Ales Bello, A. (2005). Medea fra passato e presente. Memorandum, 8,  62-71.  Retirado em   /  /  , do World Wide Web: http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos08/alesbello03.htm

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Medea fra passato e presente

 Medea between past and present

Angela Ales Bello
Pontificia Università Lateranense
Italia

 

Resumo
Questo saggio si propone analizzare la questione riguardante la diversità fra le culture: quella dalla quale deriva Medea e quella greca. Si tratta dello scontro fra un popolo il quale ha elaborato una visione del mondo che si fonda sulla potenza del logos e un popolo che nella tragedia di Euripide rimane lasciandosi travolgere dalla passione. Si inserisce la rilettura della figura di Medea da parte di Christa Wolf con un nuovo rapporto fra ragione e sensi. L´analise della hyletica consente di verificare che non si tratta di liberare le sensazioni, ma di vedere il valore di tutta quella sfera psichico-corporea che costituisce di per sé una “materia” per la valutazione. Si sofferma sull’incontro-scontro fra culture e sul rapporto maschile-femminile facendo riferimento a due momenti fondamentali per la civiltà occidentale: quello derivante dalle basi teoriche fornite dalla filosofia greca e quello legato alla tradizione religiosa ebraico-cristiana.

Palavras-chave: Medea; diversità culturale; ragione; hyletica fenomenologica


Abstract
The purpose of this essay is to analyze the question of diversity between two cultures: the one from which Medea is derived from, and the Greek. It is about the shock between a people who elaborated a world view based on the potency of the logos and a people who in Euripide's tragedy remains pulled by passion. It contains a reading of the figure of Medea by Christa Wolf with a new relationship between reason and the senses. Analysis of hyletics allows to observe that it is not about liberating the sensations but of looking at the value of an entire psychic-corporeal sphere that constitutes by itself a "matter" for evaluation. It focuses the encounter-shock between cultures and the male-female relationship referring to two fundamental moments of Wester civilization: one deriving from theoretical basis based on Greek philosophy and one founded in Hebrew-Christian religious tradition.

 Keywords: Medea; cultural diversity; reason; hyletic phenomenology

Nella luce del tramonto a Siracusa la voce di Medea risuona nel teatro greco pronunciando le immortali parole messe sulla sua bocca da Euripide: “…io sono sola, senza / patria, oltraggiata da uno sposo che / mi ha qui condotta come sua preda / da una terra straniera, e non ho meco / una madre, un fratello, un consanguineo, / presso cui rifugiarmi in così grande / sventura!” (431 a.C./1954, p.120). Due nuclei problematici appaiono immediatamente in questa lamentazione: da un lato l’estraneità culturale di Medea rispetto alla città di Corinto, dall’altro la sventura di essere stata abbandonata, lei donna indifesa, da Giasone che l’aveva condotta in quella città; e i due momenti sono connessi perché l’abbandono è sentito come derivato dal fatto di essere straniera e di essere debole in quanto donna.

Il primo problema, a mio parere di grande rilievo, è, allora, proprio quello relativo allo scontro fra culture, determinato dalla consapevolezza dei Greci di essere giunti ad un livello di civiltà altissimo e di aver lasciato dietro di loro tutti gli altri popoli, in particolare quelli che vivevano nelle terre d’Oriente. Giasone, quando si scontra direttamente con Medea, preso dall’ira, esprime questa consapevolezza in modo esplicito e brutale:

Tu non dimori adesso in una terra

barbara, come prima, ma nell’Ellade, pensaci bene, e non ignori più

giustizia e, occorrendo, sai servirti

delle leggi e ti guardi dal ricorrere

sempre alla forza. Aggiungi che la tua

sapienza è famosa in tutta l’Ellade,

di te si parla ovunque; che se invece

fossi rimasta al tuo paese barbaro,

lontano, ai lembi estremi della terra,

nessuno al mondo ti conoscerebbe. (Idem, pp. 132-133).

Non desidero soffermarmi, per ora, sulla capziosità del discorso di Giasone, sulla sua abilità di rovesciare a suo favore un atto di per sé riprovevole perché giudicato immorale dalla società - come è bene indicato attraverso il Coro - ma mi propongo di analizzare la questione riguardante la diversità fra le due culture, quella dalla quale deriva Medea e quella greca.

Si tratta dello scontro fra un popolo il quale ha elaborato una visione del mondo che si fonda sulla potenza del logos e un popolo che nella tragedia di Euripide rimane sfumato, dai contorni non netti, ma caratterizzato da alcune connotazioni, la forza senza la legge, l’inserimento del singolo in una struttura tribale che ne impedisce la valorizzazione personale attraverso la fama, l’incapacità di condurre un ragionamento e di saperlo esporre verbalmente, lasciandosi, piuttosto, travolgere dalla passione. Non bisogna dimenticare che mentre Euripide scrive le sue tragedie, Atene sta vivendo dal punto di vista filosofico la sua stagione più felice, e non solo per la presenza di personaggi “costruttivi” come Socrate e Platone, ma per la presenza dei Sofisti, dai quali, d’altra parte, Socrate/Platone proviene e con i quali, pur distinguendosi, continua a vivere in feconda polemica. E a questo proposito ha ragione Nietzsche (1872/2003) quando nella sua Nascita della tragedia coglie in Euripide la fine di quell’equilibrio fra apollineo e dionisiaco caratteristico delle opere di Eschilo e di Sofocle e denuncia l’appartenenza di quest’ultimo al mondo culturale basato sull’astrattezza teorica che sarà vincente in Occidente, di cui è espressione la mentalità sofistica, riscontrabile nell’abilità verbale di Giasone.

