquecento di dottrine neostoiche; è piuttosto un appello accorato a inverare nell’oggi la perfezione insita nel cosmo dei corpi sociali quale riverbero dell’armonia del mondo creato.

 

Per una filosofia cristiana

Lo spirituale ammaestramento di Federico al suo popolo è dunque tutto giocato in una costante «dialettica di visibile e invisibile» (Bosco, 2001, p. 135). Essa non necessita di una comprensione solo razionale, poiché non nasce da una speculazione semplicemente intellettuale, bensì chiede una «compartecipazione» totale a quella «profonda esperienza del divino» dalla quale si origina lungo il cammino di una intensa vita spirituale (ibidem). Il suo centro ispiratore è nell’incarnazione del Figlio di Dio, che è il luogo per eccellenza dell’incontro di visibile e invisibile.

In nome di una parola che si fa carne, Federico può definire il proprio pensiero, sull’esempio di Clemente Alessandrino, una «filosofia cristiana», ovvero «un cogniugnimento degli ottimi costumi con la soprannaturale dottrina» (SR, I, xxxiv, pp. 339-360, p. 344) (60). In nome del verbo incarnato egli definisce se stesso un vescovo filosofo, la cui parola si fa gesto ostensivo, quasi «mano dell’animo per mezzo della quale habbiamo da operare cose straordinarie per il divino servitio» (BAMi, G 20 inf., n.8, ff. 2v-3r) (61).

Appare ancor oggi “fuori dall’ordinario” che per oltre vent’anni, in più di trecento prediche, Federico con energia inesausta, nonostante la sempre maggiore difficoltà dei tempi, si incarichi di mostrare a tutti che la pienezza dell’umano attende di essere ogni giorno scoperta fra i «tenebrosi splendori» della grotta di Betlem (SR, VII, viii, pp. 187-192, p. 187) (62).

 

Riferimenti bibliografici

 Fonti primarie

A stampa

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 Borromeo, F. (163 ), De sacris oratoribus libri quinque. Milano.

 Borromeo, F. (1673), Ragionamenti spirituali. Milano: Vigone.

 

Manoscritti

Biblioteca Ambrosiana di Milano (BAMi). La titolazione dei codici, che recupera la versione originale federiciana, si discosta in molti casi da quella della attuale catalogazione, a cui si riferisce l’inventario del Marcora (1988), che si basa su una schedatura successiva all’originale.

 

Codici con gli originali manoscritti delle prediche:

 BAMi, G 18 inf., n. 6, In nativitate beatae Virginis. Commentaria concionum

 BAMi, G 18 inf., 8, In psalmo 18. Commentaria concionum, n. 8.

 BAMi, G 18 inf., 10, In festo penthecostis. Commentaria concionum, n. 5.

 BAMi, G 15 inf., Notae quaedam et schemata concionum, quas card. Federicus Borroemus […]

 BAMi, F 16 inf., Selva di prediche et altri ragionamenti fatti in diverse feste, solennità e funzioni dal cardinale Federico Borromeo arcivescovo di Milano.

 

Quaderni di studio del cardinale. Appunti di lettura sono contenuti in:

BAMi, G 9 inf., n. 1, Excerpta et notae, vol. II, n. 41. Si sono individuati anche il primo e il terzo volume di questa serie nei codici G 24 inf., n. 7 e G 23 inf., n. 3.

 BAMi, G 21 inf., n. 3, Patres. Clemens Alexandrinus, n. 36.

 

Appunti di lettura e spunti vari di riflessione sono annotati in tre codici che costituiscono la serie dei Coniectanea:

 BAMi, G 19 inf., n. 1, Coniectanea prima, n. 35

 BAMi, G 19 inf., n. 4 , Coniectaneorum lib., 2, n. 37

 BAMi, G 19 inf., n. 5, Coniectaneorum lib. 3

 

Appunti per un trattato di filosofia morale

progettato dal cardinale ma mai portato a termine. Queste note sono strettamente correlate a quelle contenute nel primo quaderno dei Coniectanea:

 BAMi, G 21 inf., n. 6, Philosophia christiana, n. 24.

 

Opere manoscritte del cardinale:

 BAMi, G 17 inf., n. 5,  Ragionamenti familiari dell’oratione fatti alle monache

 BAMi, G 19 inf., n. 2, Dispositio ad esercitia facienda

 BAMi, G 309 inf., n. 35, Tumultuariae tabulae

 BAMi, G 310 inf., De suis studiis commentarius

  

Fonti Secondarie

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 Note

(1) Cugino del più famoso Carlo Borromeo, è chiamato al governo della diocesi di Milano nel 1595, dopo la morte di Gaspare Visconti. Manca ancora una biografica critica, che ripercorra l’intera vicenda umana, pastorale e culturale del presule. Si dispone però di un agile lavoro divulgativo, che cerca di fare il punto sullo stato delle conoscenze e al quale si rimanda per ulteriore bibliografia: Pelizzoni (2003).

