Giuliani, M. (2004).
Lo
“spirituale ammaestramento” di Federico Borromeo alla città di Milano: la
questione antropologica.
Memorandum, 6,
89-113. Retirado em / / da World Wide Web:
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos06/giuliani01.htm
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Lo “spirituale ammaestramento” di Federico Borromeo
alla città di Milano: la questione antropologica
The “spiritual teaching” of
Federico Borromeo in the city of Milan: the anthropological question
Marzia
Giuliani
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Italia
Riassunto
Attraverso l’analisi della predicazione nella città di Milano,
raccolta a stampa nei quattro tomi de I sacri ragionamenti, si
individuano i nuclei tematici della strategia pastorale
dell’arcivescovo Federico Borromeo, che si confronta con l’opera
di San Carlo, suo cugino, e con le nuove esigenze della chiesa
post-tridentina nel passaggio fra Cinque e Seicento. Ad esse il
presule risponde con l’elaborazione di una “filosofia
cristiana”, che è progetto culturale e pastorale. All’interno di
una cosmogonia teocentrica, dalla quale discendono l’ordine e
l’armonia del mondo creato, la centralità dell’incarnazione di
Cristo e il ruolo di Maria quale mediatrice ed exemplum fondano
una visione antropologica, che esalta la pienezza dell’umano
quale unità di anima e corpo, da costruire in un cammino di
perfezione, reso accessibile dalla mediazione salvifica di
Cristo. Significative le tangenze con la elaborazione teologica
e spirituale della Compagnia di Gesù.
Parole chiave: Federico Borromeo; storia
della chiesa; filosofia cristiana; eloquenza sacra. |
Abstract
Study focused on Federico Borromeo’s Sacri
ragionamenti, a collection of his preaching to the clergy and to
laity of Milan from 1595 to 1631. These spiritual discourses can
help us to identify the core themes of the pastoral strategy of
the archbishop Federico Borromeo, connected with Saint Carl’s
episcopal government, his cousin, and with the new requirements
of the post-Tridentine Church. Referring to a cosmogony in which
God keeps his central place, giving order and harmony to the
whole world, created by Him, Federico emphasizes the mystery of
Incarnation - identified with Redemption - and the role played
by Mary in the life of Christ and in the life of every believer.
This vision dignifies human nature, as a unit (spirit and body).
“Perfection” is proposed as the ideal of the Christian life, and
can be achieved by looking at Christ, Mary and all saints.
Keywords: Federico Borromeo; Church
History; Christian philosophy; sacred eloquence. |
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«Le cose più principali […]
insegnate al popolo per suo spirituale ammaestramento» (Borromeo, F.
(1632). vol. I, p. I) è la formula semplice ed essenziale con la quale,
nell’introduzione, Federico Borromeo (1565-1631)
(1) definisce il contenuto de I sacri ragionamenti, i
quattro tomi voluminosi da lui voluti come testimonianza della sua
incessante opera di predicazione durante il vescovato milanese
(2), ispirata all’ideale tridentino del «concionante episcopo»
(3). Esplicitare la formulazione, ovvero identificare contenuti,
forme e modalità di un ammaestramento, cui è riconosciuta una valenza
pedagogica di natura “spirituale”, è compito arduo sia per la natura
“mediata” della fonte in esame, che è formalizzazione scritta di un testo
pensato per la recita orale, sia per la complessità del suo autore, il cui
«universo religioso e intellettuale» nasconde ancora in parte agli
studiosi il proprio «punctum stans aut cadens» (Bosco, 2002, p.
120).
(4).
Le redazioni manoscritte
delle oltre trecento prediche e i quaderni di studio, che, come un vasto e
articolato thesaurus memoriae, dischiudono al Borromeo l’universo
dei saperi, ordinato “per voci” e “per voci” interrogato alla ricerca di
luoghi predicabili, forniscono una nuova chiave di accesso ai contenuti
omiletici recuperati nel loro primo strutturarsi attraverso un intenso
lavoro di preparazione e “riascoltati” nella loro recita orale, di cui si
scoprono tempi, luoghi e destinatari
(5).
Le parole, che Federico legge
e medita nella solitudine dello studio, si fanno riflessione pensosa
dell’uomo di fede che, chiamato alla cura d’anime nel suo più alto grado,
le rende fruibili al suo popolo nella forma di un vibrante insegnamento,
frutto della tensione costante a una sintesi costruttiva, nella quale
convergono positivamente cultura, fede e impegno pastorale
(6).
Abbandonando un procedere
rigorosamente logico argomentativo, a favore di una cospicua galleria di
immagini ed exempla, il vescovo, umanista per formazione e
vocazione, cerca di persuadere i suoi fedeli del fascino di una «filosofia
cristiana», proposta di un modello antropologico, sul quale giocare per
intero la propria umanità a partire dall’esempio di Cristo, di Maria e dei
santi.
«Meraviglie d’un più luminoso cielo e d’una
più fertile terra»
Il più importante biografo
seicenteso del cardinale, Francesco Rivola, ricordando, nella sua
biografia, la prima messa pontificale di Federico osserva come
quello poi
che sommamente ragguardevole rendé l’attione fu che tramezzata ella venne
da un bellissimo ragionamento da lui fatto sopra del pergamo in laude
della Reina del Cielo, al risonare della cui voce riempitisi di spiritual
gaudio tutti gli astanti con vari atti di gioia e festa dimostravano
l’interior loro letizia, godendo sommamente di veder rinnovellata nel
novello Borromeo l’antica maestà delle funzioni ecclesiastiche da loro
passati nel santo pastor Carlo soprammodo ammirata. (Rivola, 1656, p.
203).
Sin da questo primo rivolgersi ai milanesi
nella forma di un panegirico «in laude della reina del cielo», poi posto
ad apertura del quinto volume dei ragionamenti, Federico fa della Vergine
Madre di Dio il centro e il punto riassuntivo del grandioso quadro
cosmologico, che è per lui l’orizzonte di senso e di riferimento della
vita credente, non prima di aver chiarito, nell’esordio, possibilità e
limiti della sua parola di predicatore e di quella di ciascun uomo di
fede.
«Ogni lingua
dovrebbe tacere», dice Federico, a fronte della sproporzione incolmabile
fra la sapienza di Dio, che è potenza creatrice, e la debole ragione
umana: «se quell’infinito sapere […] più distesamente a noi non ragiona
[…], come potrà esser vero che senza grave errore e presuntione di sì
fatto soggetto più innanzi da alcuno di noi mortali si parli?»
(SR, V, i, pp.
285-290, p. 286).
La sapienza
stessa «mostra che bello solamente sia il tacere» (Idem) (7).
Il silenzio dell’ineffabilità non è però vuoto, in cui tutto si perde, ma
pienezza, che, pur indicibile compiutamente, si può, almeno in parte,
intravedere: la luce del cielo divino è inaccessibile agli sguardi
terreni, ma l’aurora che sorge «ridona e comparte alle cose tutti i loro
colori» e «rende al mondo quella bellezza» (SR, V, i, p. 287), lasciando
immaginare per via analogica e intuitiva le meraviglie, altrimenti
precluse, di quel cielo divino. Le creature rimandano al loro creatore e
nella trama dei rimandi si apre lo spazio della similitudine, per
risalire, di grado in grado, dalla «veduta» del mondo naturale «alla
consideratione della divina presenza, mercé della quale scopriamo in tutte
qualche singolar beneficio ad utilità ed uso nostro da sua maestà
ordinato» (BAMi, codice G 17 inf., n. 5, Ragionamenti familiari
dell’oratione fatti alle monache, ff. 199-203, f. 200).
(8).
Da qui la scelta, in accordo con il
rinnovamento dell’oratoria sacra di età umanistico/rinascimentale
(9), di un linguaggio metaforico-ostensivo, in cui l’immagine si
carica di molteplici valenze
(10). È anzitutto strumento retorico che, facendo leva sugli
affetti, cerca di suscitare il coinvolgimento emotivo del lettore/uditore;
non scade a mero artificio formale in quanto dotata di un vero portato
conoscitivo: ogni similitudine è disvelamento degli ordinati rapporti
analogici fra i diversi gradi dell’essere. E la somiglianza genera un
processo di assimilazione qualora l’immagine sia resa oggetto di preghiera
devota: vedere diventa contemplare e chi contempla si configura per
imitazione al contemplato
(11).
Sì come un
dipintore, riguardando fiso in una imagine e quella diligentemente
osservando, un’altra assai somigliante a quella primiera con l’opera sua
ne viene ad esprimere, così noi per via del contemplare una certa
somiglianza di Dio vegniamo in noi stessi a formare. (SR, VII, vi, pp.