Ho parlato di stagione felice non tanto relativamente ai contenuti che la retorica sofistica proponeva quanto in relazione alla forte autocoscienza critica che ormai, e direi in modo definitivo, si era affermata in Grecia e per suo tramite nella cultura occidentale. E’ quel “miracolo” che si manifesta in modo potente e prepotente nel logos occidentale: straordinaria capacità della ragione di cogliere se stessa e altro da sé, e,  cogliendo se stessa,  di rendersi conto anche del suo potere.

Il rischio della ragione è, però, di chiudersi in se stessa disprezzando tutto ciò che non può essere razionalizzato o peggio ancora di essere strumento di realizzazione di fini egoistici che sono abilmente spacciati come universali. Si delinea, in tal modo, il doppio uso della ragione come riflessione illuminante ma anche come mezzo di elaborazione menzognera e di esaltazione dell’utile

…Non già perché mi fosse ormai

di peso l’amor tuo, come tu pensi

nel tuo strazio inconsulto, e non perché

fossi spinto dal desiderio di una nuova sposa o di un’altra figliolanza

mi sono sufficienti i figli che ho,

e non mi dolgo se non sono molti

ma perché mi pensavo – odimi bene;

è questa la ragione che più importa -

di render la famiglia nostra agiata,

poi che gli amici subito si dileguano,

se si cade in miseria. (Idem, p. 133).

L’abilità sofistica sta nel far apparire, per mezzo del discorso, bene ciò che bene non è; si pensi alla funzione poietica della parola in un sofista di professione quale è Gorgia, egli scrive L’elogio di Elena, ritenuta responsabile secondo il sentire comune della guerra di Troia, essendo capace di calpestare tale sentire per far trionfare l’opinione più abilmente sostenuta, la sua, appunto.

Logos occidentale e ragione strumentale: la criticità ormai si è insediata in Occidente da quel tempo lontano della svolta sofistica, e quella stessa cultura che elabora il sofisma lo sa anche smascherare. La critica alla ragione strumentale è propria, nel corso del Novecento, di alcune correnti filosofiche, mi riferisco agli esponenti della scuola fenomenologica e quella sociologica di Francoforte. Con la ragione contro la ragione per far apparire ciò che è altro dalla ragione, non solo in una riflessione strutturale di tipo antropologico, ma anche interculturale: coscienza della diversità fra la cultura occidentale e le altre culture. Se questo ultimo punto è più evidente nella scuola fenomenologica – pensi ai numerosi accenni di Edmund Husserl (1950/2002) a questa tematica nella sua ultima opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale –, nella scuola di Francoforte il logos occidentale è criticato per la sua perversione politica che dà sostegno ad un’economia di tipo capitalistico e ha come sua conseguenza la corruzione morale operata dal consumismo. Herbert Marcuse, esponente di questa scuola, diventa l’ispiratore della rivoluzione del Sessantotto che non vuole più la ragione, ma l’immaginazione al potere. Spinte estetizzanti, a loro modo esprimenti istanze morali contro l’ipocrisia della società borghese.

 

Lo scontro fra culture

È in tale contesto che bisogna inserire la rilettura della figura di Medea da parte di Christa Wolf. Questa intellettuale della Repubblica Democratica Tedesca che aveva subito molto accuse da parte di molti occidentali, i quali denunciavano il suo sostegno al regime comunista autoritario e certamente non “democratico” della Germania orientale, rivede se stessa nella figura di Medea, usata quale capro espiatorio - diventato tanto spesso “femminile” nel corso della storia, come era stato nel caso di Cassandra alla quale la Wolf ha dedicato un’altra sua celebre biografia (Wolf, 1990).

A questo forte significato di contrapposizione politica si aggiunge il tema del contrasto fra culture, quella dei Colchi dalla quale Medea proviene e quella dei Greci nella quale ora vive. Certamente, per la Wolf, si tratta anche del contrasto fra una cultura arcaica e una considerata più “evoluta”, quasi di una nostalgia di un tempo migliore, che, tuttavia, si perde in un passato remoto, perché gli stessi Colchi, dai quali Medea proviene, sono ormai corrotti. E la corruzione passa attraverso molte vie, ma quella fondamentale riguarda la perdita della centralità del femminile nella dimensione sociale e politica corrispondente ad una fase arcaica ormai superata. È il tema del matriarcato presente non solo presso i Colchi, ma anche presso i Greci di Corinto; infatti, secondo Christa Wolf  la moglie di Creonte, Merope, rappresentava ancora un residuo di potere politico femminile, completamente eliminato attraverso il sacrificio rituale della figlia Ifinoe, scoperto casualmente da Medea. A questo corrispondeva l’altro sacrificio alla ragion di stato del fratello di Medea ucciso dal padre Eete che non voleva lasciargli il trono. E di questo delitto in Corinto era stata accusata Medea.

Tale schema interpretativo, risalente a Johann Jakob Bachhofen (1861/1938), secondo il quale nel suo Il potere della madre, al primato religioso della Dea Madre, confermato dai reperti archeologici, corrispose anche un primato politico, non trova in realtà una conferma nei dati storici, tuttavia è una suggestiva ipotesi che rivela in ogni caso un processo brutale di sopraffazione del femminile ad opera del maschile.