(2) Borromeo, F. (1632). I sacri ragionamenti. Milano, vol. I, p. I. I quattro tomi sono pubblicati postumi. I primi due escono senza indicazione dello stampatore nel 1632: il primo contiene le concioni sinodali, il secondo le omelie recitate in Duomo nelle solennità maggiori, raccolte per nuclei tematici. Il terzo tomo è pubblicato da Dionigi Gariboldi nel 1640. E’ costituito dai volumi terzo e quarto, in cui si leggono le prediche indirizzate a specifici stati di persone, e dal quinto, con i sermoni pronunciati nella natività di Maria e nella festa di tutti i santi. L’ultimo tomo è stampato nel 1646 sempre da Dionigi Gariboldi. È composto dagli ultimi quattro volumi con le prediche recitate durante le principali solennità religiose, disposte secondo il calendario liturgico. Notizie bibliografiche relative all’opera in: Gornati (1990-1991); Buzzi (2001). Per gli aspetti linguistico/retorici dell’opera si vedano: Girardi (1988); Giombi (1999); Molinari (1980); Morgana (1988, 1991). Per una analisi dell’aspetto culturale e pastorale dei contenuti: De Boer (2001); Martini (1975).

(3) L’espressione deriva dal titolo del trattato De concionante episcopo, al quale, insieme al De sacris oratoribus libri quinque, Federico Borromeo affida la propria riflessione su compiti, modi e funzioni dell’omiletica sacra, a partire dall’ineludibile modello carolino. Sull’omiletica carolina e sulla sua esemplarità nella chiesa post-tridentina si vedano: Fumaroli (2002), in particolare il capitolo terzo della prima parte, intitolato Il concilio di Trento e la riforma dell’eloquenza sacra (pp. 117-172); O’Malley (1997); Delcorno (1987). Poche, invece, sono le riflessioni dedicate al pensiero retorico federiciano (cfr. nota precedente), molte delle quali leggono ogni eventuale elemento di continuità/discontinuità rispetto all’oratoria carolina o come sterile imitazione o quale rinunciatario ripiegamento. Emblematici in tal senso: Prodi (1965, 1971, 1985).

(4) Bosco (2002) offre una acuta valutazione storico-critica dell’universo culturale e spirituale federiciano a fronte delle più recenti acquisizioni critiche. Si rimanda perciò a questo studio per un ragguaglio bibliografico relativo alla figura del secondo Borromeo. Altri approfondimenti nelle note successive.

(5) Si tratta di almeno cinquanta codici, per la cui identificazione e analisi mi permetto di rinviare a: Giuliani (2002-2003). Ivi anche la tabella cronologica dei ragionamenti, quale si evince dai manoscritti. Una presentazione sintetica di questi materiali in: Giuliani (2003). Quelli usati in questo lavoro sono presentati nell’appendice dedicata alle Fonti primarie. Sul metodo di lavoro dei predicatori fra Cinque e Seicento, si veda: Giombi (2002). Sulle opere che Federico dedica al metodo degli studi si vedano: Ferro (2001, 2002). Il ricorso alla mnemotecnica da parte di Federico è indagato dalla Bolzoni, al cui studio si rimanda per la bibliografia sul tema: Bolzoni (1995, pp. 79-81).

(6) Appare perciò infondata la tradizionale impostazione critica (cfr. gli studi di Prodi, 1965, 1971 e 1985), che legge la figura di Federico nel segno della scissione fra il suo mondo interiore e privato, intonato alla riflessione pensosa e al piacere dello studio erudito, e il versante pubblico, di vescovo, chiamato a un compito per lui ingrato e sempre alle prese con l’ingombrante modello carolino.

(7) Idem. Due sermoni sono dedicati ad esaltare il silenzio di Maria come espressione più autentica e adeguata di lode: SR, VIII, xii; xvii, pp. 354-358; xx, pp. 368-372. Il rinvio è alla “pienezza” della teologia negativa, per la quale si veda: De Certeau (1987).

(8) BAMi, codice G 17 inf., n. 5, Ragionamenti familiari dell’oratione fatti alle monache, ff. 199-203, f. 200. Il ragionamento alle monache (si tratta del XIV) è analizzato da Baffetti (1994), che lo definisce «un percorso ermeneutico nel quale la corrispondenza tra segno e senso è garantita da Dio in un ordine razionale superiore» (p. 91). Egli cita dall’edizione a stampa: Borromeo, F. (1673). Ragionamenti spirituali. Milano: Vigone, pp. 127-131. Come ben illustrato da Bosco (2001, p. 133), Federico riprende il tema della scala creaturarum, cui dà ampio sviluppo ne I tre libri della laudi divine (cfr. Martini, 1975). Per la diffusione del tema nella cultura coeva: Jori (1995); Giustiniani (2000).

(9) Oltre al già ricordato studio di Fumaroli (2002), si vedano, con specifico riferimento alla corte papale che è il centro del rinnovamento: O’Malley (1979); McGinness (1995). Federico frequenta la corte papale negli anni romani e prima di partire per Milano chiede consiglio al gesuita Francesco Toledo, oratore presso il papa dal 1569 al 1571 e dal 1573 al 1594, per affrontare il compito della predicazione da vescovo. Si vedano: De sacris oratoribus, pp. 125-130; BAMi, G 309 inf., n. 35, Tumultuariae tabulae, ff. 30-31.

(10) Per il carattere ostensivo della predicazione cinque-seicentesca: Jori (1998) pp. 139-174.