176-181, p. 178).
La creazione
stessa è presentata da Federico ai fedeli come una mirabile opera d’arte,
realizzata da un Dio «sovrano artefice e fabbricatore del tutto», che, «sì
come gli artefici tutti per comune legge delle loro arti e per proprio
vanto sogliono sempremai mettere ogni sforzo in fabbricar alcun degno
lavoro», così ha voluto «nella general creatione del mondo […] per alcun
modo questo medesimo ordine osservare».
(SR, V, i, pp. 286-287).
La similitudine delinea una cosmologia saldamente teocentrica, nella quale
le realtà create sono disposte a comporre un’ordinata armonia, che procede
per gradi, dalle sostanze spirituali e quelle materiali (12).
Nella creazione dell’uomo esse si incontrano e si fondono e nella
perfezione dell’umano, di cui la Vergine è simbolo eloquente, trovano la
loro massima evidenza di bellezza.
Formò senza comparatione maggiore e più perfetta la Vergine
in cui vedesi la sua chiarissima anima unita alla terrestre materia con
maggior lume risplendere […] e la terra del corpo di lei fu in guisa
nobilitata, che sopra tutte le gerarchie sempiternamente riposa.
(SR, V, i, pp.
285-290, p. 287).
Luminosità e fecondità sono
attributi incessantemente replicati nelle pagine dei ragionamenti a
esprimere l’eccellenza di Maria. Annota Federico in una redazione
manoscritta:
et doppo che ella fu imagine,
dico che fu imagine senza ombre, con colori divini. Negli altri furono
necessarie l’ombre e i lumi, i chiari, gl’oscuri, ma non in Maria. Con
divini colori fu espressa per essere vista al lume di Dio principalmente
et dall’occhio di Dio. Gli scuri et l’ombre ne santi sono l’imperfettioni
della natura et i peccati le gioie; questi parti de pittori sono stati
così bene compartiti che hanno resa più bella la pittura.
(13).
E prosegue:
O doni concessi a Maria. Vedo sopra la terra infinite
bellezze varie et stupisco prodursi da un sol raggio, da una sola virtù
celeste principalmente, fiori, frutti, herbe; dentro di essa oro, metallo,
nel mare perle. Che crediamo che operasse il sole di giustizia mentre
riguardò questa terra feconda dell’anima di lei? Che bellezze, che varietà
et occulte et palesi nacquero!.
(BAMi, G 18 inf., n. 6, f. 14r).
Tale effigie
ritratta a parole sembra singolarmente affine, pur nella estrema
difficoltà di indicare un brano letterario quale fonte iconografica di un
dipinto
(14), alla celebre Madonna della Ghirlanda dipinta da
Brueghel per il cardinale. Il passo dei ragionamenti contiene tutti gli
elementi del quadro, con una correlazione sintattica affine: in primo
piano la Vergine, dietro il «paesetto», esplicitamente richiesto da
Federico al pittore (Jones, 1997, p. 71); la prima, fecondata dai raggi
della grazia, tiene in braccio il figlio, il secondo, illuminato dalla
luce del sole, produce fiori e frutti, che sappiamo essere stati scelti
fra i più preziosi e copiati dal vivo. I due elementi del quadro (il
bambino e i cieli), mancanti nella descrizione di Federico, si trovano
nella prima parte della stessa predica, con la metafora d’esordio di Maria
«cielo che contiene tutti gli altri» (SR,
V, v, p. 307),
primo mobile (15),
e la successiva descrizione del di lei corpo, illuminato «dai raggi del
sole che da lei nacque» (Ivi, p. 308) (16).
Immagine e parole dichiarano la centralità
di Maria, in quanto protagonista della seconda creazione, che nella
nascita del figlio Gesù si realizza (17).
La Vergine è «orizzonte fra le cose terrene e le celesti e fra le mortali
e le immortali» perché «mediante lei riconciliato si è il cielo con la
terra ed a noi si è fatto il liberal dono del tesoro degli angeli» (SR, V,
ii, pp. 290-295, p. 292), che è poi la grazie spirituale. Per essa il Dio
inconoscibile, che nella sua potenza ha creato il mondo, si rende
accessibile allo sguardo dell’uomo nel nascondimento dell’umile grotta di
Betlem in virtù del fiat di Maria.
Più che gli
eventi finali della passione e resurrezione, sono i vangeli dell’infanzia,
che racchiudono in sé l’evento salvifico della redenzione, l’oggetto
privilegiato della predicazione di Federico (18),
che li propone ai fedeli con una tecnica affine alla compositio loci,
sistematizzata in modo paradigmatico negli esercizi ignaziani (19).
Di ragionamento in ragionamento, ma anche all’interno di un singolo
discorso, lo sguardo è condotto a contemplare la povertà del bimbo, il
silenzio di Maria, lo stupore dei pastori, entrando nella grotta ed
ascoltando persino le parole dei personaggi, come avviene «nella
contemplatione per la via di applicatione de sensi» della meditazione
sulla natività nella Dispositio ad esercitia facienda (BAMi, G 19
inf., n. 2) (20).
Al fedele si consiglia di «riguardare tutte le persone et notare le
circostanze che circa loro occorreranno, con cavarne giovamento» (21),
di ascoltare «che cosa parlino» per poi sentire «con un certo gusto, et
odorato […] la dolcezza et soavità dell’anima ripiena di virtù et di doni
divini» e infine «immaginarsi di toccare, e basciare le vestimenta, i
luoghi, le pedate, et altre cose di quelle persone» per accrescimento
della «divotione o altro bene spirituale» (Idem) (22).
Ogni fedele è invitato ad ascoltare «le varie e diverse voci e tutte
mirabili che escono dal presepio» (SR,
II, VIII, p. 65).
Esso, come già i cieli, è chiamato all’ufficio di oratore: «il presepe è
una nobilissima e spaziosa piazza, dove si odono le voci che ci
ammaestrano. Ella predica con la piccolezza perché tu l’ami, co’ disagi,
perché tu fugga le delitie» (Idem).
Federico vescovo è il primo a porsi in
ascolto e ad esemplare la propria vita di pastore e di intellettuale, o
forse, meglio, di intellettuale impegnato nell’attività pastorale, sul
modello di Maria Theotokos. Il segretario Vercelloni ricorda come
il cardinale tenesse una «Madonna del Pulzone»
vicino dove stava a sedere
nella sua camera. Questa, quando era sopraggiunto da qualche tribolatione
per la difesa della sua chiesa, rimirava con tanto affetto e devozione che
indi a poco se ne partiva tutto consolato. Si conserva nella sala del
disegno a canto alla biblioteca ambrosiana; sta col capo chinato con li
braccia incrociati avanti al petto. (BAMi, G 264 inf., Miscellanea
carmina et nonnulla alia ad cardinalem Federicum Borromeum spectantia,
f. 17v) (23).
Riprendendo l’iconografia
tradizionale degli evangelisti, il Borromeo commissiona un ritratto, che
lo raffigura «di profilo, seduto e intento a scrivere», mentre, «in cerca
di divina ispirazione, fissa intensamente non il consueto angelo, ma un
quadro della Madonna con Gesù Bambino» (Jones, 1997, p. 3), quasi ad
esprimere come l’intera sua attività sia un atto di omaggio alla gloria
divina, visibile nella tenerezza del Figlio dell’uomo, che riposa nelle
braccia della Madre.
Se nella definizione degli
elementi visivi può aver giocato un ruolo non secondario la recentissima
tradizione iconografica del “gran padre” di Federico, il Neri, la cui
«immagine ufficiale» viene «costantemente associata a quella della
Vergine, a volte da sola, ma spesso con il bambino benedicente»
(Melasecchi, 1995, p. 37) (24),
l’atteggiamento spirituale complessivo, che dal quadro emana, pare potersi
esprimere con le parole del «principio overo fondamento» degli esercizi
ignaziani, che Federico pone ad apertura della sua già ricordata
Dispositio ad esercitia facienda: «l’huomo è stato creato a questo
fine; accioché lodi e riverisca il suo Signore Iddio et a lui servendo al
fin si salvi. Tutte l’altre cose che sono sopra la terra sono state create
per l’huomo acciocché l’aiutino a conseguire il fine della sua creatione»
(Dispositio, f. 2v).
In ogni predica Federico
rende gloria ai beneficia Dei, ora descrivendo commosso varietà e
bellezza degli elementi naturali, dai grandi paesaggi del cielo, del mare
o delle distese boschive, ai più minuti capolavori del creato quali i
fiori e le perle, ora alzando gli occhi, quasi rapito, verso un altro
“sole” e un altro “cielo”, dove sono splendori di cori angelici e di anime
beate e dove la Vergine siede «su trono imperiale» (SR, V, ii, pp.