Quello che interessa maggiormente nella interpretazione della Wolf, la quale scagiona Medea da ogni colpa, da quella dell’uccisione del fratello a quella dell’uccisione dei figli – ella ripropone, infatti, la tesi di Apollonio Rodio ripresa da Robert Graves secondo la quale Euripide fu pagato dai Corinzi per incolpare la straniera di un delitto da loro commesso – è la revisione del concetto di “barbarie”, tanto caro ai Greci.

Tale revisione passa attraverso un nuovo rapporto fra ragione e sensi, un nuovo modo di intendere l’arte del curare e quindi la “magia” di Medea.

 

Medea maga: la hyletica come chiave interpretativa della magia

Stupisce che, nonostante la sua barbarie, Medea abbia acquistato fama presso gli abitanti di Corinto per la sua capacità di guaritrice, per la capacità di manipolare non solo sostanze benefiche ma anche malefiche fino al punto di uccidere con il peplo avvelenato la nuova sposa di Giasone. E’ proprio quest’ultimo il quale, per farle riconoscere che anch’egli ha dato qualche beneficio a Medea conducendola in Grecia, rileva che “…la tua sapienza è famosa in tutta l’Ellade”; ma di quale sapienza si tratta? Non della capacità critica e logica di cui i Greci, almeno alcuni di loro, sembrano così abili, ma di una profonda consonanza con la natura tale da saper cogliere dalla realtà fisica tutti gli stimoli necessari per reagire su di essa e stabilire nuovi equilibri.

È proprio la Christa Wolf che dà un contenuto a questa sapienza, tuttavia è solo un’indagine fenomenologica condotta fino in fondo che ci fa capire quali meccanismi consentono all’essere umano di stabilire il contatto con la realtà.

La fenomenologia classica, la descrizione essenziale proposta da Husserl, e sulla sua scia da Edith Stein, consente di spostare l’attenzione sul soggetto umano e quindi di indagare la sfera degli atti che noi registriamo come atti vissuti attraverso i quali si costituisce il mondo per noi, ad esempio la percezione, il ricordo, l’immaginazione, la valutazione, il giudizio e così via. Tali atti sono il filtro attraverso il quale il mondo esterno e quello interno passano in quanto ne abbiamo coscienza. L’articolazione degli atti vissuti è molto complessa e non è questo il luogo per affrontarne l’analisi, ma si può sottolineare l’importanza dell’evidenziazione della sfera dei vissuti perché attraverso essi passa anche la consapevolezza del nostro corpo, della nostra psiche, del nostro spirito; quindi si coglie con evidenza il rimando ad una realtà sensibile corporea, ad una realtà psichica: reattiva, impulsiva e ad una spirituale: volontaria, intellettiva, valutativa. Tutto ciò ci consente di comprendere come è costituito l’essere umano e di analizzare la radice di tutte le sue espressioni e prese di posizione.

Ogni atto da noi vissuto ha una componente hyletica o materiale e una noetica o intenzionale, la prima è da intendersi come “materia” ma non nel senso puramente fisico di cui parla la scienza, ma nel senso di una manifestazione che, data, ad esempio, attraverso le sensazioni, è accolta, intesa e valutata ed è in questa comprensione-valutazione che consiste l’aspetto noetico (Ales Bello, 2003). Nel dosaggio fra “manifestazione hyletica” e “valutazione noetica” si giocano le differenze culturali sia in senso diacronico – ad esempio le differenze fra le culture arcaiche e quelle storiche – sia in senso sincronico fra la cultura occidentale e le altre culture. Ciò significa che le differenze culturali, per essere veramente comprese, devono essere ricondotte alla dimensione dei vissuti soggettivi e collettivi; analizzandoli si costata che una straordinaria continuità in senso diacronico in quanto gli atti vissuti dagli esseri umani sono gli stessi dal punto di vista strutturale, le variazioni che sono alla base delle differenze culturali riguardano i loro contenuti e le loro combinazioni. Quando si parla di una cultura comune ad un gruppo ciò accade perché le modalità del rapporto manifestazione-valutazione sono vissute sia strutturalmente sia relativamente ai contenuti in comunanza; al contrario in diverse culture, pur permanendo l’aspetto strutturale, che consente di affermare che siamo tutti esseri umani, le variazioni sono attribuibili a contenuti e combinazioni diverse degli atti vissuti (1).

È opportuno a questo punto esemplificare le indicazioni sopra riportate che sono il risultato di analisi molto sottili ed espresse in termini tecnici nella ricerca filosofico-fenomenologica, ma che, al dilà della complessità teorica e della specificità terminologica, consentono l’evidenziazione dei nostri modi di vita. E volendo stabilire un nesso fra tale chiave interpretativa e l’argomento oggetto della presente trattazione, si può osservare che proprio le difficoltà dell’elaborazione teorica permettono di comprendere la differenza fra i Greci e Colchi. I primi sono quelli che ci hanno insegnato ad analizzare criticamente, a scavare per capire – momento culminante di questo processo è, appunto, l’Atene dell’età dei Sofisti -, gli “altri” spesso sono vissuti o vivono ancora senza il tarlo della criticità spinta all’estreme conseguenze; i primi hanno sviluppato, utilizzato proprio il momento noetico potenzialmente presente in tutti gli esseri umani, ma qui particolarmente esercitato. Ciò è intuito sia da Euripide quando coglie la differenza fra la razionalità greca e la barbarie dei Colchi, sia dalla Wolf quando vuole rovesciare la presunzione di superiorità dei Greci e fa dire a Medea rivolta a Leuco “Tu rendi le sensazioni prigioniere delle tue idee. Lasciale libere e basta” (Wolf, 1996, p. 169).