(11) Su questo tema nella cultura fra Cinque-Seicento illuminanti sono le pagine che Fumaroli (1995) dedica al rapporto «visione e preghiera», soprattutto il paragrafo Ut pictura rhetorica divina, pp. 291-313.

(12) Nell’elaborare il tema dell’armonia universale, nei termini di “armoniosa consonanza” e di “mescolanza ben temperata”, Borromeo sembra attingere direttamente alle fonti culturali pitagoriche e platoniche, mediate dalla riflessione dei padri greci, in particolare Clemente d’Alessandria. Nei ragionamenti vengono riproposte spesso le note del codice Patres (BAMi, G 21 inf., n. 3, Excerpta Patres), f. 1, che derivano dal Protrettico: «sed praeterea universum mundum composuit armonicum. Elementorum discensionem in ordinem redigit consonantiae. Ignis vehementiam aere emollit velut doricam armoniam lydia attemperans»; «concludit Deum uti mundo ac praecipue homine tamquam instrumentum musico, multarum vocum»; «homo cithara est Dei propter armoniam». I passi sono inventariati alle voci «mundus», «deus», «homo», «musica». Per il tema dell’armonia riferimento obbligato è Spitzer (1967).

(13) Nel manoscritto l’immagine è introdotta da un riferimento molto concreto al mondo del fare artistico: «et non bastando a quell’artefice divino di haver formato cosa così bella, mai satio d’ornarla, sempre l’ha resa più meravigliosa con lo sguardo. Ad usanza però più tosto de pittori formò questa imagine, che di scultori […]. I scultori formano l’imagine levando dal sasso il superfluo, i pittori aggiungono, senza levare, colori et ombre»: BAMi, G 18 inf., n. 6, ff. 12r-15v, f. 13v.

(14) Si leggano le ammonizioni di padre Pozzi (1993, p. 43). Si considerino le altre interpretazioni del dipinto. La Jones pone l’opera in relazione ai brani delle Laudi dedicati alla bellezza della terra ed afferma che nel quadro di Brueghel Federico abbia visto rappresentata la «vastità e ricchezza della realtà metafisica» in linea con il suo ottimismo: Jones (1997, p. 3 e 74). Motta (1999) accosta la descrizione dell’opera nel Musaeum con un brano dell’Arcadia di Sannazzaro (p. 143).

(15) SR, V, v, p. 307. Di lei si dice, prosegue Borromeo (Id.), «esaltata est sancta Dei genitrix super chorus angelorum ad caelestia regna».

(16) Id., p. 308. La descrizione della predica, però, non spiega la struttura ad arco di trionfo. La familiarità con le immagini esprimenti una potenza tutta mondana, da regina terrena, è in un ragionamento precedente, dove si asserisce che Dio, creato il mondo e riassunta nell’uomo ogni bellezza di esso, ha posto la Vergine sul trono imperiale (ivi, V, ii, pp. 290-295, p. 291).

(17) Ad esprimere la partecipazione di Maria alla seconda creazione, che riconcilia cielo e terra, è una bella immagine dell’ottavo ragionamento (SR, V, viii, pp. 318-323): «il corpo di lei fu il velo sottilissimo et delicatissimo che nel tabernacolo (Ex., 26) sparso tutto di cherubini, divideva la parte superiore et la sancta sanctissima dal resto del tabernaculum et dividendolo l’univa et unendolo lo divideva. Et era un bel mezzo fra le due estreme parti» (G 18 inf., n. 6, ff. 6r-8v f. 7r).

(18) L’enfasi sull’incarnazione, che esalta il ruolo della mediazione di Cristo in termini di armonia ritrovata fra il cielo e la terra, è tratto diffuso, seppur con accenti diversi, nelle correnti spirituali della Roma di fine Cinquecento: se ne fanno portavoce i predicatori della corte papale (McGinness, 1995, p. 95); se ne alimentano tanto i gesuiti, per i quali nel Cristo incarnato della riflessione paolina «trovano riconciliazione il cielo e la terra, la carne e lo spirito, il temporale e l’eterno, il visibile e l’invisibile» (Baffetti, 1997, p. 81), e i padri oratoriani, «nella cui spiritualità cristocentrica il mondo naturale e quello soprannaturale, dei quali Cristo rappresenta l’anello di collegamento, hanno un’importanza particolare» (Jones, 1997, p. 65).

(19) Circa le influenze esercitate dagli esercizi ignaziani sugli sviluppi della retorica cinquecentesca si veda: Ossola (1988).

(20) BAMi, G 19 inf., n. 2, Dispositio ad esercitia facienda, (d’ora in poi Dispositio). Per la descrizione del manoscritto si veda: Marcora (1988, p. 52).

(21) È questo solo il primo punto della “immaginazione”.

(22) Id. Si tratta rispettivamente del secondo, del terzo e del quarto stadio.