291-295, p. 291), ora raccogliendosi meditativo sul miracolo di grazia
rappresentato da ogni uomo, che con il proprio corpo partecipa della
“terra” e nell’anima custodisce la luce del cielo e che, rinato in Cristo,
può legittimamente aspirare e ad una «più fertile terra» e a un più
«luminoso cielo» (SR, V, xvi, pp. 368-372, p. 368), ovvero a uno stato di
perfetta beatitudine.
«Rapsodia de amore divino»
La profezia di Isaia, che
immagina «alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore […] eretto
sulla cima dei monti […] più alto dei colli» (Is., 2, 2), ricorre nei
ragionamenti quale prefigurazione del compimento della gloria futura.
Sulla scorta di Gregorio Magno, Federico annota nel primo quaderno dei
Coniectanea che il versetto «intellegit de beata Vergine»,
perché «Maria, quia Mater Dei, est domina creaturarum» (25).
In una accezione più estensiva, se ne serve nel primo ragionamento
dedicato alla festa di tutti i santi, significativamente titolato «che
mirabile è Iddio ne suoi santi» (SR, V, i, pp. 379-381, p. 379), per
indicare lo stato di perfetta compiutezza donato agli uomini che, come
Maria, accettano di affidarsi senza riserve alla grazia di Dio.
Nella visione della Gerusalemme celeste la Vergine appare
trionfante fra i cori delle gerarchie angeliche e le schiere dei beati,
ricreate dal «supremo artefice Iddio, quasi nuovo fabbricatore delle
membra humane» (SR,
VIII, iv, pp.
295-299, p. 295),
della stessa bellezza di cui risplende Maria. I loro corpi rilucono «in
quel modo che noi veggiamo un cristallo esser vestito di verde,
d’azzurrino e di purpureo colore ed in quella guisa parimente che i
chiarissimi diamanti quantunque colmi sieno di luce, in vista paiono
bellissimi» (SR,
II, ix, pp.
411-418, p. 415).
La bellezza esteriore dei beati è riflesso di un’armonia interiore, che si
esprime in un pieno e sereno dominio dell’anima sul corpo (lo stesso di
cui può vantarsi Maria) con il coinvolgimento di tutte le potenze
interiori dell’uomo, a partire dai cinque sensi, chiamati ad un pieno e
simultaneo appagamento. Si legge in una riflessione di Coniectanea
prima titolata «rapsodia de amore divino»:
La terra come opaca, non per
ogni luogo, ricerca il lume dal sole in uno stesso tempo, perché dove è
l’aurora, dove l’occaso, dove il mezzo del giorno, dove poi fruttifica,
dove è arida. Così sono gli affetti nostri in questa vita. Non tutti sono
compiuti del suo desiderio: quello che è cibo dell’uno de sensi è fame
dell’altro. Chi è ricco, non è honorato, così de sensi. Non si trova
delicia così compita che in un tempo sacii tutti i sensi, alcuni restano
opachi. Anzi uno resta attorto nel piacere dell’altro et di più resta
stanco come la terra doppo haver prodotto il frutto di giugno, perdendo il
natural vigore che al lume dell’affetto si consumò. Però si fa a vicenda
ne sensi et ne gli obietti dilettosi. Hora nella patria del cielo questa
terra erit sicut christallum. Tutta trasparente il giorno chiaro in ogni
sentimento et parte dell’anima, et in ogni obietto generico et specifico,
et tutto ciò in un punto. (Coniectanea prima, f. 47).
L’idea è sviluppata da Federico fra gli anni 1615/1621 in
una serie di prediche dedicate alla glorificazione dei corpi attraverso la
piena beatitudine nella gloria dei cinque sensi (26):
si parte dalla vista, il più nobile, e si arriva al tatto, il più basso ed
umile (27).
La definizione di ciascuno ricorre a categorie aristotelico/tomistiche.
Posto il paragone tra l’occhio e la parte razionale dell’uomo (SR,
V, ix, pp. 411-418, p. 417),
il modo di «governo» sugli altri sensi è definito «politico, non
dispotico» (28),
termini usati da Aristotele per indicare il controllo della ragione sulle
passioni (cfr. Zanlonghi, 2000, p. 120). Sulla scorta del «grande
peripatetico» (29),
la beatitudine è «un certo bene perfetto» (SR,
VII, vii, pp. 182-187, p. 184),
come confermato «dagli scrittori i quali nelle sacre scuole si leggono a
tutte l’hore» (idem), ovvero san Tommaso e gli altri rappresentanti
autorevoli della scolastica, fra cui Alberto Magno, chiamati in causa per
spiegare le diverse modalità concrete di pieno appagamento, dunque di
beatitudine, di ciascun senso.
Se da tempo è stato rilevato
come i temi della felicità e del piacere/diletto siano da riconnettersi
alla spiritualità filippina
(30), poco sottolineato è il debito verso la tradizione
aristotelico-tomistica, viva nel pensiero teologico della seconda
scolastica, elaborato con il contributo determinante dei gesuiti (cfr.
Buzzi, 2003). Per loro tramite
(31) Federico si accosta a questa filosofia, sulla quale si basa la
propria visione antropologica, che valorizza la dimensione corporea e i
relativi appetiti sensoriali come elementi qualificanti dell’essere
persona
(32). Si noti come le prediche dedicate alle «doti» dei «corpi
gloriosi» sembrino amplificare l’«esercitio del paradiso», della già più
volte ricordata Dispositio, che segue da vicino struttura e temi
degli esercizi ignaziani:
considera che godimento
haveranno i beati dopo l’universal risurrettione per quelle quatto doti
del corpo glorioso, che sono sottigliezza, impassibilità, agilità et
chiarezza. E per la gloria de’ sentimenti, ciascuno de’ quali haverà il
suo particolare diletto. Perché gli occhi goderanno della vista de’ corpi
gloriosi, e delle stanze ornatissime del cielo; l’orecchio udiranno
continue melodie et cantici soavissimi. Il gusto sentirà una dolcezza
ineffabile, la qual vincerà la suavità di tutti i sapori. Et tutti gli
altri sentimenti saranno mirabilmente ricreati con oggetti a loro
proportionati, si rallegreranno ancora per la piena satietà di tutte le
potenze dell’anima e per vedere l’adempimento di tutti i suoi desideri
possedendo perfettamente tutto quello, che può bramare corpo humano. (Dispositio,
f. 33, n. 8).
Nelle prediche l’amplificazione è svolta tralasciando le
sottili disquisizioni argomentative dei maestri della scolastica e
illustrando con immagini, tratte dai libri della scrittura, della natura e
dell’arte, ma anche dalle pagine degli amati autori classici, la pienezza
di un approccio al mondo di tipo percettivo/sensoriale, di estrema
modernità (33).
La memoria degli antichi affiora nella lode dell’udito e del gusto. Le
orecchie dei beati potranno ascoltare la «meravigliosa armonia» della
platonica musica dei cieli, che per Federico è il «concento» delle lodi a
Dio nella Gerusalemme celeste (cfr. SR, V, x, pp. 421-422) (34);
l’ambrosia e il nettare gustati nei campi elisi secondo le favole degli
antichi poeti, o la manna assaggiata dai patriarchi nell’antico
testamento, sono nulla a confronto dei sapori offerti in cielo alla bocche
dei beati (SR, VII, xiv, pp. 225-231,
p. 226).
Un pallido sentore degli odori, di cui loro godranno, si può avere
sfogliando il «sacro e maestoso libro della cantica», nel quale «si
dispose Iddio di volgere gl’animi humani all’amore di se medesimo,
etiandio col far mentione di fiori, d’odori, d’aromati, d’odoriferi
frutti, di liete campagne e di giardini dilettevoli, le quali cose tutte
sogliono recar meraviglioso piacere al sentimento dell’odorato» (SR,
VII, vii, p. 183).
Interessi scientifici e spiritualità
contemplativa si uniscono a celebrare la vista come il più importante fra
i sensi già dai tempi del Philippus: «alla conservazione e
all’esercizio del corpo umano molto contribuiscono le mani, i piedi e le
altre membra, ma nessuna parte del corpo presta un aiuto maggiore e più
nobile dell’occhio» (Valier, 1975, p. 123) (35).