In realtà non si tratta di liberare le sensazioni, ma di vedere il valore di tutta quella sfera psichico- corporea che costituisce di per sé una “materia” per la valutazione, con un possibile doppio esito: il momento intellettuale-valutativo può chiudersi orgogliosamente in se stesso respingendola e sottovalutandola oppure può accoglierla fino al punto da essere trascinato da essa. In ogni caso quella sfera e quella dimensione che chiamiamo hyletica è sempre presente nel nostro processo vitale: l’attrazione o la repulsione dei colori, dei suoni, delle immagini potenti, il miscuglio di sensazioni fisiche e di “sentimenti sensoriali”: il bianco ci attrae perché ci dà pace, il nero ci inquieta, ma forse è questa la ragione per cui spesso lo scegliamo; e ancora, il bianco e il nero sono segno vita e di morte? Per alcune culture sì, per altre non è così. Se il bianco è quello delle ossa scarnificate del cadavere lasciato alle intemperie o agli animali, allora, la morte si mostra come qualcosa di bianco. E tutto questo ha costituito il primo nucleo di una valutazione sacrale, il riconoscimento di una “potenza” della cosa che affascina o atterrisce, perché l’essere umano ha sempre colto in sé la presenza di un’Ulteriorità che afferra e consola oppure minaccia e distrugge. Può non volerla vedere, ma quella è sempre presente. Hyletica e sacralità nelle culture arcaiche sono legate e lo sono anche in molte religioni storiche, come si evince chiaramente dalla religiosità popolare perché si crede che la Potenza di cui l’essere umano oscuramente sente la presenza sia espressa e realizzata in qualche cosa di eccezionale che colpisce i sensi e l’immaginazione e che, pertanto, è ritenuta sacra in quanto potente.

Per le ragioni che sono state indicate nella Medea di C. Wolf si intravede un’indicazione che conduce alla sfera hyletica , ma essendo ella figlia della cultura occidentale e del suo razionalismo vuole eliminare ogni relazione con la dimensione del sacro. Esaminiamo questi due aspetti.

In primo luogo particolarmente significativo è il tentativo di cura della figlia del re di Corinto Glauce, affetta dall’epilessia attuato da  Medea. Ella la cura a livello fisico e psichico, convinta della continuità dei due momenti: la cura con pozioni e massaggi che rilassando le membra inducono uno stato di calma il quale, a sua volta, consente di entrare nella profondità della psiche e di attuare una sorta di psicoanalisi. La Wolf proietta un metodo di cura contemporaneo in una cultura arcaica considerando, forse, tale terapia, la psicoanalisi, appunto, come una riscoperta all’interno della cultura occidentale di una modalità terapeutica alternativa a quelle elaborate sulla base di una visione scientista, funzionalista, positivista della medicina e aggiungendo anche un’interessante circolarità fra corpo e psiche, prevalentemente abbandonata nella nostra cultura che a fatica ha riconquistato la psiche, ma la tratta come una dimensione a se stante.

C. Wolf, tuttavia, dimentica che nelle culture arcaiche la terapia è accompagnata sempre da una visione sacrale della realtà, mentre Medea, a suo avviso, può essere considerata come un prototipo  di emancipazione proprio perché ha “perso” la fede da quando ha visto compiere il rito sacrificale dell’uccisione del fratello da parte delle vecchie donne della Colchide. Ella si è resa conto in quel frangente che i riti arcaici sono disgustosi; ma, potremmo aggiungere, non è stata capace di separare il momento religioso autentico dalla  ferocia di riti tribali. L’ateismo è per Christa Wolf un conquista e chi è “moderno” non può essere religioso, ma in tal modo perde la peculiarità della visione del mondo arcaica. La intravede, ma non riesce a penetrarla interamente.

Come si può notare ci sono profonde oscillazioni nella posizione della Wolf. La sua critica alla ragione strumentale di tipo illuminista e positivista non si accompagna ad una rivalutazione globale del passato. Lo spazio dato alla sensazione e all’immaginazione rimane ancora sul piano astratto del logos occidentale dal quale in ultima istanza non sa liberarsi. Euripide ne propone le fondamenta, la Wolf ne coglie l’insufficienza, riandando, però, ad un’arcaicità interpretata non nella sua autenticità, ma dipinta sulla base di un vagheggiato ritorno al passato.

Un aspetto, anche se non sviluppato, rimane autentico: l’attrazione hyletica delle pozioni e l’efficacia manipolatrice dei massaggi. Ma per quanto riguarda le pozioni qui si sottolinea solo del loro aspetto benefico; la Wolf respinge l’idea di una magia nera, accettando solo quella di una magia “bianca”, in altri termini rifiutando il sacro rifiuta anche il male. L’utopia marxiana secondo la quale la società futura sarà tutta positiva e il male annullato riemerge nella considerazione emblematica della figura di Medea.