(23) BAMi, G 264 inf., Miscellanea carmina et nonnulla alia ad cardinalem Federicum Borromeum spectantia, f. 17v (d’ora in poi Miscellanea Vercelloni). Il quadro può essere identificato con la Madonna dipinta nel 1596 da Scipione Pulzone da Gaeta, donata a Federico da Francesco Maria della Rovere (Jones, 1997, pp. 258-259). La Jones suppone che l’opera, oggi perduta, rappresentasse una Mater dolorosa, come appare anche dalla descrizione inedita del Vercelloni. Questi, a riprova dell’interesse del cardinale per le immagini mariane, racconta anche un aneddoto, che avrebbe avuto come protagonista addirittura Michelangelo Merisi. A lui il cardinale si sarebbe rivolto per la commissione di «un quadro della beata Vergine col manto stellato». «Il pittore promise di farlo et lo tirò in lungo anni e anni», finché alla pacate rimostranze di Federico rispose: «se volete vedere la Vergine stellata andate in paradiso. Il cardinale si tacque […] e si servì di altro pittore» (Miscellanea Vercelloni, f. 26r). Sui possibili rapporti diretti di conoscenza fra Federico e Caravaggio: Marghetich (1988, p. 108).

(24) La devozione stessa alle immagini e il loro uso nella preghiera meditativa presentano elementi di affinità con la spiritualità oratoriana, ben illustrata in: Barbieri (1995).

(25) BAMi, G 19 inf., 1, Coniectanea prima, ff. 114-115, voce Maria (d’ora in poi: Coniectanea prima). Il concetto è amplificato in SR, IX, i, pp. 399-406, p. 403.

(26) Nel quinto volume, dopo due ragionamenti dedicati in termini generali alla gloria dei corpi (il VII e l’VIII), inizia l’analisi dei cinque sensi a partire dalla vista (IX) e dall’udito (X). È probabile che i due ragionamenti datino al 1614/1615, vista la seguente nota manoscritta in BAMi, G 15 inf., f. 54: «tractavi hoc anno 1614 circa sensum visus. Reliqui sensu supersunt sed animadvertundum quod insit varietas in modo tractandi et moralitatibus». Il discorso sui sensi è completato nel settimo volume, con il ragionamento sull’olfatto e sul gusto, rispettivamente nel 1618 e nel 1619 (VII, XIV) per finire nell’ottavo con la trattazione del tatto (IV) nel 1621. Con il ragionamento successivo (VIII), «acciò che non paia che possa esser troppo materiale la descrittione della beatitudine» (BAMi, F. 16 inf., ff. 122r-123r, f. 122r), hanno inizio una serie di sermoni sulla cognizione dei beati in paradiso.

(27) Forse per questo è usato, insieme alla terra e all’aria, come termine di paragone per definire l’umiltà in: SR, II, xv, pp. 125-140, p. 133: «o umiltà beata! Mi piace ora di paragonarti col sentimento del tatto sparso e diffuso per qualunque parte del nostro corpo, essendo per lo contrario gli altri sensi ristretti in determinati luoghi. Tu sei a guisa dell’aere, per cui spiriamo e respiriamo di punto in un punto, il qual aere è come continuativo nutrimento delle nostre vite e ripieni ne sono etiandio i sentimenti del vedere e dell’udire e dell’odorare. Ultimamente tu se la bassa terra, che sopra il suo dorso ci sostiene e non ci lascia rovinare nell’abisso». Il passo è ripreso da BAMi, G 21 inf., n. 6, Semina rerum sive de Philosophia christiana, f. 97: «Pare questa virtù essere senza alcun termine et misura et necessariamente si richiede in ogni virtuosa operatione et è come il sentimento del toccare sparso et diffuso per tutto il corpo et all’operare degli altri sentimenti giovevole molto. Et è a guisa dell’aere, dalla quale spiriamo di punto in punto, necessario sostegno, et quasi nudrimento delle nostra vita. Overo assomiglia alla bassa terra, che sostentandoci fa che noi nell’abisso non cadiamo».

(28) Si veda il brano manoscritto in BAMi, G 19 inf., n. 4, Coniectanea secunda, f. 22 (d’ora in poi Coniectanea secunda), al quale rimanda la redazione manoscritta della predica (F 16 inf., ff. 194r-195v, f. 195r): «Pepigi foedus cum oculis. Non per manco che considerandosi insieme le potenze si può tenere a freno il vedere; non basta leggiermente proporsi di farlo, ma foedus inire, che è delle cose gravi, difficile porre rimedio. E per così dire il governo degli occhi non è dispotico, ma politico».

(29) Nella redazione manoscritta (BAMi, F 16 inf., ff. 146r-147v): «Aristoteles, eticorum 1, 1c.7, tom.5» (ivi, f. 146v).

(30) L’affermazione federiciana che «la patria celeste è il proprio regno della letizia» richiama immediatamente al clima dell’oratorio della Vallicella. Per un approfondimento: Armogathe, 2001.

(31) Nei primi anni di formazione Federico ha modo di accostare i gesuiti: a Bologna matura addirittura la decisione di entrare nell’ordine; a Pavia è affidato a un precettore che segue il metodo di lavoro del Toledo. Scrive infatti Domenico Ferro a san Carlo: «Ho parlato coll’illustre sig. conte Federico acciò me accenni il modo che più li piacerebbe per li studi suoi. Sua Signoria Ill.ma l’ha remesso in me, et io fo pensiero (quando sia la volontà di V. S. Ill.ma) tenere la maniera del padre dottore Toledo nel leggere et dare all’illustrissimo signor conte, per lo studiare, quel metodo che il medemo padre Toledo me soleva insegnare» (Majocchi & Moiraghi, 1916, p.190). Nella propria autobiografia letteraria, il De suis studiis commentarius (BAMi, G 310 inf.), egli ricorda fra le conoscenze romane molti gesuiti: il Toledo stesso, Benci, Maffei, Tuccio, Clavio, e Bellarmino. Sulla spiritualità dei primi gesuiti: O’Malley (1999).