Solo attraverso di esso, che riassume in sé tutte le altre facoltà
percettive, si scopre il mondo:
tu vedi la neve e il ghiaccio e senti il freddo; e riguardi
l’immagine e parti di udirne le parole; ed i fiori dipinti rendono per
certo modo a noi grato l’odore. Quindi è che per questo gran potere
dell’occhio humano, chiamar lo possiamo il soprastante ed il reggitore ed
il maestro della casa de sentimenti e delle altre membra humane (SR,
V, ix, p. 416)
(36).
I sensi, dunque le esperienze percettive, sono per il
Borromeo alla base della conoscenza (37)
e in questo processo agli occhi, così collegati alla ragione da esserne
quasi simili, spetta il compito della verifica, perché tutti gli altri
sensi si rivolgono ad essi per avere «conferma» (SR,
V, ix, p. 417),
e alla voce, «madre degli umani ragionamenti e ministra della ragione»
compete la funzione di trasformare in parola quanto esperito (SR, V, x,
pp. 418-423, p. 418).
È chiara l’intrinseca bontà
che Federico riconosce alla natura umana, a partire dalla sua dimensione
più corporea e dunque terrestre, non a causa di un facile irenismo, che si
ripiega nella contemplazione di un mondo ideale, abbandonando il terreno
della storia, ma in virtù dell’enfasi posta sull’incarnazione del figlio
di Dio, che ha assunto su di sé la stessa carne dell’uomo, restituendola
alla sua dignità primigenia, ante peccato originale.
Verso la perfezione: la
convenevol proportione
Se la creazione del mondo e
la glorificazione della Vergine e dei beati hanno come loro attributi
specifici la bellezza e la grazia di un’opera d’arte, uscita dalle mani
dell’artefice divino, anche il destino personale di ogni credente si
inscrive in un quadro di superiore e squisita armonia. La virtù ha
l’aspetto visibile di una “forma bellissima”, che è l’esito di una vita
vissuta come un ininterrotto processo creativo.
Teco medesimo discorri, qual vorresti che fosse
quell’huomo, che l’uficio, il qual hora tieni, amministrar dovesse.
Dipigni hora l’immagine di esso nella tua mente; ma con questo patto, che
mentre ciò fai, non rimiri te stesso. Fornito poi che haverai di effigiare
questo perfetto ritratto, in te rivolger lo sguardo dei, ed appresso
paragonare, e distinguere le parti di queste due forme, ed i diversi loro
lineamenti. Con questa mirabile arte egli è gran tempo che fabbricata ne
fu una perfetta immagine, la qual hora io sono disposto di mostrarti.
(SR,
IV, v, p. 208)
(38).
Le forme di virtù possibili sono
molteplici, perché ciascuna è relativa allo stato specifico cui appartiene
il fedele nella società (39),
ma l’attributo loro essenziale è solo uno, la perfezione (perfetto
ritratto, perfetta immagine), ovvero la qualità primaria del mondo creato
da Dio. In relazione alla creazione divina, fatta di «peso, ordine e
misura, […] tre qualità [..] di tanto valore e momento» da essere «quasi
la vita del mondo» (SR, IV, i, i, pp. 135-139, p. 136), e presentata a
modello per la convivenza fra le creature «rationali e Iddio», Federico
definisce il peccato, per contrapposizione in negativo, «un pervertire
l’ordine dell’humana via e della natura» (SR, IV, i, i, p. 137). La
bellezza donata all’uomo, con «mirabile artificio [...] da Dio fabbricato»
(SR, IV, vi, pp. 209-211, p. 210), così che il suo corpo appaia «un
miracolo della natura» e la sua anima «un miracolo della gratia», è
sfigurata dal peccato, per il quale «cadde il magnifico edificio
dell’humana natura da quel supremo artefice fabbricato e da quella grande
ruina ucciso ne fu chi di quella fu cagione, e gli altri insieme» (SR, IV,
v, i, p. 190) (40).
La «bruttezza del peccato»
(SR, IV, i, i, p. 135) consiste nella disarmonia fra gli elementi
costitutivi dell’essere persona, gli appetiti sensoriali da una parte, e
la facoltà razionale dall’altra. La ragione, che dovrebbe riconoscere in
Dio il fine ultimo, la meta, e tramite la volontà, indirizzare a lui le
potenze sensitive, si lascia soggiogare ora dalla “parte concupiscibile”
ora da quella “irascibile”. Con esplicito riferimento ai termini delle
scuole, ovvero al sistema antropologico artistotelico-tomistico, Federico
spiega che
essendo in
noi senso e ragione, il senso hora s’impiega in odiare, in ingiuriare, in
percuotere ed in uccidere; e questa è la parte irascibile. Hora è tutto
occupato in amare, in giovare, in godere, e ne’ diletti, sé e ad altrui
compiacendo; e questa è la parte concupiscibile. La ragione poi, overo la
volontà, è quella che, quasi reina, stando in mezzo di queste due ancelle,
volge sempremai lo sguardo al bene, e quello naturalmente proccura e cerca
di conseguire e, quando nol fa, ad una di queste due serve troppo
credendo, perde ogni suo honore e grandezza. SR, IV, iii, i, pp.
172-176, p. 172 (41).
Lo smarrimento della ragione è all’origine
della conflittualità fra anima e corpo, che, «stretti amici in apparenza»
e «con una comune legge congiunti», sono «cotanto l’uno all’altro
infedeli, e d’inclinatione così poco fra se conformi, che in ogni cosa
guerreggiano» (SR, IV, v, i, p. 190).
Se questo è il punto di partenza, per «trovar perfettamente
la perfettione della virtù» (Dispositio, f. 91r), si rende
necessario ritessere un dialogo, che, lungi dal mortificare gli appetiti
sensibili e le legittime esigenze della corporeità, sappia dare ad essi
una espressione proporzionata alla loro natura effettiva. Come si legge
nella Dispositio «non si ha da curare i primi moti come di cosa
minima»: ogni istinto passionale merita attenzione e non si deve in alcun
modo «estirpare totalmente le passioni, come volevano gli stoici»
(ibidem). Occorre piuttosto trovare la misura conveniente: «sicome tutte
le cose create hanno la perfettione loro nella debita misura, et le
imperfettioni e vitio posto nello eccesso, o difetto di quella» (Dispositio,
f. 88v), così anche le passioni devono trovare la loro «convenevol
proportione»
(SR, III, xi, pp. 29-32, p. 30),
la loro giusta misura, che riguarderà anzitutto l’oggetto del desiderio e
secondariamente l’intensità del desiderio stesso. Il concetto è
esemplificato con riferimento alla vista:
non devi abhorrire la
passione o senso moderato della vista nelle attioni, come se fosse male
con voler imitare a modo di simia l’istinto particolare divino di alcuni
santi ch’havevano ciò in uso; ma admettere tal senso, et con libertà
dominarli con l’uso della ragione et rifinire il tutto in Dio.(Dispositio,
f. 91r).
La connotazione morale, qui applicata alla vista, è propria
anche degli altri sensi ed in essa risiede il discrimine fra il piacere
disonesto, che genera occasioni di peccato, e quello onesto, delineato,
nel già ricordato ciclo sui cinque sensi, a partire da un confronto con
gli “antichi” che, sul tema, appare piuttosto serrato. Dalla speculazione
greca si originano due posizioni antitetiche: per Platone «la cagione di
tutti i mali dell’infelice terra» è «nel piacere», verso il quale troppo
indulge «la mal disposta mente» (SR,
V, viii, p. 409)
(42);
Epicuro, «alla guida de’ sensi solamente attendendo»
(SR, II, xiii, p. 103),
vede nel piacere «il maggior bene» (SR,
V, viii, p. 409)
e lo ricerca
«fra le lascivie e fra nobili conviti»
(SR, II, xiii,
p. 103).
In una mediazione fra i due estremi si colloca la posizione
di Federico. Egli asserisce con forza, sebbene smorzi prudentemente
l’affermazione con un «siami licito […] dire», che «nella scuola di
Christo […] le porte di esso (cfr piacere) libere sono ed aperte; e che i
belli e grandi piaceri non s’interdiscono al cristiano» (SR,
V, viii, p. 409).
Constata però con preoccupazione come «i sensi troppo più che non ci
sarebbe di mestiere ci accecano e ci fanno vivere in miseria e tengono
quasi del continovo la ragione così imprigionata, che poco lume ella
discerne» (SR,
II, xiii, p. 104).
La ricerca delle delizie fine a se stessa è da rifiutare, ma i diletti
sono il premio di una vita onesta; è Dio a produrre «mari e fiumi di
celestiali diletti» (SR, VIII, xi, pp. 325-330, p. 325), con il pieno
appagamento dei sensi (detti anche sentimenti) e l’illuminazione
dell’intelletto, che dona al cuore la felicità.