Al contrario interessanti suggerimenti a proposito dei filtri di Medea vengono da un’altra fonte, quella relativa all’opera tragica di Seneca dalla quale non ci aspetteremmo un simile contributo data la posizione filosofica dell’autore; chi più di lui sembra essere il sostenitore del logos occidentale? Infatti egli ritiene che il Logos tutto regga; regge il corso degli astri, l’alternarsi delle stagioni, le vicende umane e proprio l’essere umano deve uniformarsi ad esso per far prevalere la ratio contro le passioni; per tale ragione la figura di Medea è tragica, perché tutta la vicenda che la riguarda è tale: nefas è stata l’operazione degli Argonauti, come nefas è l’azione di Medea. Ma chi è questa Medea che come maga si contrappone al logos?

Il momento hyletico è ben descritto attraverso le parole della nutrice nell’approssimarsi dell’epilogo, quando Medea sta preparando il veleno che ucciderà la rivale. La nutrice racconta di averla udita dire:

Piccoli sono questi mali e vale poco l’arma generata dal cuore della terra: chiederò veleni al cielo. E’ tempo ormai di compiere qualcosa di più grande dei volgari malefici. Scenda il dragone che si snoda come un vasto fiume e allaccia nelle immense spire le due Orse (quella buona ai Pelasgi, questa ai Fenici), allenti finalmente il Serpentario la stretta delle mani e faccia piovere il veleno (Seneca, c60 d.C./1994, p. 143).

Ciò che è mostruoso e potente, benefico o malefico che sia,  riempie quella apertura profonda dell’essere umano verso il mistero e si configura in mostri creati dall’immaginazione la quale lavora su ciò che impressiona a livello percettivo – tra gli animali sono scelti i serpenti che hanno nelle diverse culture significato positivo o negativo–; esso è manifestazione della sacralità nel suo doppio versante di salvezza e distruzione. È il numinoso e il tremendum di cui ci parla Rudolf Otto (1917/1998) nel suo Il sacro, che si configura attraverso momenti colti nella natura che ci colpiscono per la loro eccezionalità e irraggiungibilità – ad esempio le due Orse, lontani agglomerati di stelle – e che quindi sono ritenuti divini perché ci fanno reagire interiormente suscitando “sentimenti sensoriali” come la paura e il senso della nostra finitezza e ad essi attribuiamo la totalità e la potenza che oscuramente sentiamo vivere dentro di noi e che non abbiamo potuto produrre da noi stessi, ma che ci proviene da Altro. La dimensione hyletica è, dunque, il medium di attribuzione e realizzazione del sacro soprattutto nelle culture arcaiche.

La preparazione del veleno che ci è descritta da Seneca è particolarmente interessante in quanto disvelatrice della potenza presente nei prodotti della natura:

…ogni prodotto che la terra genera in primavera, al tempo dei nidi, o quando il rigido inverno ha disperso lo sfarzo dei boschi stringendo tutto in una morsa di ghiaccio; qualunque stelo sboccia in un fiore mortale, o cela nell’intrico delle radici un succo nocivo, lo tocca la sua mano. (…) Sminuzza le erbe micidiali, spreme la bava velenosa dei serpenti, vi mescola uccelli sinistri, il cuore di un tetro gufo, le viscere di stridula strige sventrata viva (Seneca, c60 d.C./1994, p.147).

Gli aggettivi usati in questo brano sono significativi perché esprimono la modalità dei corrispettivi sentimenti sensoriali: il rigido inverno è captato dalla sensibilità del corpo, lo sfarzo dei boschi è colto attraverso la vista, il tetro gufo è tale alla vista e all’udito, ancora la stridula strige ferisce l’udito, a queste sensazioni si associano le reazioni, i sentimenti sensoriali, di disagio, inquietudine, spavento. Qui si manifesta la potenza negativa del Sacro.

Christa Wolf sottolinea solo la potenza positiva della cura affidata ad elementi naturali, si potrebbe affermare che esprime ciò che il movimento della new age teorizza.

 

Medea donna: Il femminile tra privato e pubblico

Il romanzo di Christa Wolf è in realtà più che un “romanzo” secondo la comune accezione. E’ anche in parte una ricostruzione storica del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale. Che ci sia stato un matriarcato in tutte le culture del mondo, si potrebbe dire, è documentato; quali siano stati i poteri effettivi dello donne è difficile rintracciare; che esse avessero una posizione importante è testimoniato dal culto della Dea madre, presente ovunque
(2) – recentemente ho potuto costatare la presenza di una Dea della fertilità arcaica perfino nel museo di Islamabad in Pakistan – e poiché la dimensione sacrale era in quelle culture pervasiva e penetrante in ogni aspetto della vita umana è possibile che il femminile avesse un posto di rilievo. Basti ricordare l’inizio del bellissimo Inno omerico a Gea: “Gea canterò, la madre universale, dalle salde fondamenta, / antichissima, che nutre tutti gli esseri, quanti vivono sulla terra; / quanti si muovono nella terra divina o nel mare / e quanti volano, tutti si nutrono dell’abbondanza che tu concedi.”.

Che ci sia stato un momento di passaggio, forse legato alle invasioni degli Indoeuropei che recavano con loro una società guerriera, patriarcale, dominata da divinità maschili, è anche possibile per quanto riguarda, appunto, l’Europa e l’Asia. Delfi può essere la testimonianza di un luogo dove è avvenuto il “passaggio”: il culto femminile presente dal tempio circolare detto tholos che si trova ai piedi del colle, ora dedicato ad Athena, è stato scalzato da Apollo - forse un eroe venuto dal mare con i suoi guerrieri – che ha stabilito il culto ad una divinità maschile, collocato più in alto, utilizzando in ogni caso le capacità mantiche di una donna, la Pitia? Non a caso nell’Inno omerico ad Apollo è detto: “Allora balzò fuori dalla nave Apollo, il dio arciere, / simile a un astro che appare il pieno giorno: da lui / scaturivano faville innumerevoli, e il fulgore giungeva fino al cielo”. Egli appare ad alcuni marinai che diventeranno suoi sacerdoti a Delfi.