(32) In sintonia, appunto, con i dettati della tradizione aristotelica fatta propria dalla riflessione culturale e spirituale dei gesuiti, così sintetizzata dalla Zanlonghi (2003): «È possibile fin d’ora ipotizzare […] che nel progetto retorico si rispecchiava la stessa unitarietà della persona, irriducibile ad una “sola dimensione”: l'antropologia filosofica aristotelica, unitaria, avversa ad ogni dualismo fra forma e sostanza, comportava una psicologia attenta a descrivere e riconoscere le molteplici interazioni fra intelletto e passione, fra razionalità ed emotività. Le frequenti metafore corporee con le quali si designava la sfera del linguaggio attestano questa omologia fondativa».

(33) Il Borromeo segue da vicino il dibattito epistemologico sollevato dalla nuova scienza galileana, come evidenziato negli studi recenti tra i quali, oltre i già ricordati lavori di Baffetti, si consideri almeno Bellini (1999).

(34) SR, V, x, pp. 421-422. Frequentando l’oratorio di san Filippo, Federico impara ad apprezzare la musica sacra come strumento di devozione e di meditazione. A lui nel 1588 Francesco Soto dedica il Terzo libro delle laudi spirituali a tre e quattro voci, ricordando «la particolare affettione» che il cardinale «dimostra portare a questo esercitio, havendolo tante volte honorato con la presenza sua»: cfr. Rostirolla (2001, p. 91); Ravasi (2002).

(35) Per Baffetti (1994, p. 90) questa considerazione esprime «quel mutamento di disposizione percettiva, che, tra Cinque e Seicento, attraversa i campi più diversi, dalla mistica, all’arte, alla scienza, segnando l’affermarsi di una nuova antropologia: […] le operazioni “intellettuali” connesse al vedere svolgono un ruolo fondamentale».

(36) Nella redazione manoscritta (BAMi, F 16 inf., f. 195v) si ha il rimando a Coniectanea secunda, f. 13: «grande deve essere la custodia del vedere, imperocché l’occhio s’intromette negli affari degli altri sentimenti et usurpa gli altrui confini et è quasi un compendio et una quinta essentia de gli altri sentimenti. Tutto questo si conosce essere vero, perché quello che vediamo ci pare spesso di toccarlo, di udirlo. Vedi la neve e senti il freddo et vedi la imagine et ti pare che odi le parole et i fiori dipinti mandano gl’odori». Il brano è inventariato alla voce «oculi». Esso presenta forti analogie con il passo del De suis studiis in cui il cardinale descrive, fra le altre sue ricreazioni, il piacere che gli deriva dalla contemplazione dei fiori e della frutta, mediata, durante l’inverno, da dipinti, che rallegrano comunque la vista e lasciano addirittura immaginare il profumo. Si veda: Jones (1997, p. 68), dove la studiosa ricollega a questa sensibilità federiciana il gusto per le nature morte e i paesaggi, ampiamente documentato nella collezione d’arte del cardinale.

(37) È interessante che questa affermazione, di matrice aristotelica (Baffetti, 1997), sia ripresa da Clemente alessandrino. Si legge in Patres, f. 17: «sensus basis scientiae». Come il filosofo nel primo libro degli Stromati si occupa di definire i saperi in relazione al sapere per eccellenza, la filosofia cristiana, Federico non è interessato alla scienza in se stessa, ma in relazione all’altra forma di conoscenza, che è la contemplazione delle verità di fede, che non esclude, ma integra la prima. Si veda anche: SR, VI, iv, vii, pp. 78-84, p. 79: «noi non apprendiamo gli oggetti con l’intelletto come coi sensi s’apprendono. Questi più agevolmente le grandi, che le piccole cose fanno discernere, laddove l’intelletto, apprendendo alcuna cosa, s’ingegna di farla in certo maggior, che ella non è». Questa digressione di tono scientifico è inserita in una retorica excusatio per l’impossibilità di lodare degnamente Ambrogio per l’altezza del soggetto.

(38) Forse più efficace, nella sua sinteticità, la versione manoscritta: «non vi è niuno tanto dilicato, né rozzo, che non gusti della propria arte, di perfezionarla, di crescervi dentro; così noi emendando i difetti del proprio stato, verremo senz’altro a sempre meglio e più lodevolmente esercitarla. Et ogn’uno è vago per naturale istinto di riconoscere la sua imagine, o in fonte, o in specchio; altri con più maniere et alte con figure con statue quella si ingegnano di rappresentar et quella dell’anima noi perfettamente non studiamo di vedere?» (BAMi, G 18 inf., n. 8, f. 41v).