Cristo, nella sua opera
redentiva, ricompone l’unità ab origine impressa in ogni uomo dal
creatore, accordo di ragione e sentimenti, armonia di anima e corpo,
equilibrio di vita attiva e contemplativa (43)
e dunque consonanza perfetta fra microcosmo e macrocosmo. L’opera
redentiva è un processo che avviene nell’oggi della storia ed ha come
protagonisti ciascuno degli uomini di fede cui il Borromeo si rivolge.
La prima forma di espressione
“sensibile” da recuperare in pienezza per conferire alla propria vita la
“bellissima forma della virtù” è per Federico quella della meraviglia (44),
che si fa riconoscenza e lode per la costante iniziativa d’amore di Dio
nel mondo creato e nella storia personale di ciascuno. Il rendimento di
grazie risponde all’essenza stessa dell’essere umano, «creato per
intendere le opere del mondo della natura e del mondo della gratia e per
ammirare quanto in amendue si contiene e per ringratiare, benedire, lodare
ed amare il sommo bene offertogli con prontezza» (SR, V, x, pp. 327-329,
p. 328). E’ quanto, in forma sintetica, recita il fondamento ignaziano
nell’esordio della Dispositio («l’huomo è stato creato a questo
fine, acciocché lodi e riverisca il suo Signore Iddio») ed è tematica cara
anche alla spiritualità filippina, cui proprio il giovane Borromeo dà voce
nel dialogo Philippus, asserendo che la vera gioia consiste nel
«continuo ricordo dei benefici divini» (Valier, 1975, p. 23) (45).
In ragione di questo atteggiamento positivo Dupront (1932, 1935, 2001) ha
creato la categoria dell’«ottimismo cristiano», che ha ottenuto molta
fortuna presso gli studiosi, ma la cui forza ermeneutico-interpretativa va
forse riequilibrandosi alla luce delle nuove acquisizioni critiche (46).
Se lo sguardo è invitato ad alzarsi verso i
cieli, è altresì sollecitato a farsi strumento di una acuta introspezione
interiore, che si inabissa in oscure profondità, ben lontane da una
visione ingenuamente ottimistica. La dimensione dell’interiorità è
espressa attraverso l’immagine del cuore, «povero ed oscuro», niente più
di un «diversorio ed un misero albergo pieno di viandanti, di strepiti, e
di confusioni» (SR, II, iii, pp. 17-28, p. 27) (47).
In esso il peccato giace come «fiero mostro» «nelle più nascoste parti
[…]; e fuggendosi dalla luce come è costume delle salvatiche fiere
continuamente dimora; e quivi appena veder si può il suo crudel sembiante»
(SR, IV, ii, i, pp. 157-161, p. 157) (48).
Per snidarlo «il natural lume dell’intelletto col divino fuoco della
gratia» deve ravvivarsi e «per ogni lato andar ben ricercando i più
riposti luoghi del cuore e le più occulte e solitarie sue grotte» (SR, IV,
i, ii, pp. 139-143, p. 139) (49).
Questa indagine razionale è l’esame della
coscienza, da compiersi ogni sera (50)
e sempre prima della confessione, secondo due regole principali:
individuare le cause del peccato ed «esaminare le circostanze che il
nostro peccato accompagnarono» (SR, IV, i, ii, p. 140) (51).
In esse sono da ravvisare le categorie aristoteliche, valide sia per il
discorso retorico (52)
che per quello etico: «nella Filosofia morale compare la nozione di
circostanza intesa come occasio particolare per la realizzazione
delle azioni morali» (Zanlonghi, 2000, p. 24) (53).
Le circostanze determinano l’occasione del peccato, che è bene imparare a
riconoscere subito (54)
per evitare che l’azione peccaminosa si trasformi in habitus (altra
categoria aristotelica) o in pessima usanza, magari dell’intera città,
come avviene per lo sconcio parlare o per la profanazione dei luoghi di
culto, al centro delle riprensioni di Federico ai milanesi.
La gravità dei due peccati è proporzionale
al peso della loro rilevanza pubblica, alla profondità delle loro radici
in interiore homine e al reciproco interagire di questi due
aspetti. Ogni espressione corporea, nella visione antropologica
federiciana, è segno che comunica. Ogni gesto è rivelazione
dell’interiorità, in quanto «le parole sono indice dell’animo» (Miscellanea
Vercelloni, f. 21r) (55)
e il culto esteriore è specchio di quello del cuore, ed è, per il suo
essere visibile (56),
exemplum virtuoso o peccaminoso. Raccomandare un parlare onesto o
prescrivere atteggiamenti devoti ad civilem cultum urbanitatemque
non è, perciò, rinuncia ai grandi temi pastorali, per ripiegare sulle
semplici buone maniere cristianizzate, ma è forte ambizione pedagogica di
chi ancora crede nella persona come unità e pienezza di anima, corpo e
sensi e di chi è convinto che l’esempio, in virtù di una imitazione che si
fa assimilazione (57),
sia forza capace di trasformare il cuore dell’uomo (58)
e il volto della società.
A Milano il
Borromeo propone la Gerusalemme ultraterrena quale punto di partenza, ed
insieme modello esemplare di riferimento, cui tendere in un incessante
lavoro di «reformazione» (SR,
VIII, xvi, pp. 350-354, p. 352).
Dalla gerarchia celeste che la caratterizza
quasi per
riverberatione e per ripercotimento, ne viene formata e come colorata con
finissimi lineamenti e sembianti questa terrena. Sì come adunque la
gerarchia celeste è come misura e forma della terrena, così questa prender
dee ogni sua bellezza e perfettione, quasi da esemplare, da quella
primiera e sovrana idea, alla quale noi tutti dobbiamo sempremai studiare
d’assomigliarci. (Idem).
Come ciascuna
gerarchia angelica assolve a una propria specifica funzione, così «far
dovrebbe ciascun fedele di Christo, faticando e travagliando secondo le
leggi del suo uficio e del suo stato» (Ibidem)
(59).
L’accordarsi di ciascuno al ruolo che gli è stato assegnato è la
condizione perché possa risuonare l’armonia del mondo: «per tal modo
questa cetera sentirassi accordata e vedrassi questa scala delle cose
create, cominciando dalle inferiori infino alle superiori, salire infin’al
cielo ordinatamente» (SR,
VIII, xv, p. 345).
Non si tratta di una visione
irenica perché la nascita della compagine sociale è connessa, più che alla
socialità naturale di aristotelica memoria, alla situazione di indigenza e
povertà propria di ogni natura finita, in accordo con l’affiorare a fine
Cinquecento di dottrine neostoiche; è piuttosto un appello accorato a
inverare nell’oggi la perfezione insita nel cosmo dei corpi sociali quale
riverbero dell’armonia del mondo creato.
Per una filosofia cristiana
Lo spirituale ammaestramento di Federico al
suo popolo è dunque tutto giocato in una costante «dialettica di visibile
e invisibile» (Bosco, 2001, p. 135). Essa non necessita di una
comprensione solo razionale, poiché non nasce da una speculazione
semplicemente intellettuale, bensì chiede una «compartecipazione» totale a
quella «profonda esperienza del divino» dalla quale si origina lungo il
cammino di una intensa vita spirituale (ibidem). Il suo centro ispiratore
è nell’incarnazione del Figlio di Dio, che è il luogo per eccellenza
dell’incontro di visibile e invisibile.
In nome di una
parola che si fa carne, Federico può definire il proprio pensiero,
sull’esempio di Clemente Alessandrino, una «filosofia cristiana», ovvero
«un cogniugnimento degli ottimi costumi con la soprannaturale dottrina»
(SR, I, xxxiv, pp. 339-360, p. 344) (60).
In nome del verbo incarnato egli definisce se stesso un vescovo filosofo,
la cui parola si fa gesto ostensivo, quasi «mano dell’animo per mezzo
della quale habbiamo da operare cose straordinarie per il divino servitio»
(BAMi,
G 20 inf., n.8, ff. 2v-3r)
(61).
Appare ancor
oggi “fuori dall’ordinario” che per oltre vent’anni, in più di trecento
prediche, Federico con energia inesausta, nonostante la sempre maggiore
difficoltà dei tempi, si incarichi di mostrare a tutti che la pienezza
dell’umano attende di essere ogni giorno scoperta fra i «tenebrosi
splendori» della grotta di Betlem (SR,
VII, viii, pp. 187-192, p. 187)
(62).
Riferimenti bibliografici
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Biblioteca Ambrosiana di Milano (BAMi). La
titolazione dei codici, che recupera la versione originale federiciana, si
discosta in molti casi da quella della attuale catalogazione, a cui si
riferisce l’inventario del Marcora (1988), che si basa su una schedatura
successiva all’originale.