Se tutto ciò è plausibile è avvento un passaggio, il maschile ha preso il sopravvento. È chiaro, allora, che il movimento di rivendicazione del ruolo del femminile doveva essere interessato alla figura di Medea. Ma proprio alla Wolf era sorto un sospetto: come poteva una delle ultime esponenti del matriarcato arcaico, Medea, appunto, aver ucciso i figli secondo l’interpretazione data da Euripide? Se si legge il commento di Christa Wolf (1999) intitolato L’altra Medea: premesse a un romanzo si coglie bene il suo itinerario interiore; ella scrive l’undici novembre del millenovecentonovantuno: “Un trionfo – nel campo dove per me i trionfi significano ancora qualcosa: a Wolfsberg il direttore di un museo mi ha messo in contatto con una specialista di Medea che vive a Basilea – grazie a lei ho avuto conferma delle mie supposizioni: nelle fonti più antiche Medea non uccide i suoi figli, il primo ad attribuirle l’infanticidio fu Euripide; lei porta i figli al tempio di Era, là poi saranno i corinzi a ucciderli” (p. 28).

A mettere la Wolf sulla buona strada è proprio Margot Schmidt, che ammette di essere “perseguitata” da Medea “non solo perché è una figura che amo, ma anche perché nel corso degli anni mi si è fatta incontro sotto forma di immagini sempre nuove, nelle quali rivela nuovi lati inattesi” (Wolf, 1999, p. 29). La Schmidt è autrice della voce Medea del Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae in cui scrive: “Con tutta probabilità il motivi dell’infanticidio nella forma presente in Euripide fu associato a Medea in chiave di rea vendicatrice solo nella tragedia rappresentata nel 431” (citato da Wolf, 1999, pp. 56-57). Ci sono altre fonti in particolare lo scolio a Euripide, Medea 264 in cui si sostiene che ella avrebbe lasciato i figli nel Santuario di Era a Corinto dove li credeva al sicuro, ma i Corinzi li avrebbero uccisi. Pertanto ella non sarebbe stata l’autrice dell’infanticidio. In ogni caso il racconto che riguarda Medea rivela successive stratificazioni, confluenze di miti, come si evince dal carteggio fra la Wolf e la Schmidt, dal quale emerge che gli uomini regnavano solo perché le donne permettevano loro di farlo. Questo riguarda il padre e la madre di Medea ed anche il rapporto fra Medea e Giasone, tanto più che ella è una figura femminile umana e sovrumana insieme, perché i diversi miti e le raffigurazioni rivelano anche quell’aspetto del sacro pervasivo che fa della stessa Medea una dea, dea ctonia che può dare e togliere la vita.

Tutto ciò premesso, sembra molto opportuna la domanda che Petra Kamman rivolge alla Wolf in una intervista pubblicata sul “Buchjournal” nel 1966: “Secondo Lei avrebbe senso un ritorno al matriarcato? “ La risposta dell’autrice è perentoria “Per l’amor di Dio, no!” (citato da Wolf, 1999, p. 11). È necessario un progresso e non un regresso. E, allora, in che cosa si può cogliere il “progresso”? Un punto importante per la Wolf è quello di ridare un’immagine umana a Medea, come si è già indicato sopra, sottraendola alla dimensione del divino. Ma c’è un seconda considerazione che può essere più interessante e quella che riguarda il rapporto fra maschile e femminile descritto nel romanzo.

Ci sono uomini infidi, prevaricatori e assetati di potere, il prototipo è Giasone, ma questa tipologia comprende Eete, il padre di Medea, Creonte, il re di Corinto, Acamante, l’astronomo del re Creonte. E’ presente, tuttavia, un’altra schiera di personaggi maschili, frutto di fantasia o forse si potrebbe dire di desiderio – nel senso che si desidererebbe che esistessero veramente – come Oistros, lo scultore con il quale Medea stabilisce un rapporto amoroso ed anche Leuco, secondo astronomo del re Creonte. Due personalità affini ed anche diverse. Entrambi, schivi e non attirati dal potere, fanno due mestieri che li isolano dalla città, Leuco che vive quasi sempre sulla sua torre e Oistros che si chiude nella sua creazione artistica. Leuco appare nel romanzo come una “voce” autonoma che parla anche dell’altro uomo descrivendone il carattere. Essi rappresentano rispettivamente l’amicizia, Leuco, e l’amore, Oistros, che si possono istaurare con una donna, Medea, appunto. Il primo è preoccupato per la sorte della sua amica che sente minacciata dai Corinzi, l’altro sembra non vedere; forse, fatalisticamente, accetta. Leuco sostiene che ha un carattere “noncurante”, nel senso che non ha cupidigia di denaro, non prova invidia, sa creare intorno a sé un clima di serenità e valuta tutti gli esseri umani allo stesso modo: “sono certo che non si sarebbe dato arie nemmeno se il re Creonte avesse smarrito la strada finendo a casa sua” (Wolf, 1996, p.165).