(39) In accordo con l’aristotelismo politico d’antico regime, il Borromeo intende la struttura della società come un cosmo ordinato di corpi sociali. Sulla fortuna di questo modello si vedano gli studi di Chiara Continisio: Continisio (1994); Continisio (1995, p. 338). Per un approfondimento relativo al pensiero del Borromeo: Burgio (2002).

(40) A proposito del peccato come perdita della posizione di eccellenza assegnata all’uomo: «quando la natura humana nel primiero stato felice si viveva piena di honori, e d’ornamenti e di bellezza, il corpo era soggetto all’anima. Guastandosi poi questo bell’ordine, ruinarono tantosto sopra di noi tutti i mali» (SR, II, vi, p. 181).

(41) L’anima rischia di corrompersi nel corpo: essa «immortale e celeste […] se per se stessa e solamente per la sua natura vien considerata, delle terrene e delle basse passioni punto non è circondata e vestita, ma se poi quella consideriamo come unita al corpo, allora si dice esser in queste tutta involta e quasi da esse assediata e sommersa» (SR, IV, v, i, p. 189).

(42) Nella stampa si parla di «antichi maestri, uno dei quali, tra gli altri tutti savissimo». Nel manoscritto (F 16 inf., ff. 184r-185v) si legge: «Plato disse che».

(43) Maria è icona per eccellenza di questo equilibrio. La sua anima è paragonata alla già citata scala di Giacobbe: «sì come per gli gradi di essa vedevansi a tutte l’hore gli angeli salire e discendere, così nell’intelletto della Vergine i santi suoi pensieri hora si sollevavano al cielo, muovendosi dalla terra, ed hora si partivano dal cielo, calando verso la terra, che è come a dire, che ella contemplava ed operava vicendevolmente» (SR, VII, vi, pp. 176-182, p. 177).

(44) SR, VIII, xix, pp. 363-368, p. 363: «dagli alti conoscimenti che avranno di Dio nell’eterna gloria i beati, cagionerassi in loro una grandissima meraviglia: e di che maravigliar ci dovremmo noi nella presente vita».

(45) Vale la pena riportare il passo che esemplifica le meraviglie tanto della natura quanto della grazia: «se alziamo gli occhi al cielo, se consideriamo l’ampiezza e la bellezza dell’universo, se con sguardo interiore contempliamo la Gerusalemme celeste, nostra patria, se ammiriamo lo splendore del sole, la varietà delle stelle, l’ordine degli elementi, la natura e le proprietà diverse delle piante e degli animali e soprattutto se meditiamo la superiore natura dell’uomo creato a immagine del Re del cielo e della terra, non siamo certo soli, anzi, per grazia di Dio, ci sentiamo pieni di gioia. E più ancora se rivolgiamo pensieri al riscatto antico e alla nostra redenzione, guardando a quell’Agnello immacolato, che tolse i peccati dal mondo, prese su di sé le nostre colpe, per noi si immolò sulla croce e trionfò su satana riaprendoci i cieli. […] Una sola cosa è necessaria: la meditazione delle altissime verità; una cosa sola è necessaria: il continuo ricordo dei benefici divini». Queste tematiche sono riprese nella «contemplatione per eccitare in noi l’amore di Dio», della Dispositio.

(46) Cf. Dupront, A. (1932). Autour de saint Filippo Neri: de l’optimisme chrétien. In Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’Ecole francaise de Rome, XLIX, 219-259; Dupront, A. (1935). D’un «humanisme chrétien» en Italie à la fin du XVIe siècle. Revue historique, 175, 296-307; I Dupront, A. (2001). Genèses des temps modernes: Rome, les réformes et le nouveau. Paris: Le Seuil; Gallimard.

(47) Cfr. anche: SR, III, v, v, pp. 202-205. Il passo del primo libro degli Stromati è sunteggiato in Patres, f. 16: «cor depravatum simile diversorio. Perforatur, effoditur, inquinatur».

(48) Frequente è il ricorso all’immagine degli animali selvaggi come termine di paragone con il peccato. Ricorrente con insistenza è anche il tema della difficoltà di riconoscere il peccato, a partire dalle parole di Agostino, «sottilissimo investigatore dei segreti di Dio più di molti altri» (SR, IV,v, v, pp. 202-206, p. 203).

(49) Molte immagini sono altrove usate per visualizzare l’oscurità del cuore, ivi comprese quelle tratte dalle conoscenze anatomiche: «egli è cosa soprammodo malagevole […] il veder il cuore humano, ed il penetrare i suoi più nascosti seni ed il discernere i vari sembianti di esso, e l’udir i suoi occulti ragionamenti, ed il mirare le orme fallaci, ed i disusati sentieri de’ suoi viaggi. Perciò forse fu con debita ragione involto in tante fasce e di tanti veli ricoperto dalla natura, la quale, locandolo nel bel mezzo del petto, agli occhi humani lo venne a celare» (SR, IV, ii, i, pp. 157-161, p. 157).