Codici con gli originali manoscritti delle
prediche:
BAMi, G 18 inf., n. 6, In nativitate
beatae Virginis. Commentaria concionum.
BAMi,
G 18 inf., 8, In psalmo 18. Commentaria concionum, n. 8.
BAMi,
G 18 inf., 10, In festo penthecostis.
Commentaria concionum, n. 5.
BAMi,
G 15 inf., Notae quaedam et schemata concionum, quas card.
Federicus Borroemus […]
BAMi, F 16 inf., Selva di prediche et
altri ragionamenti fatti in diverse feste, solennità e funzioni dal
cardinale Federico Borromeo arcivescovo di Milano.
Quaderni di studio del cardinale. Appunti
di lettura sono contenuti in:
BAMi, G 9 inf., n. 1, Excerpta et notae,
vol. II, n. 41. Si sono individuati anche il primo e il terzo volume di
questa serie nei codici G 24 inf., n. 7 e G 23 inf., n. 3.
BAMi,
G 21 inf., n. 3, Patres.
Clemens Alexandrinus,
n. 36.
Appunti di lettura e spunti vari di
riflessione sono annotati in tre codici che costituiscono la serie dei
Coniectanea:
BAMi,
G 19 inf., n. 1, Coniectanea prima, n. 35
BAMi, G 19 inf., n. 4 , Coniectaneorum
lib., 2, n. 37
BAMi, G 19 inf., n. 5, Coniectaneorum
lib. 3
Appunti per un
trattato di filosofia morale
progettato dal cardinale ma mai portato a
termine. Queste note sono strettamente correlate a quelle contenute nel
primo quaderno dei Coniectanea:
BAMi,
G 21 inf., n. 6, Philosophia christiana, n. 24.
Opere manoscritte del cardinale:
BAMi,
G 17 inf., n. 5,
Ragionamenti familiari dell’oratione fatti alle monache
BAMi,
G 19 inf., n. 2, Dispositio ad esercitia facienda
BAMi,
G 309 inf., n. 35, Tumultuariae tabulae
BAMi,
G 310 inf., De suis studiis commentarius
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Note
(4)
Bosco (2002) offre una acuta valutazione storico-critica dell’universo
culturale e spirituale federiciano a fronte delle più recenti acquisizioni
critiche. Si rimanda perciò a questo studio per un ragguaglio
bibliografico relativo alla figura del secondo Borromeo. Altri
approfondimenti nelle note successive.
(7)
Idem. Due sermoni sono dedicati ad esaltare il silenzio di Maria come
espressione più autentica e adeguata di lode: SR, VIII, xii; xvii, pp.
354-358; xx, pp. 368-372. Il rinvio è alla “pienezza” della teologia
negativa, per la quale si veda: De Certeau (1987).
(11)
Su questo tema nella cultura fra Cinque-Seicento illuminanti sono le
pagine che Fumaroli (1995) dedica al rapporto «visione e preghiera»,
soprattutto il paragrafo Ut pictura rhetorica divina, pp. 291-313.
(12)
Nell’elaborare il tema dell’armonia universale, nei termini di “armoniosa
consonanza” e di “mescolanza ben temperata”, Borromeo sembra attingere
direttamente alle fonti culturali pitagoriche e platoniche, mediate dalla
riflessione dei padri greci, in particolare Clemente d’Alessandria. Nei
ragionamenti vengono riproposte spesso le note del codice Patres
(BAMi, G 21 inf., n. 3, Excerpta Patres), f. 1, che derivano dal
Protrettico: «sed praeterea universum mundum composuit armonicum.
Elementorum discensionem in ordinem redigit consonantiae. Ignis
vehementiam aere emollit velut doricam armoniam lydia attemperans»; «concludit
Deum uti mundo ac praecipue homine tamquam instrumentum musico, multarum
vocum»; «homo cithara est Dei propter armoniam». I passi sono
inventariati alle voci «mundus», «deus», «homo», «musica».
Per il tema dell’armonia riferimento obbligato è Spitzer (1967).
(13)
Nel manoscritto l’immagine è introdotta da un riferimento molto concreto
al mondo del fare artistico: «et non bastando a quell’artefice divino di
haver formato cosa così bella, mai satio d’ornarla, sempre l’ha resa più
meravigliosa con lo sguardo. Ad usanza però più tosto de pittori formò
questa imagine, che di scultori […]. I scultori formano l’imagine levando
dal sasso il superfluo, i pittori aggiungono, senza levare, colori et
ombre»: BAMi,
G 18 inf., n. 6, ff. 12r-15v, f. 13v.
(14)
Si leggano le ammonizioni di padre Pozzi (1993, p. 43). Si considerino le
altre interpretazioni del dipinto. La Jones pone l’opera in relazione ai
brani delle Laudi dedicati alla bellezza della terra ed afferma che
nel quadro di Brueghel Federico abbia visto rappresentata la «vastità e
ricchezza della realtà metafisica» in linea con il suo ottimismo: Jones
(1997, p. 3 e 74). Motta (1999) accosta la descrizione dell’opera nel
Musaeum con un brano dell’Arcadia di Sannazzaro (p. 143).
(15) SR,
V, v, p. 307.
Di lei si dice, prosegue Borromeo (Id.), «esaltata est
sancta Dei genitrix super chorus angelorum ad caelestia regna».
(17)
Ad esprimere la partecipazione di Maria alla seconda creazione, che
riconcilia cielo e terra, è una bella immagine dell’ottavo ragionamento
(SR, V, viii, pp. 318-323): «il corpo di lei fu il velo sottilissimo et
delicatissimo che nel tabernacolo (Ex., 26) sparso tutto di cherubini,
divideva la parte superiore et la sancta sanctissima dal resto del
tabernaculum et dividendolo l’univa et unendolo lo divideva. Et era un
bel mezzo fra le due estreme parti» (G 18 inf., n. 6, ff. 6r-8v f.
7r).
(18)
L’enfasi sull’incarnazione, che esalta il ruolo della mediazione di Cristo
in termini di armonia ritrovata fra il cielo e la terra, è tratto diffuso,
seppur con accenti diversi, nelle correnti spirituali della Roma di fine
Cinquecento: se ne fanno portavoce i predicatori della corte papale
(McGinness, 1995, p. 95); se ne alimentano tanto i gesuiti, per i quali
nel Cristo incarnato della riflessione paolina «trovano riconciliazione il
cielo e la terra, la carne e lo spirito, il temporale e l’eterno, il
visibile e l’invisibile» (Baffetti, 1997, p. 81), e i padri oratoriani,
«nella cui spiritualità cristocentrica il mondo naturale e quello
soprannaturale, dei quali Cristo rappresenta l’anello di collegamento,
hanno un’importanza particolare» (Jones, 1997, p. 65).
(19)
Circa le influenze esercitate dagli esercizi ignaziani sugli sviluppi
della retorica cinquecentesca si veda: Ossola (1988).
(20)
BAMi, G 19 inf., n. 2, Dispositio ad esercitia facienda, (d’ora in
poi Dispositio). Per la descrizione del manoscritto si veda:
Marcora (1988, p. 52).
(21)
È questo solo il primo punto della “immaginazione”.
(22)
Id. Si tratta rispettivamente del secondo, del terzo e del quarto stadio.
(23)
BAMi, G 264 inf., Miscellanea carmina et nonnulla alia ad cardinalem
Federicum Borromeum spectantia, f. 17v (d’ora in poi Miscellanea
Vercelloni). Il quadro può essere identificato con la Madonna dipinta
nel 1596 da Scipione Pulzone da Gaeta, donata a Federico da Francesco
Maria della Rovere (Jones, 1997, pp. 258-259). La Jones suppone che
l’opera, oggi perduta, rappresentasse una Mater dolorosa, come
appare anche dalla descrizione inedita del Vercelloni. Questi, a riprova
dell’interesse del cardinale per le immagini mariane, racconta anche un
aneddoto, che avrebbe avuto come protagonista addirittura Michelangelo
Merisi. A lui il cardinale si sarebbe rivolto per la commissione di «un
quadro della beata Vergine col manto stellato». «Il pittore promise di
farlo et lo tirò in lungo anni e anni», finché alla pacate rimostranze di
Federico rispose: «se volete vedere la Vergine stellata andate in
paradiso. Il cardinale si tacque […] e si servì di altro pittore» (Miscellanea
Vercelloni, f. 26r). Sui possibili rapporti diretti di conoscenza fra
Federico e Caravaggio: Marghetich (1988, p. 108).