 Il rapporto fra Medea e Oistros è raccontato da Leuco, uomo mite ma debole, che non sa prendere una posizione precisa, con il quale si può essere amici perché si possono discutere anche i propri sentimenti, ma che non si può amare. Si può amare chi è affidabile, colui che la ha salvata quando inseguita dalla folla la fa rifugiare nella sua casa lontano dal centro della città e quindi dal potere.

Mi sembra che l’ideale per la Wolf nel rapporto uomo donna sia quello di stabilire una relazione sull’affidabilità reciproca, sulla parità nella differenza. A differenza di quelle femministe che rifiutano ogni rapporto  con il maschile la Wolf sembra volerlo e per questo “idealizza” una figura di uomo i cui valori sono quelli più profondi che ne fanno un punto di riferimento non eclatante, ma sicuro e non solo per se stessa, ma anche per gli altri.

Mi sembra che ella alluda ad una sorta di reciprocità fra maschile e femminile che si può coniugare con quella che chiamo “antropologia duale” (3). La diversa configurazione del femminile  del maschile che riguarda tutte le dimensioni dell’essere umano, quella corporea, quella psichica e quella spirituale può essere fonte di conflitto oppure di accordo. Ciò è sottolineato anche da Euripide (431 a.C./1954), che nel prologo alla tragedia afferma: “ Se non sorgono screzi tra uno sposo / e una sposa, piacevole è la vita, / e la fortuna è immensa!” (p. 107). Egli auspica un accordo fra i due sessi, ma difficoltà riaffiorano nel corso della tragedia sia da parte del femminile che denuncia la sua fragilità e anche la sua sottomissione naturale e culturale, sia da parte del maschile che maledice la necessità dell’unione fra uomo e donna per mezzo delle parole di Giasone: “…Oh, se fosse / possibile ai mortali avere figliuoli / in qualche altra maniera, e se la donna / non esistesse! I mali che ci affliggono, / credi, scomparirebbero d’incanto!” (Idem, p. 134).

Esaminiamo il primo punto in Euripide. Medea, pur essendo nipote del Sole, è pur sempre una donna, la mescolanza fra divino e umano non la esime dall’avere una natura di donna: “…Tu possiedi conoscenze / ignote agli altri, senza dire che / noi donne, se siam fatte da natura incapaci di compiere del bene, / nel male non v’è alcuno che ci superi” (Idem, p. 126). Quindi le donne per natura non sono capaci di fare il bene; il giudizio di inferiorità morale è molto chiaro. Questo giudizio sembra attenuato nelle parole del coro, perché anche gli uomini sono perfidi, ma mentre si tende ad equilibrare i due generi, si procede ad una ulteriore evidenziazione  della debolezza naturale della donna, incapace di “poetare” e questo è detto da un poeta, Euripide, appunto:

Giunta è l’ora che smettano le Muse

degli antichi poeti di cantare

le viltà femminili. Se anche a noi

Febo, signore degli inni, avesse dato

il dono della poesia, qualcuna di noi eternerebbe le perfidie degli uomini. Ma il tempo

ha raccolto una messe molto ricca

di eventi sulla vita

dolorosa dell’uomo e della donna. (Idem, p.127).

La compassione per la condizione umana presa nella sua interezza non esime dal riconoscere un ulteriore motivo di inferiorità della donna. Ci si può chiedere se sia proprio questa debolezza naturale che determina anche la subordinazione sociale nella prospettiva qui espressa da Euripide. Probabilmente è così. Allora egli, pur mettendosi in qualche momento “dalla parte delle donne”, non ne può sostenere fino in fondo la causa perché questa presupporrebbe una pari dignità.

È a questo proposito che culturalmente il cristianesimo – non i cristiani – ha dato un impulso a rivedere proprio la questione della natura della donna. Ciò è avvenuto lentamente e con molta difficoltà, ma erano ormai state poste le basi teoretiche per stabilire, secondo il testo già presente in Genesi (1, 26-28) relativo all’essere immagine di Dio sia la donna che l’uomo, la fondamentale parità nella dignità. E questo che consente a Christa Wolf e a tutto il movimento femminista di rivendicare la propria autonomia e a richiedere la visibilità pubblica delle donna.

Ho avuto occasione di ripercorrere la storia del femminismo occidentale e ho notato che le sue origini negli Stati Uniti d’America sono cristiane (4); il movimento ha poi subito un processo di laicizzazione, quello stesso che ha investito gran parte della cultura occidentale per cui ora si è perso il ricordo delle radici religiose del movimento. E questo è chiaro nel libro della Wolf; si è notato, infatti, che il processo di liberazione della donna per lei passa attraverso l’eliminazione del momento religioso, presupposto per la rivendicazione del ruolo sociale e politico della donna. Ci si può chiedere se questi due aspetti debbono essere necessariamente connessi, oppure se proprio una revisione dell’antropologia su basi cristiane possa comportare un ripensamento del rapporto natura-cultura per quanto riguarda sia il maschile che il femminile in una prospettiva di antropologia duale.

Christa Wolf, nella sua posizione laicizzata che mantiene, però, alla lontana i fondamenti teorici della tradizione ebraico-cristiana, ci dà con la sua interpretazione del ruolo del femminile certamente un progresso rispetto alla posizione che emerge nel teso euripideo attraversato da una “tensione” di avvicinamento simpatetico verso il femminile, ma anche da un distacco che in qualche punto raggiunge venature scettiche a causa delle visione pessimistica della natura femminile che rimane nello sfondo del dibattito sull’argomento che sembra riproporre sulla scena.