(50) Nel secondo volume degli Excerpta, risalente al 1594 (BAMi, G 9 inf., n. 1, Excerpta et notae) Federico sunteggia un brano dei Carmina aurea di Pitagora, sottolineando come esso possa connettersi al tema cristiano dell’esame di coscienza: «id quod nos vocamus examen conscientiae descrivitur ita: neque somnium mollitur oculis inducas priusquam diu (giornaliere, vuol dire) operum singula ter anima percurras» (ivi, f. 141). Dieci anni dopo Federico si serve di questa osservazione nella prima delle lezioni circa gli impedimenti della vera penitenza. Egli esorta il suo lettore/uditore a ricercare le cause del peccato, dicendo: «né voglio hora che tu impari quali esser debbano da Agostino, né da Basilio, né da Bernardo nostri saggi maestri, né da altri sacri dottori, ma sì da un antico greco filosofo, il quale ci lasciò scritto ne’ suoi versi d’oro: giammai il sonno non ingombri i tuoi occhi se prima ben tre volte non avrai pensato a ciascuna opera di quel giorno» (SR, IV, i, ii, p. 141).

(51) Le occasioni di peccato sono determinate dal «concorso delle cause seconde» (SR, IV, v, iii, pp. 196-200, p. 198). Esse vanno estirpate, prendendo a modello un’ideale di vita monastica: «hai in prima a troncare ed a estirpare le occasioni del peccato. Gli antichi monaci, come un approvato scrittore racconta, entravano nelle ampie solitudini, e si nascondevano negli spaziosi diserti, spinti colà dallo spirito dell’humiltà ed etiandio per fuggirsi maggiormente dalle occasioni di peccato» (SR, II, vi, p. 183).

(52) Il Borromeo ne tratta nell’opera De ordine, stampato nel 1625 a Milano. La trascrizione del manoscritto volgare del De ordine si ha in: Ferro, R. (1998-1999). Gli scritti di Federico Borromeo sul metodo degli studi. Tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore. Milano.

(53) Zanlonghi (2000) ritorna sulla «duplice declinazione, retorica e morale, della nozione di circostanza» a proposito delle osservazioni di Emanuele Tesauro sulla «moralità della retorica» (p. 32 ).

(54) De Boer (2001) si sofferma sul tema delle occasioni di peccato nel pensiero dei due Borromeo. La sua analisi, peraltro puntuale, si sviluppa dall’assunto esclusivo che la confessione sia stata in età moderna strumento di un rigido disciplinamento sociale (cfr. pp. 67-73). In rapporto alle indicazioni pastorali di Carlo, quelle di Federico sono lette come una «form of social discipline», che preferisce basarsi «on interior discipline rather than public shame». Ne I sacri ragionamenti il lavoro interiore, richiesto dall’esame di coscienza, con la conseguente individuazione delle circostanze e delle occasioni di peccato, mira piuttosto a produrre una conversione profonda dei fedeli per un rinnovamento dei costumi sociali in senso cristiano.

(55) Citando Plutarco, Federico afferma che «le parole sono come ombra, che sempre segue il corpo del nostro operare: anzi sono come immagini rappresentanti quello che altri far suole» (SR, VI, iv, x, pp. 98-102, p. 102). L’affermazione è proposta anche in: ivi, IV, x, i, p. 227; II, iii, pp. 472-478, p. 478. Nella redazione manoscritta di quest’ultima predica è annotato: «Sermo actionis est umbra: Plut. de lib. educand. f. 15 ex scrittis Democratis» (BAMi, G 18 inf., n. 10, ff. 3r-4v, f. 4v). L’indicazione della fonte è riportata negli stessi termini in Coniectanea prima: «sermo actionis umbra. Plut. de lib. educ. f.15 ex sententia Democritis dictum» (ivi, f. 147, alla voce «verba»).  Il segretario Vercelloni ricorda che Federico «per preservar l’uso e frequenza del disonesto parlare [...] fece comporre et stampare un libretto di Mons. Luigi Rizzo, canonico ordinario e teologo della metropolitana et ne fece dipingere i cartelli [...] che ancora hoggidì si vedono: le parole sono indice dell’animo» (Miscellanea Vercelloni, f. 21r).

(56) È definito non a caso attraverso il paragone con l’immagine: «bello sarebbe il paragonare l’esempio con l’immagine che tu generi nello specchio, mentre in esso riguardi, la qual pure tu vedi con tutti i suoi fini colori, e co’ movimenti, e co’ lineamenti rappresentarsi. Se tu ridi, ella ride, se tu piagni, ella piagne, se tu parli, ella parla; ed insomma è quasi altra persona, come sei tu. Questa è l’imagine viva che in altrui viene formata» (SR, II, xi, pp. 362-368, p. 364).

(57) Si consideri, a titolo esemplificativo, il processo di assimilazione a Maria. Imparare dal «suo esempio» significa, come nel caso di Cristo, assimilarsi a lei per via di imitazione in un processo che coinvolge intelletto e cuore. L’intelligenza, riconoscendo l’amore straordinario della Vergine per il figlio e, in lui, per ciascuno dei mortali, dispone il cuore ad accogliere un siffatto amore. «Il sole della cognitione», dice Federico metaforicamente, «quasi in noi riflettendo, un altro ne produce cioè quello dell’amore», per via del quale si raggiunge l’imitazione: «alcuna somiglianza ed alcun sembiante di essa (ndr: dell’imitazione) n’apparisce nel nostro intelletto come quello che ha usanza di farsi alle cose che apprende somigliantissimo» (G 18 inf., n. 6, ff. 27-33, f. 29v). L’immagine si fa medium conoscitivo, che genera una vera e propria trasformazione nell’uomo disposto a lasciarsi illuminare dal sole di Maria.