(24)
La devozione stessa alle immagini e il loro uso nella preghiera meditativa
presentano elementi di affinità con la spiritualità oratoriana, ben
illustrata in: Barbieri (1995).
(25)
BAMi, G 19 inf., 1, Coniectanea prima, ff. 114-115, voce Maria
(d’ora in poi: Coniectanea prima). Il concetto è amplificato in SR,
IX, i, pp. 399-406, p. 403.
(26)
Nel quinto volume, dopo due ragionamenti dedicati in termini generali alla
gloria dei corpi (il VII e l’VIII), inizia l’analisi dei cinque sensi a
partire dalla vista (IX) e dall’udito (X). È probabile che i due
ragionamenti datino al 1614/1615, vista la seguente nota manoscritta in
BAMi, G 15 inf., f. 54: «tractavi hoc anno 1614 circa sensum visus.
Reliqui sensu supersunt sed animadvertundum quod insit varietas in modo
tractandi et moralitatibus». Il discorso sui sensi è completato nel
settimo volume, con il ragionamento sull’olfatto e sul gusto,
rispettivamente nel 1618 e nel 1619 (VII, XIV) per finire nell’ottavo con
la trattazione del tatto (IV) nel 1621. Con il ragionamento successivo
(VIII), «acciò che non paia che possa esser troppo materiale la
descrittione della beatitudine» (BAMi, F. 16 inf., ff. 122r-123r, f.
122r), hanno inizio una serie di sermoni sulla cognizione dei beati in
paradiso.
(27)
Forse per questo è usato, insieme alla terra e all’aria, come termine di
paragone per definire l’umiltà in: SR, II, xv, pp. 125-140, p. 133: «o
umiltà beata! Mi piace ora di paragonarti col sentimento del tatto sparso
e diffuso per qualunque parte del nostro corpo, essendo per lo contrario
gli altri sensi ristretti in determinati luoghi. Tu sei a guisa dell’aere,
per cui spiriamo e respiriamo di punto in un punto, il qual aere è come
continuativo nutrimento delle nostre vite e ripieni ne sono etiandio i
sentimenti del vedere e dell’udire e dell’odorare. Ultimamente tu se la
bassa terra, che sopra il suo dorso ci sostiene e non ci lascia rovinare
nell’abisso». Il passo è ripreso da BAMi, G 21 inf., n. 6, Semina rerum
sive de Philosophia christiana, f. 97: «Pare questa virtù
essere senza alcun termine et misura et necessariamente si richiede in
ogni virtuosa operatione et è come il sentimento del toccare sparso et
diffuso per tutto il corpo et all’operare degli altri sentimenti giovevole
molto. Et è a guisa dell’aere, dalla quale spiriamo di punto in punto,
necessario sostegno, et quasi nudrimento delle nostra vita. Overo
assomiglia alla bassa terra, che sostentandoci fa che noi nell’abisso non
cadiamo».
(28)
Si veda il brano manoscritto in BAMi,
G 19 inf., n. 4,
Coniectanea secunda, f. 22 (d’ora in poi Coniectanea secunda),
al quale rimanda la redazione manoscritta della predica (F 16 inf., ff.
194r-195v, f. 195r): «Pepigi foedus cum oculis. Non per manco che
considerandosi insieme le potenze si può tenere a freno il vedere; non
basta leggiermente proporsi di farlo, ma foedus inire, che è delle cose
gravi, difficile porre rimedio. E per così dire il governo degli occhi non
è dispotico, ma politico».
(29)
Nella redazione manoscritta (BAMi, F 16 inf., ff. 146r-147v): «Aristoteles,
eticorum 1, 1c.7, tom.5» (ivi, f. 146v).
(30)
L’affermazione federiciana che «la patria celeste è il proprio regno della
letizia» richiama immediatamente al clima dell’oratorio della Vallicella.
Per un approfondimento: Armogathe, 2001.
(31) Nei
primi anni di formazione
Federico ha modo di accostare i gesuiti: a Bologna matura addirittura la
decisione di entrare nell’ordine; a Pavia è affidato a un precettore che
segue il metodo di lavoro del Toledo. Scrive infatti Domenico Ferro a san
Carlo: «Ho parlato coll’illustre sig. conte Federico acciò me accenni il
modo che più li piacerebbe per li studi suoi. Sua Signoria Ill.ma l’ha
remesso in me, et io fo pensiero (quando sia la volontà di V. S. Ill.ma)
tenere la maniera del padre dottore Toledo nel leggere et dare
all’illustrissimo signor conte, per lo studiare, quel metodo che il medemo
padre Toledo me soleva insegnare» (Majocchi & Moiraghi, 1916, p.190).
Nella propria autobiografia letteraria, il De suis studiis commentarius
(BAMi, G 310 inf.), egli ricorda fra le conoscenze romane molti gesuiti:
il Toledo stesso, Benci, Maffei, Tuccio, Clavio, e Bellarmino. Sulla
spiritualità dei primi gesuiti: O’Malley (1999).
(32)
In sintonia, appunto, con i dettati della tradizione aristotelica fatta
propria dalla riflessione culturale e spirituale dei gesuiti, così
sintetizzata dalla Zanlonghi (2003): «È possibile fin d’ora ipotizzare […]
che nel progetto retorico si rispecchiava la stessa unitarietà della
persona, irriducibile ad una “sola dimensione”: l'antropologia filosofica
aristotelica, unitaria, avversa ad ogni dualismo fra forma e sostanza,
comportava una psicologia attenta a descrivere e riconoscere le molteplici
interazioni fra intelletto e passione, fra razionalità ed emotività. Le
frequenti metafore corporee con le quali si designava la sfera del
linguaggio attestano questa omologia fondativa».
(33)
Il Borromeo segue da vicino il dibattito epistemologico sollevato dalla
nuova scienza galileana, come evidenziato negli studi recenti tra i quali,
oltre i già ricordati lavori di Baffetti, si consideri almeno Bellini
(1999).
(34)
SR, V, x, pp. 421-422.
Frequentando
l’oratorio di san Filippo, Federico impara ad apprezzare la musica sacra
come strumento di devozione e di meditazione. A lui nel 1588 Francesco
Soto dedica il Terzo libro delle laudi spirituali a tre e quattro voci,
ricordando «la particolare affettione» che il cardinale «dimostra portare
a questo esercitio, havendolo tante volte honorato con la presenza sua»:
cfr. Rostirolla (2001, p. 91); Ravasi (2002).
(35)
Per Baffetti (1994, p. 90) questa considerazione esprime «quel mutamento
di disposizione percettiva, che, tra Cinque e Seicento, attraversa i campi
più diversi, dalla mistica, all’arte, alla scienza, segnando l’affermarsi
di una nuova antropologia: […] le operazioni “intellettuali” connesse al
vedere svolgono un ruolo fondamentale».
(36)
Nella redazione manoscritta (BAMi, F 16 inf., f. 195v) si ha il rimando a
Coniectanea secunda, f. 13: «grande deve essere la custodia del
vedere, imperocché l’occhio s’intromette negli affari degli altri
sentimenti et usurpa gli altrui confini et è quasi un compendio et una
quinta essentia de gli altri sentimenti. Tutto questo si conosce essere
vero, perché quello che vediamo ci pare spesso di toccarlo, di udirlo.
Vedi la neve e senti il freddo et vedi la imagine et ti pare che odi le
parole et i fiori dipinti mandano gl’odori». Il brano è inventariato alla
voce «oculi». Esso presenta forti analogie con il passo del De
suis studiis in cui il cardinale descrive, fra le altre sue
ricreazioni, il piacere che gli deriva dalla contemplazione dei fiori e
della frutta, mediata, durante l’inverno, da dipinti, che rallegrano
comunque la vista e lasciano addirittura immaginare il profumo. Si veda:
Jones (1997, p. 68), dove la studiosa ricollega a questa sensibilità
federiciana il gusto per le nature morte e i paesaggi, ampiamente
documentato nella collezione d’arte del cardinale.
(37)
È interessante che questa affermazione, di matrice aristotelica (Baffetti,
1997), sia ripresa da Clemente alessandrino. Si legge in Patres, f.
17: «sensus basis scientiae». Come il filosofo nel primo libro
degli Stromati si occupa di definire i saperi in relazione al
sapere per eccellenza, la filosofia cristiana, Federico non è interessato
alla scienza in se stessa, ma in relazione all’altra forma di conoscenza,
che è la contemplazione delle verità di fede, che non esclude, ma integra
la prima. Si veda anche: SR, VI, iv, vii, pp. 78-84, p. 79: «noi non
apprendiamo gli oggetti con l’intelletto come coi sensi s’apprendono.