Il confronto fra il due autori in ogni caso è stimolante perché ci costringe a ripensare i due nuclei problematici su i quali mi sono soffermata relativi all’incontro-scontro fra culture e al rapporto maschile-femminile facendo riferimento a due momenti fondamentali per la civiltà occidentale, quello derivante dalle basi teoriche fornite dalla filosofia greca e quello legato alla tradizione religiosa ebraico-cristiana. Si intravede sulla sfondo un terzo tema, quello relativo al rapporto bene – male e al loro conflitto nella realtà storica: al pessimismo di Euripide fa da contraltare l’utopia della Wolf. Ciò non significa che non si possa lottare per la realizzazione del bene e che non si possa sperare nella sua vittoria.

Si può notare che lo scavo all’interno di testi pur così lontani, come quelli di Euripide e di Seneca, ci conteste di avvicinarli sia rispetto ai problemi umani sempre presenti nella loro fondamentale somiglianza sia rispetto all’analisi della nostra cultura che vive, qualche volta drammaticamente, l’incontro fra le diverse prospettive qui messe in evidenza. Anche l’approfondimento di due testi letterari, uno del passato e uno del presente, ci riconduce, come si è cercato di mostrare, a questioni filosofiche di fondo attraverso le quali essi possono essere ulteriormente illuminati.

 

Riferimenti bilbiografici

Ales Bello, A. (1997). Culture e religioni: una lettura
           fenomenologica. Roma: Città Nuova.

Ales Bello, A. (Org.). (2001). Le figure dell’altro. Cantalupa: Effatà.

Ales Bello, A. (2003). L´universo nella coscienza: introduzione alla fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius. Pisa: ETS.

Ales Bello, A. (2004). Sul femminile: scritti di antropologia e religione. (M. D’Ambra, Ed.). Troina: Città Aperta.

Bachhofen, J.J. (1938). Du règne de la mère au patriarcat. (A. Turel, Trad. e Ed.). Paris: Félix Alcan. (Edizione originale nel 1861).

Euripide (1954). Medea.(D. Ricci, Trad.). Milano: Biblioteca Universale Rizzoli. (Originale del 431 a.C.).

Husserl, E. (2002). La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. (E. Paci, Pref.; E. Filippini, Trad.). Milano: Net. (Edizione originale nel 1950).

Seneca, L.A. (1994). Medea. (A. Traina, Trad.). Milano: Biblioteca Universale Rizzoli. (Originale del 60c).

Nietzsche, F. (2003). La nascita della tragedia. (V. Vitiello e E. Fagiuoli, Edd.; U. Fadini, Trad.). Milano: B. Mondadori. (Edizione originale nel 1872).

Otto, R. (1998). Il sacro. (A. Tagliapietra, Ed; E. Buonaiuti, Trad.) Milano: Gallone. (Edizione originale nel 1917).

Wolf, C. (1990). Cassandra: perché volli a tutti i costi il dono della veggenza? (A. Raja, Trad.). Roma: Edizioni E/O. (Edizione originale nel 1983).

Wolf, C. (1996). Medea. (A. Raja, Trad.; A. Ciarloni, Postfaz.). Roma: Edizioni E/O. (Edizione originale nel 1996).

Wolf, C. (1999). L’altra Medea: premesse a un romanzo. (C. Guidi, Trad.). Roma: Edizioni E/O. (Edizione originale nel 1998).

 

Note

(1) Per l’applicazione della descrizione fenomenologica dei vissuti all’indagine interculturale e interreligiosa rinvio al mio Culture e religioni, una lettura fenomenologica (Ales Bello, 1997). Sul tema delle diversità culturali lette in chiave filosofica e fenomenologica: Le figure dell’altro (Alles Bello, 2001).(volta).

(2) Nel libro della Christa Wolf (1999) L’altra Medea:premesse a un romanzo, contenente il carteggio intercorso fra l’autrice e alcune studiose, una conferma di questa tesi si trova in un lettera di Heide Göttner-Abendroth, fondatrice dell’Accademia di Ricerca ed Esperienza critica su Matriarcato, in essa si legge: “…Le scrivo anche se sono in partenza per la Cina, un viaggio nei luoghi del matriarcato. Ma si tratti di Cina, Grecia o Messico (sul quale sto scrivendo al momento) – il tema è universale” (p. 47).(volta).

(3) Ho sviluppato questa tematica in Ales Bello, 2004: Sul femminile:scritti di antropologia e religione.(volta).

(4) Rimando al mio libro Sul femminile (Ales Bello, 2004), in particolare all’Introduzione: La donna: storia e problemi – Le radici cristiane del femminismo, pp.3-45.(volta).

Nota al riguardo dell´autrice

Angela Ales Bello è professore ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma, Italia. Dirige il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche. È direttore della rivista “Aquinas” e fa parte del comitato di redazione di numerose riviste italiane e straniere fra cui “Per la filosofia”, “Segni e Comprensione”, “Analecta Husserliana”, “Phenomenological Inquiry”; collabora con “Recherches Husserliennes” e “Studien zur interkulturellen Philosophie”. Contatto: Pontificia Università Lateranense, Facoltà di Filosofia, Piazza San Giovanni in Laterano n.4, Città del Vaticano (00120).

Data de recebimento: 25/01/2005
Data de aceite: 27/04/2005

Memorandum 8, abr/2005
Belo Horizonte: UFMG; Ribeirão Preto: USP.
http://www.fafich.ufmg.br/~memorandum/artigos08/alesbello03.htm

 

 

 

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