(58) Dispositio, f. 89v. Il rapporto interno/esterno, anima e corpo come tema qualificante la trattatistica sul comportamento fiorita nell’età moderna è al centro dell’intervento di padre Pozzi (1996). Per lo studioso l’attenzione al comportamento da parte soprattutto della chiesa si traduce in «una specie di neutralizzazione di tutto ciò che è caratteristica non solo individuale, ma anche di classe, di casta, di corpo, neutralizzazione non vuol dire distruzione o livellamento: vuol dire blocco delle energie proprie a ciascuna nel proprio raggio d’azione senza alcun travaso al di fuori» (ivi, p. 138). L’attenzione di Borromeo circa il comportamento può però essere letta nel segno di una apertura di orizzonti, piuttosto che di una chiusura, in quanto a ciascuno è proposta una medietà concepita come perfezione, che è sempre, ancora da raggiungere.

(59) Id., VIII, xvi, p. 352. Sulla forma della virtù propria di ciascuno stato si legga: «Se tu artefice? Pensa un poco qual vorresti che fosse un ottimo artefice e so che brameresti che fosse non divoratore, non ingannatore, non contentioso, non taverniere, non bestemmiatore, non dishonesto parlatore. Se tu nobile? Come vorresti che fatte fossero le immagini delle nobili persone? Io vorrei primieramente, odo subito chi mi risponde, che chiunque di nobili parenti è disceso, non fosse ingiusto amatore dell’altrui roba, né dell’honore, ma più tosto diligente guardiano della sua casa e che si mostrasse a ciascuno vero padre de’ suoi figliuoli, e della mogliere compagno, e marito, e non tiranno: ed appresso. Io amerei di vederlo, non giudicatore, né ingiuriatore, ma mansueto ed ubbediente a chi lo regge. Se’ tu donna di alto, overo di basso stato? Considera quello che tu sei, e non amare più il corpo, che l’anima e non voler sempremai dominare: poiché serva nascesti ed all’huomo soggetta, secondo gli ordini della natura e di Dio. Se tu ornato di sacerdotale dignità? Attendi al proprio uficio, ed in esso solo con tutte le forze dell’animo intendi; e non voler essere né avaro, né iracondo, né superbo; e nell’habito, e nelle parole, e negli atti fa che rappresentata si vegga del continuo la bellissima forma della virtù. Se tu terreno principe, e governi tu i corpi, e la vita civile de’ tuoi soggetti? Studia di esser vero principe; che è a dire, di esser benefattore, e padre, e pastore de’ popoli. Raccordati, che coloro i quali hai presi a reggere, sono il tuo corpo: e tu che se’ l’anima, quelli governar dei, ed affettuosamente curare (Ivi, IV, v, p. 208).

(60) Una prima riflessione sulla filosofia cristiana a partire da questa citazione è stata presentata da Domenico Bosco: Id., Sacre conversazioni, pp. 130-131. È interessante notare che il Borromeo progetta la realizzazione di un trattato addirittura in 40 volumi di filosofia cristiana, che presenta in: BAMi, Z 108 sup., Dei miei scritti, f. 6r. Abbandona però l’idea, verificata l’esistenza di un numero rilevante di opere di tema morale di altri autori (BAMi, R 181 inf., n. 2, Sacrarum rerum semina, f. 17-18). Del progetto iniziale rimangono gli appunti contenuti nel già ricordato codice G 21 inf., n. 6 e per la maggior parte rifusi nella scrittura dei ragionamenti. Questo sembra indicare come il Borromeo affidi alla predicazione l’espressione della sua filosofia, o, meglio, come l’omiletica possa essere considerata la summa del pensiero federiciano.

(61) Nell‘immagine ritorna l‘idea della stretta dipendenza di anima e corpo, per cui la mano può farsi parola che esprime l‘interiorità.

(62) Un quadro, che Federico ha tenuto sempre con sé nel palazzo arcivescovile, sembra visualizzare questa idea. È il Presepe, opera di Federico Barocci, che affida alle mani l’espressione dei sentimenti. Nella penombra dell’umile capanna, la luce del bimbo, sulla sinistra, illumina la madre, che apre le braccia a dire tutto il suo stupore. Dietro di lei, san Giuseppe, in piedi, di profilo, alza il braccio, per indicare con la sua mano possente la culla di Gesù ai pastori, che timorosi fanno capolino da una porta, relegata sullo sfondo del dipinto. I gesti delle mani guidano lo spettatore del quadro ad ascoltare la predica del presepe. Per la committenza del dipinto da parte del Borromeo: Mojana (1998).

 

Nota al riguardo dell´autrice

Marzia Giuliani è dottore di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove ricopre l’insegnamento di Storia del corpo e del comportamento presso la Facoltà di Scienze della Formazione (sede di Piacenza). Contatto: Via Vodice 4, 20148 Milano, Italia. E-mail: giuli.marzia@tin.it

Data de recebimento: 20/10/2003
Data de aceite: 05/03/2004

Memorandum 6, abril/2004
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP.
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos06/giuliani01.htm

 

 

 

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