Questi più agevolmente le grandi, che le piccole cose fanno discernere,
laddove l’intelletto, apprendendo alcuna cosa, s’ingegna di farla in certo
maggior, che ella non è». Questa digressione di tono scientifico è
inserita in una retorica excusatio per l’impossibilità di lodare
degnamente Ambrogio per l’altezza del soggetto.
(38)
Forse più efficace, nella sua sinteticità, la versione manoscritta:
«non vi
è niuno tanto dilicato, né rozzo, che non gusti della propria arte, di
perfezionarla, di crescervi dentro; così noi emendando i difetti del
proprio stato, verremo senz’altro a sempre meglio e più lodevolmente
esercitarla. Et ogn’uno è vago per naturale istinto di riconoscere la sua
imagine, o in fonte, o in specchio; altri con più maniere et alte con
figure con statue quella si ingegnano di rappresentar et quella dell’anima
noi perfettamente non studiamo di vedere?» (BAMi,
G 18 inf., n.
8, f. 41v).
(39)
In accordo con l’aristotelismo politico d’antico regime, il Borromeo
intende la struttura della società come un cosmo ordinato di corpi
sociali. Sulla fortuna di questo modello si vedano gli studi di Chiara
Continisio: Continisio (1994); Continisio (1995, p. 338). Per un
approfondimento relativo al pensiero del Borromeo: Burgio (2002).
(40)
A proposito del peccato come perdita della posizione di eccellenza
assegnata all’uomo: «quando la natura humana nel primiero stato felice si
viveva piena di honori, e d’ornamenti e di bellezza, il corpo era soggetto
all’anima. Guastandosi poi questo bell’ordine, ruinarono tantosto sopra di
noi tutti i mali» (SR, II, vi, p. 181).
(41)
L’anima rischia di corrompersi nel corpo: essa «immortale e celeste […] se
per se stessa e solamente per la sua natura vien considerata, delle
terrene e delle basse passioni punto non è circondata e vestita, ma se poi
quella consideriamo come unita al corpo, allora si dice esser in queste
tutta involta e quasi da esse assediata e sommersa» (SR, IV, v, i, p.
189).
(42)
Nella stampa si parla di «antichi maestri, uno dei quali, tra gli altri
tutti savissimo». Nel manoscritto (F 16 inf., ff. 184r-185v) si legge:
«Plato disse che».
(43)
Maria è icona per eccellenza di questo equilibrio. La sua anima è
paragonata alla già citata scala di Giacobbe: «sì come per gli gradi di
essa vedevansi a tutte l’hore gli angeli salire e discendere, così
nell’intelletto della Vergine i santi suoi pensieri hora si sollevavano al
cielo, muovendosi dalla terra, ed hora si partivano dal cielo, calando
verso la terra, che è come a dire, che ella contemplava ed operava
vicendevolmente» (SR, VII, vi, pp. 176-182, p. 177).
(44)
SR, VIII, xix, pp. 363-368, p. 363: «dagli alti conoscimenti che avranno
di Dio nell’eterna gloria i beati, cagionerassi in loro una grandissima
meraviglia: e di che maravigliar ci dovremmo noi nella presente vita».
(45)
Vale la pena riportare il passo che esemplifica le meraviglie tanto della
natura quanto della grazia: «se alziamo gli occhi al cielo, se
consideriamo l’ampiezza e la bellezza dell’universo, se con sguardo
interiore contempliamo la Gerusalemme celeste, nostra patria, se ammiriamo
lo splendore del sole, la varietà delle stelle, l’ordine degli elementi,
la natura e le proprietà diverse delle piante e degli animali e
soprattutto se meditiamo la superiore natura dell’uomo creato a immagine
del Re del cielo e della terra, non siamo certo soli, anzi, per grazia di
Dio, ci sentiamo pieni di gioia. E più ancora se rivolgiamo pensieri al
riscatto antico e alla nostra redenzione, guardando a quell’Agnello
immacolato, che tolse i peccati dal mondo, prese su di sé le nostre colpe,
per noi si immolò sulla croce e trionfò su satana riaprendoci i cieli. […]
Una sola cosa è necessaria: la meditazione delle altissime verità; una
cosa sola è necessaria: il continuo ricordo dei benefici divini». Queste
tematiche sono riprese nella «contemplatione per eccitare in noi l’amore
di Dio», della Dispositio.
(46)
Cf. Dupront, A. (1932). Autour de saint Filippo Neri: de l’optimisme
chrétien. In Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’Ecole francaise
de Rome, XLIX, 219-259; Dupront, A. (1935).
D’un «humanisme
chrétien» en Italie à la fin du XVIe siècle.
Revue
historique, 175,
296-307; I Dupront, A.
(2001).
Genèses
des temps modernes: Rome, les réformes et le nouveau.
Paris: Le Seuil; Gallimard.
(47)
Cfr. anche: SR, III, v, v, pp. 202-205. Il passo del primo libro degli
Stromati è sunteggiato
in
Patres, f. 16: «cor depravatum
simile diversorio.
Perforatur,
effoditur, inquinatur».
(48)
Frequente è il ricorso all’immagine degli animali selvaggi come termine di
paragone con il peccato. Ricorrente con insistenza è anche il tema della
difficoltà di riconoscere il peccato, a partire dalle parole di Agostino,
«sottilissimo investigatore dei segreti di Dio più di molti altri» (SR,
IV,v, v, pp. 202-206, p. 203).
(49)
Molte immagini sono altrove usate per visualizzare l’oscurità del cuore,
ivi comprese quelle tratte dalle conoscenze anatomiche: «egli è cosa
soprammodo malagevole […] il veder il cuore humano, ed il penetrare i suoi
più nascosti seni ed il discernere i vari sembianti di esso, e l’udir i
suoi occulti ragionamenti, ed il mirare le orme fallaci, ed i disusati
sentieri de’ suoi viaggi. Perciò forse fu con debita ragione involto in
tante fasce e di tanti veli ricoperto dalla natura, la quale, locandolo
nel bel mezzo del petto, agli occhi humani lo venne a celare» (SR, IV, ii,
i, pp. 157-161, p. 157).
(50)
Nel secondo volume degli Excerpta, risalente al 1594 (BAMi, G 9
inf., n. 1, Excerpta et notae) Federico sunteggia un brano dei
Carmina aurea di Pitagora, sottolineando come esso possa connettersi
al tema cristiano dell’esame di coscienza: «id quod nos vocamus examen
conscientiae descrivitur ita: neque somnium mollitur oculis inducas
priusquam diu (giornaliere, vuol dire) operum singula ter anima percurras»
(ivi, f. 141). Dieci anni dopo Federico si serve di questa osservazione
nella prima delle lezioni circa gli impedimenti della vera penitenza. Egli
esorta il suo lettore/uditore a ricercare le cause del peccato, dicendo:
«né voglio hora che tu impari quali esser debbano da Agostino, né da
Basilio, né da Bernardo nostri saggi maestri, né da altri sacri dottori,
ma sì da un antico greco filosofo, il quale ci lasciò scritto ne’ suoi
versi d’oro: giammai il sonno non ingombri i tuoi occhi se prima ben tre
volte non avrai pensato a ciascuna opera di quel giorno» (SR, IV, i, ii,
p. 141).
(62)
Un quadro, che Federico ha tenuto sempre con sé nel palazzo arcivescovile,
sembra visualizzare questa idea. È il Presepe, opera di Federico
Barocci, che affida alle mani l’espressione dei sentimenti. Nella penombra
dell’umile capanna, la luce del bimbo, sulla sinistra, illumina la madre,
che apre le braccia a dire tutto il suo stupore. Dietro di lei, san
Giuseppe, in piedi, di profilo, alza il braccio, per indicare con la sua
mano possente la culla di Gesù ai pastori, che timorosi fanno capolino da
una porta, relegata sullo sfondo del dipinto. I gesti delle mani guidano
lo spettatore del quadro ad ascoltare la predica del presepe. Per la
committenza del dipinto da parte del Borromeo: Mojana (1998).
Marzia
Giuliani
è dottore di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove
ricopre l’insegnamento di Storia del corpo e del comportamento presso la
Facoltà di Scienze della Formazione (sede di Piacenza). Contatto:
Via Vodice 4, 20148 Milano, Italia. E-mail: giuli.marzia@tin.it
Data
de recebimento: 20/10/2003
Data de aceite: 05/03/2004
Memorandum 6,
abril/2004
Belo Horizonte: UFMG;
Ribeirão Preto: USP.
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos06/giuliani01.htm
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